di Gianni Sartori

Quando mi era giunta la notizia della morte dell’amico Duma Joshua Kumalo (uno dei sei di Sharpeville), scomparso il 3 febbraio 2006 a CapeTown, durante una conferenza, la memoria mi era andata immediatamente alla vicenda analoga di Sergio Caneva.

Due storie diverse, geograficamente lontane, ma forse complementari.

Prigioniero politico nel Sudafrica dell’apartheid (anni ottanta) Duma raccontava di aver “passato sette anni in prigione e tre nella cella della morte, ho ottenuto la grazia dodici ore prima di essere impiccato. Soltanto oggi comprendo come questa esperienza abbia segnato la mia identità e sia alla base delle ferite e dei ricordi frammentari che compongono la mia storia personale”.

Scampato alle forche dell’apartheid, Duma aveva letto molto sulle esperienze dei sopravvissuti all’Olocausto, cercando di trovare un senso, una spiegazione per le sofferenze inflitte da un sistema di sfruttamento, oppressione e razzismo istituzionalizzato. Voleva, come Primo Levi che talora citava, ricordare e testimoniare affinché l’orrore di quanto era accaduto non potesse ripetersi.

Da molti anni lavorava senza sosta per il Khulumani survivor support group, un’associazione di aiuto per i sopravvissuti dell’apartheid, per coloro che avevano subito la brutalità del regime, aiutandoli a raccontare le loro esperienze.

E spiegava: “Sono stato privato del diritto di essere felice il giorno in cui ho compreso cosa fosse l’apartheid. Mi sono messo alla ricerca e da quel momento ho dovuto scavare sempre più profondamente nel passato e provare ancora più amarezza. Quello che ho compreso non riguarda il dolore della morte, ma il dolore della mia vita. Confrontarsi con la morte è difficile, ma confrontarsi con la vita dopo aver visto in faccia la morte è ancora più difficile”.

Era riuscito a farlo con grande dignità, come stanno a dimostrare la sua vita familiare, l’intensa attività culturale, le rappresentazioni teatrali con cui ha dato testimonianza delle ingiustizie subite dal suo popolo.

Quel giorno, il 3 febbraio 2006, l’apartheid fece un’altra vittima. Il suo cuore generoso, infaticabile, segnato dalle sofferenze e dai ricordi, aveva ceduto durante una delle tante conferenze a cui veniva chiamato. Qualche settimana prima, al telefono, si era parlato del materiale (manifesti, fotografie di manifestazioni antiapartheid nell’Europa degli anni ottanta) spedito a Sharpeville e inserito nel museo appena inaugurato. 

In circostanze simili se n’era andato il 23 aprile del 1993 – a 73 anni – un altro amico, Sergio Caneva, medico e partigiano vicentino. Due giorni prima del 25 aprile durante una conferenza sulla Resistenza (nell’aula magna della scuola media di Cavazzale) in preparazione appunto della festa della Liberazione. Iniziativa organizzata dal prof Perini.

Due tragedie avvenute senza preavviso. Una momentanea amnesia per Caneva che poi si era accasciato e – presumibilmente – un attacco cardiaco per Duma (con quel cuore generoso, martoriato dalle torture, dalle minaccia incombente della forca…).  

Sergio Caneva, nato nel 1919 ad Arzignano, oltre che dirigente provinciale, era stato per anni consigliere nazionale dell’ANPI. Dopo l’8 settembre 1943, studente di medicina ed esponente del Partito d’Azione, prese “la strada dei monti” svolgendo una pericolosa attività clandestina come ispettore delle formazioni partigiane della Divisione “Pasubio”. Venne condannato dal regime di Salò a 30 anni (in contumacia) mentre due suoi fratelli venivano deportati nei campi di sterminio. Macabra coincidenza. I loro resti erano stati riportati in Italia soltanto un mese prima della sua scomparsa e non si può certo escludere che proprio quel rinnovato dolore lo abbia alla fine stroncato.

Laureatosi nel dopoguerra, aveva inizialmente operato come chirurgo all’Ospedale Civile di Arzignano. in seguito, come psichiatra, aveva curato centinaia di persone (molte donne, spesso vittime di una mentalità retriva e maschilista diffusa nel Veneto “bianco”) all’ospedale psichiatrico di Vicenza, prodigandosi anche – nel tempo libero -per curare gratuitamente i diseredati.

Autore, oltre che di molte pubblicazioni scientifiche,del libro “Resistenza civile e armata nel Vicentino” (scritto con Remo Prenovi), si era dedicato alla testimonianza assidua di quel che avevano rappresentato i lunghi mesi della Resistenza antifascista attraverso un gran numero di conferenze (soprattutto nelle scuole). 

Ma, come aveva ricordato nell’orazione funebre, davanti a centinaia di persone, l’avvocato Lino Bettin (all’epoca presidente dell’ANPI vicentina) “quello che non potremo mai dimenticare di Sergio è la sua umanità nella comprensione degli altri. Il senso e il gusto quasi francescano della vita. Il disprezzo per la società consumistica, il sogno irrealizzabile della “città del sole”. E, ricordava a tal proposito Bettin che ne condivise l’esperienza, l’immenso “impegno umano, civile e politico” mostrato da Sergio in numerosi incontri internazionali (in particolare negli anni cinquanta e sessanta) in difesa della pace, della solidarietà tra i popoli. Oltre che della “giustizia sociale, della libertà reale”.

Avevo avuto l’onore di conoscerlo nei primissimi anni settanta quando, se pur saltuariamente, partecipavo, insieme ad un eterogeneo gruppo di libertari variamente assortiti (dal fricchettone all’aspirante situazionista, dall’anarchico vecchio stampo al giovane operaista incerto…) ai volantinaggi davanti al suo “posto di lavoro”. Almeno un trentina di volantini di denuncia vennero distribuiti nel corso di un paio d’anni (1971-1972, regolarmente, mediamente uno ogni 15 giorni) ai familiari dei reclusi nel locale manicomio (così era chiamato, senza eufemismi, in epoca pre-Basaglia). Quasi una lotta d’avanguardia per chi aveva letto, se non La maggioranza deviante, almeno Morire di classe. Denunciando le violenze, i ricoveri coatti (una sorta di TSO di massa) nei confronti di soggetti scomodi (“disadattati” secondo l’ideologia dominante) improduttivi, sostanzialmente non addomesticati. Dall’interno c’era chi ci sosteneva, informava, guidava: appunto il compianto Sergio Caneva, fedele e coerente con la sua giovinezza partigiana.

Per dovere di cronaca riporto quanto mi ha “rivelato” in seguito un militante operaio degli anni sessanta, passato dal PCI ai marxisti-leninisti e in seguito anche per Lotta comunista, Franco Pianalto). Ossia del ruolo fondamentale svolto sotto traccia nella controinformazione da suo cugino, un altro CANEVA, Sante (quasi omonimo del medico Sergio, ma non parente). Provenivano anche da lui, oltre che da Sergio, parte delle informazioni sulla vergognosa situazione in cui versavano i reclusi. Per il suo impegno era destinato a subire angherie di vario genere (mobbing ante litteram ?) che contribuirono, nel corso degli anni successivi, ad avvelenargli non poco la vita. Ancora negli anni sessanta, Sante Caneva in collaborazione con un altro sindacalista e socialista (un Sartori di cui si son perse le tracce) aveva denunciato l’assurda situazione per cui i reclusi vennero in pratica costretti per quasi due anni a “mangiare con le mani”. In quanto i dirigenti non trovavano un accordo sui cucchiai (se dovevano essere di legno oppure di stagno, non è una barzelletta). D’altra parte questa era la realtà delle istituzioni totali prima del tanto vituperato 68! A entrambi i due Caneva (Sante e Sergio) va reso quindi il dovuto onore.

Animato evidentemente da spirito ecumenico, oltre che dalle migliori intenzioni, Sergio organizzò qualche incontro (nella vecchia sede della CGIL) tra alcuni sindacalisti di area sia comunista che socialista e noi giovani esuberanti.

Tra l’altro ricordo di aver incontrato per strada, mentre mi recavo alla prima riunione, alcuni militanti di Servire il popolo invitandoli senza problemi ad aggregarsi.Se i nostri interventi a favore di emarginati, lumpen etc (individuati, forse a torto, come le principali vittime del Sistema) avevano lasciato perplessi i sindacalisti, l’intervento di un maoista che raccontava di un loro compagno afflitto da problemi psichici, risolti (giuro!) grazie alla lettura quotidiana del Libretto Rosso, rischiò di stroncare sul nascere ogni possibile collaborazione. 

Un altro ricordo più personale. Visto che entrambi navigavamo in quella “terra di nessuno” che sta (meglio, stava) tra l’ortodossia leninista e le svariate eresie e derive di sinistra (tra situazionismo e bordighismo, tra Rosa Luxemburg, Victor Serge, Berneri… e i fratelli Rosselli) mi prestò un raro esemplare del libro di Azzaroni su “Blasco” (Pietro Tresso, comunista antistalinista) di cui allora, nonostante fosse nato a Magré di Schio, nel vicentino quasi non si parlava. Evidente rimozione di un soggetto scomodo. Se non ricordo male era quello originale, edito da Azione Comune, nella versione in lingua francese.

Negli anni ottanta poi (mi pare nel 1987), casualmente, ci ritrovammo entrambi in lista con Democrazia Proletaria come “indipendenti”. Ovviamente brucia il rammarico di non averlo frequentato di più, ma anche la consapevolezza che averlo conosciuto (così come per Duma) è stato un onore.

Gianni Sartori

Pubblicità