di Gianni Sartori

Meglio premunirsi. Prima che la logica mercantile, geopolitica e “spettacolare” finisca con lo svuotare definitivamente, oltre a quelli di ambientalismo edi ecologia (ridotti a espediente, inganno pubblicitario) anche quello di autodeterminazione dei popoli. Sia con l’indipendentismo “a geometria variabile”, sia con le evidenti strumentalizzazioni a cui stiamo assistendo.

Parliamone quindi ricordando che un tempo i popoli insorgevano. Per rivendicare giustizia e libertà, per scrollarsi di dosso colonialismi vecchi e nuovi.

Anche nella vecchia Europa. Se alcuni lotte rimangono storicamente emblematiche, anche a futura memoria (Irlanda, Paesi Baschi…) non è stata certo irrilevante quella condotta dalla popolazione di una piccola isola alla deriva nel Mediterraneo, la Corsica.

Una lotta quella dei Corsi, non dimentichiamo, di avanguardia anche per quanto riguarda la difesa del patrimonio ambientale. Purtroppo le cose sembra stiano per cambiare. E non in meglio.

Se ancora nel 1989 il compianto Yves Stella (ci ha lasciato nel 2012 all’età di 69 anni) poteva rivendicare con orgoglio che “è sotto gli occhi di chiunque che è soprattutto merito della Resistenza, del movimento clandestino se oggi le nostre coste non sono ridotte come quelle della Sardegna”, dubito che oggi potrebbe dire la stessa cosa. Del resto appare ormai evidente che proprio il turismo, magari ammantato di“sostenibilità”, arriva a disgregare territori, culture, tradizioni…anche dove la repressione si era dovuto arrestare.

Oltre al turismo, un altro elemento disgregante (peraltro in simbiosi) è sicuramente la globalizzazione. Emblematico l’episodio di qualche anno fa quando venne intercettata una nave proveniente dalla Cina con un carico di…magliette bianche con il logo del FLNC sovrapposto a un miliziano incappucciato e armato. Dalla Cina, non so se mi spiego.

Presumo per la manodopera a buon mercato, non certo per solidarietà internazionalista.

Un inciso. In tutti questi anni a far conoscere e alimentare le battaglie condotte dai Corsi ha senz’altro contribuito la periodica scadenza delle Ghjurnate Internaziunale di Corti. Un’occasione di confronto per quelli che, almeno nel secolo scorso, erano conosciuti come movimenti di liberazione.

Come il Sinn Fein irlandese, la basca  Herri batasuna, il FLNKS (Front de Libération Nationale Kanak et Socialiste) della Nuova Caledonia, la Crida a la Solidaritat catalana, l’UPGL della Guadalupa. E perfino, si parva licet, anche l’Union Valdotaine e il Partito Sardo d’Azione (non nell’attuale versione filoleghista ovviamente)…  

Superfluo poi chiedersi (come mi è capitato di sentire da qualche partecipante che nelle pause evidentemente avrebbe gradito frequentare la spiaggia e tuffarsi fra le onde) perché si svolgessero qui, a Corti “sperduta tra monti” (in faccia alle impervie “Gole del Tavignano”) e non in qualche rinomata località turistica come Bastia o Bonifacio.

La ragione appare ovvia a chi conosca minimamente la storia dell’Isola di granito.

Non solo Corti rappresenta la capitale tradizionale della Corsica, ma proprio l’interno”, la “montagna” costituiscono i luoghi emblematici, depositari della cultura, tradizione e resistenza dei Corsi.

Dal mare invece sono sempre giunte le invasioni a cominciare da quelle mitiche dei “Torreani”. Il Popolo Corso, combattivo e fiero della propria indipendenza, trovò nei monti una naturale fortezza per resistere e preservare la propria identità.

Questa non significa che la “Costa” non abbia svolto una funzione indispensabile nell’economia e cultura complessiva della Nazione corsa. Per esempio le “terre paludose e malariche” che i “piedi neri” francesi si vantano di aver “bonificato” (magari disboscando la “macchia” con le impietose ruspe) e “valorizzato” (prima con le piantagioni, poi con la speculazione turistica) fornivano gli indispensabili pascoli invernali alle numerosissime greggi, fondamento dell’economia isolana, in tempi recenti più che dimezzate.

Nel passato quindi la Costa era in rapporto organico con il resto del territorio molto più che allo stato attuale: espropriata, sfruttata e colonizzata (generalmente da “foresti”).

Senza comunque volersi soffermare troppo sul cliché della “Corsica autentica, ancestrale, caratteristica…” dell’interno (come da depliant turistici) in contrapposizione al cosiddetto ”est modernizzato”. 

Risalendo ai primordi della storia corsa, gli esperti ritengono che si dovrebbe risalire almeno fino al 6000-6500 A.C. per ritrovare insediamenti umani stabili e significativi. Di cui nel nel sud-est rimangono tracce consistenti.

Monumenti megalitici di svariata foggia e misura si trovano a Cauria (dolmen), a Palaggiu (menhir in gran numero, un’autentica Karnak corsa) e Filitosa (steli antropomorfe).

Proprio a Filitosa convivono manufatti eretti in epoche successive da diversi gruppi umano insediatisi nella zona.

I primitivi pastori si limitarono a dei monoliti non scolpiti mentre i loro discendenti raffigurarono in maniera stilizzata gli invasori “Torreani” (da queste “statue” si può dedurre che i nuovi venuti erano armati di spade dalla stazza “hiboryana”).

Infine gli stessi “Torreani”, un popolo di marinai-guerrieri, qui lasciarono segni tangibili: Le”città” (villaggi fortificati), vere e proprie fortezze megalitiche.

Talvolta possono sorgere dubbi in merito a questioni più o meno peregrine. Per esempio: si sa che vengono chiamati “Torreani” da “Torres”. Tuttavia la costruzione di torri era quasi sicuramente opera dei nativi onde sfuggire alle pratiche predatorie di questi tremendi razziatori d’oltre mare. I quali erano già approdati all’Età del Bronzo mentre i poveri autoctoni vagavano ancora per le plaghe del neolitico o giù di lì.

Anche questo si può dedurre dall’osservazione attenta delle statue-menhir. E quantomenoindicativo che dei personaggi raffigurati con spade siano stati inequivocabilmentescolpiti senza usare strumenti in metallo.

Comunque oltre alle “città” la civiltà toreano (che per alcuni studiosi risalirebbe al 3500 A.C. mentre altri, più prudentemente,la collocano tra il 1500 e il 1000 A.C.) ci ha lasciato alcuni monumentali luoghi di culto, sempre nella parte meridionale dell’isola.

Andrebbe tutto intero (o quasi) a questa prima serie di invasioni il merito della “rivoluzione culturale” con cui nuclei consistenti di autoctoni abbandonarono definitivamente usi e costumi “bucolici” (agro-pastorali) per quelli più rudi di una civiltà guerriera.

Inoltre le invasioni determinaronoconsistenti spostamenti di popolazioni verso nord e verso l’interno. Una traccia evidente di queste migrazioni interne sarebbero i ruderi di numerose torri di difesa (sul tipo dei nuraghi o dei “talaiots” delle Baleari) disseminate lungo il loro percorso.

A questo periodo farà seguito l’Età del Ferro il cui inizio in Corsica dovrebbe cadere intorno al 1000 A.C., secolo più, secolo meno. 

Presumibilmente durante il VI secolo A.C. (le cronache del tempo indicano l’anno 564 A.C.) i Greci fondarono Alalia (la futura Aleria) e -anticipando i “piedi neri” – colonizzarono la Costa Orientale.

Seguirono ulteriori tentativi di penetrazione da parte di Fenici, Cartaginesi ecc., ma con scarso successo: la fiera resistenza degli isolani riusciva a tenerli a bada.

Tutto questo interessamento nei confronti di “Kyrnos” era dovuto principalmente alla sua posizione di collegamento naturale tra le sponde meridionali e settentrionali del Mediterraneo.

L’impresa che non era completamente riuscita ad altri doveva apparire relativamente facile agli arroganti Romani (sbarcati verso la metà del II secolo A.C.), ma presto anche loro si videro costretti a fare i conti con la bellicosa tempra degli indigeni.

Quella che era sembrata una “passeggiata oltremare”, la conquista dell’isola divenuta ormai per sempre”Corsica”, si protrasse per almeno un secolo, dal 259 al 162 A.C.  

La nuova “provincia”, con capitale Aleria (ex Alalia) sarà retta, almeno in teoria, direttamente dall’imperatore. Al solito i turbolenti Corsi non mancarono di crear problemi. In proposito invito a consultare la fondamentale opera di Goscinny e Uderzo: “Asterix en Corse”, Dargaud edizioni (per correttezza riporto che da alcuni indipendentisti veniva classificato come un subdolo esempio di paternalismo neocolonialista).

E’ poi d’obbligo un accenno al più illustre tra i cittadini romani che beneficiarono del clima corso, il filosofo Seneca qui esiliato per aver sedotto Giulia, nipote dell’imperatore Claudio.

Recidivo, costrinse alcuni pastori ad intervenire energicamente per frenare gli slanci eccessivi del vecchio satiro nei confronti delle adolescenti del luogo.

Per raffreddarne i bollori senili, in rispetto alle tradizioni locali, venne fustigato a sangue con le ortiche.

I Romani comunque completarono alla grande l’opera di sfruttamento iniziata dai Greci: estrazioni di minerali nell’interno, piantagioni sulla costa orientale, produzione di sale, pesca…

Naturalmente questo comportò un processo di assimilazione culturale e linguistica da parte delle popolazioni soggette che aprì la strada alla successiva penetrazione del Cristianesimo.

Dopo i Romani (irrimediabilmente e meritatamente decaduti) si susseguirono Vandali, Ostrogoti, Bizantini, Longobardi…finché, nel 755 D.C., Pipino il Breve non trovò niente di meglio che farne dono al Papa.

Soggetta alle incursioni degli Arabi, l’isola – come se non bastasse – vide ulteriormente incentivata la sua “vocazione” (indotta forzatamente) a diventare terra predestinata per confinati e per esiliati. 

Aggiungiamo qualche epidemia e tanta miseria e si potrà facilmente comprendere perché un gran numero di Corsi si vide costretto a emigrare (usanza poi conservata a lungo).

IL MEDIOEVO IN CORSICA 

Durante gli anni compresi tra il 1077 (caratterizzato dall’inasprirsi del “contenzioso” tra Papa Gregorio VIII e l’Imperatore Enrico IV, anche costui determinato a far valere le sue pretese sull’isola) e il 1284 (Battaglia della Meloria) l’infelice Corsica venne saltuariamente affidata, spartita e contesa tra Genova e Pisa.  

Inizialmente fu di buon auspicio l’operato del vescovo pisano Landolfo che riuscì a ristabilirvi l’ordine amministrativo permettendo all’economia di decollare. I Corsi stessi presero parte attiva a quella che qualche storico ha definito “radicale ricomposizione e ristrutturazione sociale”.

Perno di questa sorte di Rinascimento corso fu la rivalutazione della “Pieve”, intesa come forma di autogoverno dal basso, con rappresentanti eletti dai municipi (“Consulta”). 

Attorno a questa ricomposizione della comunità trovo modo di organizzarsi anche la diffusa ostilità dei Corsi nei confronti delle ingerenze genovesi. La città ligure avrebbe preteso di esercitare la propria egemonia attraverso una rete di feudatari intermediari, alquanto mal sopportati dal popolo. 

Genova comunque non intendeva demordere, forte del fatto che la spartizione dell’isola era stata precedentemente concordata con Pisa stessa (senza naturalmente interpellare i diretti interessati).

Con le sue pressioni ottenne un primo tangibile risultato nel 1133 quando il Papa (Innocenzo II) si rassegnò a concedere la creazione di nuove sedi episcopali. Concentrate nel nord dell’isola, saranno rilevate da prelati filogenovesi.

Non ancora soddisfatta, Genova volle occupare con le sue truppe anche Bonifacio (nell’estremo sud).

Sarà comunque la battaglia della Meloria (1284) a decidere il destino della Corsica facendola cadere sotto il completo dominio ligure.

LE OCCUPAZIONI NON FINISCONO MAI

Via uno, soto n’altro” recita un antico proverbio veneto (anche se forse si dovrebbe dire “via uno, sora n’altro”).

Concetto applicabile alle vicissitudini del Popolo Corso. 

Quest’ultimo aveva astutamente approfittato dello scontro tra le due repubbliche marinare per rafforzare la propria autonomia. Venne esteso a tutto il territorio quel sistema rappresentativo che si era mostrato come il più congeniale e connaturato alle tradizioni locali. I vari feudatari, legati a Genova, venivano così ulteriormente esautorati, perdendo ruolo e prestigio.

Si ripeteva così lo schema coloniale già sperimentato con Torreani, Greci, Romani…

Anche i Genovesi si videro in breve tempo costretti ad acquartierarsi lungo la costa, restandosene per lo più rinserrati nelle loro fortezze.

Quanto ai Corsi, essi controllavano sempre l’interno, la “montagna” (vale a dire il 70% circa del territorio). Inoltre la loro sopravvivenza (come quella della loro cultura e identità) veniva assicurata da un ulteriore sviluppo della tradizionale economia agro-pastorale.

 1297: memore dei suoi mai abrogati “diritti” papa Bonifacio VIII (notoriamente dedito alla simonia, alla compra-vendita di “cose sacre”, popoli e nazioni compresi), “concede” la Corsica a Jaume II, titolare all’epoca della corona catalano-aragonese.  

Le conseguenze più dolorose di questa ennesima transazione saranno le profonde lacerazioni prodotte all’interno della comunità autoctona.

Grosso modo si andranno definendo due “partiti”: i Corsi della Montagna (generalmente favorevoli a Jaume, ma senza particolare entusiasmo) e i Corsi dell’est, dove prenderà forma e consistenza un movimento filo-genovese (anche se considerava la “protezione” genovese come transitoria). Contraddizione genera contraddizione e sarà proprio da tale fazione (dalle flebili, discutibili simpatie genovesi) che sortiranno progetti politici di natura “rivoluzionaria” (stando ai parametri dell’epoca almeno; siamo in pieno XIV secolo). 

E infatti Sambuccio d’Alando dichiara di voler combattere nientemeno che per l’indipendenza della Corsica. La contemporanea istituzione delle “terre comuni” di proprietà pubblica rende il progetto alquanto plausibile, concreto. Fornendogli una saldatura materiale con i bisogni immediati, essenziali della popolazione.

Praticamente saranno le assemblee dei cittadini a gestire i beni comuni, attraverso delegati periodicamente eletti. Ma “può forse la gioia soggiornare a lungo nella casa del povero”?

Infatti la pur relativa autonomia, sorretta da una maggiore giustizia sociale, non potrà reggere a lungo.

Di fronte a un clima di inequivocabile ostilità diffusa (condito da assassinii di suoi rappresentanti), il sovrano catalano del momento, Alfonso IV, aveva rinunciato alle mire del suo casato sull’isola.

Anche il papa (Nicola V) decide di passare la mano. E a chi se non a Genova che altro non aspettava?

Mentre la Corsica rimane politicamente divisa, interviene con cospicui investimenti il Banco di San Giorgio. Investimenti che non mancheranno di produrre effetti anche positivi (in particolare nell’agricoltura), ma con il contraltare di un’aspra politica repressiva, in grado di stroncare sul nascere ogni conato di ribellione.

23 agosto 1553: l’eroe nazionale Sampiero Corso (colonnello dell’esercito francese) sbarca con l’esplicito intento di “disarticolare l’egemonia del Banco di San Giorgio”. Verrà tuttavia sconfitto nientemeno che da Andrea Doria. Preoccupata per la sua “proprietà” e per i suoi investimenti, Genova riprende direttamente in mano l’amministrazione insulare (momentaneamente affidata al “Banco”) e scatena una feroce repressione contro i refrattari isolani. Quanto alla politica coloniale, si riduce a mero sfruttamento.

Fatalmente (per il noto principio della termodinamica) questo comporterà un innalzamento del livello di scontro.

1726-1769: IL PERIODO RIVOLUZIONARIO

Nel periodo compreso tra queste due date si registrano numerosi tentativi insurrezionali di un certo rilievo.

Come già accennato, la politica genovese (ufficialmente di “riunificazione”) ormai consisteva solamente nell’esproprio sistematico e organizzato delle terre (soprattutto quelle utilizzate dai pastori) e delle risorse. Viene inoltre volutamente riattivato il “clanismo” sotto forma di pura e semplice rete clientelare. Pur riconoscendo che si assiste anche ad un certo sviluppo economico di cui comunque non potranno beneficiare le classi subalterne corse.

E proprio quel loro misero tenore di vita produrrà l’innesco per la rivolta di lunga durata del 1729.

Come da manuale, i borghesi locali (in parte collusi con il potere genovese, quasi una “borghesia compradora”) riescono in breve tempo a mettersi “alla testa” del popolo. Blaterando a sproposito di una generica “liberazione nazionale” riescono a recuperare la rivoluzione, svuotandola degli indispensabili contenuti socio-economici. 

12 marzo 1736: approda sull’isola un “gentiluomo di ventura” di origini tedesche, tale Theodoro di Neuhoff. Il viaggio gli era stato offerto (non certo disinteressatamente) dalla Marina britannica, insieme ad un consistente carico di armi e polveri.

In breve tempo (e nonostante l’opposizione di borghesi e notabili corsi) organizza un efficiente esercito popolare (do you remember Queimada?) che mette alle strette l’occupante genovese. 

Nel 1738, nell’impossibilità di reprimere la rivolta con le sue sole forze, Genova chiede di intervenire alla Francia. Che non si farà certo pregare! Temendo un espandersi dell’influenza inglese sbarca in Corsica e sconfigge l’armata degli insorti. 

Dopodiché (almeno per stavolta) se ne ritorna educatamente sul Continente. A Genova non rimane che completare l’opera dei francesi, “ripulendo” con le forche l’isola da ogni rivoltoso e “bandito”. Le truppe francesi ritorneranno (sempre su richiesta di Genova) nel 1745, dopo un’invasione congiunta anglo-austro-sarda.

Ma stavolta, sconfitto il nemico, rimarranno in Corsica nonostante i reclami genovesi.

L’assassinio di un leader vagamente fautore dell’indipendenza (nel 1753, su commissione dei genovesi) non ottiene l’effetto deterrente sperato. Al contrario scatena un’estesa sollevazione di natura autenticamente (questa sì) indipendentista. 

E ancora una volta le truppe di occupazione liguri dovranno rientrare nelle loro fortezze costiere.

In breve gli eventi precipitano. Si forma un direttorio presieduto da Clemente Paoli che si appella al fratello Pasquale al momento in esilio pregandolo di rientrare. Nel luglio 1755 la “Consulta” di Casablanca (nel locale convento, simbolicamente, nascerà ufficialmente il FLNC nel 1976) investe di tutti i poteri Pasquale Paoli dando inizio al suo generalato.

LA COSTITUZIONE PAOLINA

Con ogni probabilità il progetto costituzionale di Pasquale Paoli rappresenta per l’epoca una delle più alte espressioni di Stato democratico moderno.

Mentre l’intera Europa sopportava il giogo delle varie dittature monarchiche, in Corsica si andava delineando un assetto politico fondato sul voto, sul suffragio a tutti i livelli. Gli abitanti dei paesi eleggevano i loro rappresentanti che a loro volta eleggevano i loro delegati a livello di cantoni (chiamati ancora “pieve” e costituenti le regioni naturali dell’isola).  

Così di seguito, sempre rispettando lo stesso sistema elettivo, fino all’Assemblea Nazionale. Emanazione diretta di questa era appunto il Generale in capo del Popolo, Pasquale Paoli.

La breve stagione paolina rimarrà nella memoria dei Corsi come un momento caratterizzato da scelte per l’epoca assai radicali: in particolare per il grande rispetto per i diritti umani e per la pietra miliare del voto alle donne.

UN POPOLO ARMATO NON SARA’ MAI OPPRESSO” (visto sui muri di Divis Flats a Belfast nel 1981)

D’altro canto, consapevole che la politica non è altro che la prosecuzione della guerra con altri mezzi, Paoli tenterà di mettere la sua patria nella condizione di difendersi dall’eccessivo interesse dimostratole dalle superpotenze del tempo. 

Per questo, oltre che di un esercito, ritiene indispensabile dotarsi di una Marina.

Ma soprattutto costituisce un’armata popolare formata da cittadini-soldato mobilitati in ogni villaggio, anche il più sperduto. In caso di invasione la resistenza avrebbe visto imbracciare le armi tutti gli uomini dai 16 ai 60 anni.

LA BATTAGLIA DI PONTE NOVU

Per la prima volta inoltre la Corsica si fregiava degli attributi di un’autentica sovranità nazionale quali una stamperia nazionale, una moneta corsa etc.

Contro questa notevole (e forse “contagiosa”) esperienza democratica (per quanto ad un certo punto autolimitata dal ruolo assuntovi dai notabili) Luigi XV decide di inviare le sue truppe (circa 35mila uomini) annientandola a Ponte Novu nel maggio 1769. 

A questo punto la Corsica perde definitivamente la sua agognata indipendenza e viene annessa alla Francia. Dato che i precedenti padroni, i genovesi, non essendo più in grado di dominarla, l’avevano venduta (letteralmente) al re di Francia.

Inizia così una ennesima fase di durissime repressioni: ogni tentativo di resistenza viene tacciato di “banditismo” e trattato di conseguenza. Si perde il conto delle esecuzioni sommarie, molti paesi vengono completamente distrutti. Analogamente a quanto era già accaduto in Bretagna dopo le rivolte dei bonnets rouges (quelli originari di Sébastien Le Balp che nel secolo precedente erano insorti contro Luigi XIV e il ministro Colbert).

In ogni angolo della Corsica si registrano rappresaglie e massacri di intere comunità (come a Niolu, dopo l’ennesima sollevazione).

In molti casi gli abitanti vengono deportati, il bestiame sterminato, i raccolti incendiati…(in stile Cialdini).

Quanto ai patrioti sfuggiti ai fucili francesi per loro è già pronta e allestita la forca.

Vengono invece favoriti quei notabili che si dimostrano servilmente disposti a collaborare. 

Per es. permettendo ai giovani di “buona famiglia” di completare i loro studi sul continente dopo la chiusura “manu militari” dell’Università istituita da Paoli a Corti).

Una sistematica opera di alienazione culturale, di distruzione della memora storica che risulterà decisiva nell’indurre i giovani corsi a desiderare soprattutto l’assimilazione, a volersi integrare come funzionari dello Stato francese.

Dal 1817, con una serie di misure economiche squisitamente coloniali, vengono tassate tutte le merci e tutti i prodotti che escono dall’isola. In “compenso” vengono esentati da ogni aggravio tutti quelli che vi entrano provenienti dall’Esagono.

Con questi decreti, rimasti in vigore per circa un secolo, l’economia corsa venne praticamente annichilita dall’invasione di prodotti stranieri (un piccolo nafta ante litteram). Per la popolazione corsa non si aprivano altre prospettive che quella di una emigrazione massiccia e costante.

All’esodo si aggiunsero poi i circa 40mila corsi morti durante il primo conflitto mondiale.

Gli stessi interventi di natura assistenziale furono congegnati in modo da favorire una capillare rete collaborazionista (la medesima del clanismo), non certo la rinascita della Corsica.

Fra le due guerre tra i Corsi (ormai stranieri in casa propria, sia da un punto di vista linguistico che culturale) erano apparsi minoritari (ma significativi, per quanto sporadici) atteggiamenti filo-italiani.

In ogni caso quando l’esercito italiano e quello tedesco invasero l’isola nel 1941, la maggioranza si darà alla “macchia”. In pratica il battesimo del fuoco per quello che passerà alla Storia come il “Maquis”, la resistenza francese.  

Tra l’altro era partito dalla Corsica il resistente antifascista Antoine de Saint-Exupéry nel suo ultimo volo.

A guerra finita, nonostante il notevole contributo dei Corsi alla liberazione, si andrà accentuando la tendenza colonizzatrice. L’emorragia emigratoria intanto proseguiva impietosamente. Nel 1954 la popolazione corsa non raggiungeva nemmeno i 180mila abitanti.

Successivamente il Governo parigino aveva provveduto a elaborare e varare una serie di programmi economici per risanare l’economia corsa ormai in pieno sfacelo. Peccato che a trarne maggior beneficio saranno i “Pieds-noirs” (i “piedineri”, classificati talvolta come “immigrati di lusso”) insediati nella piana orientale (provenienti dalle colonie africane, Algeria in particolare, che avevano riacquistato l’indipendenza).

Egualmente in tempi più recenti saranno soprattutto le multinazionali (non solamente francesi) a beneficiare dello sviluppo turistico degli anni settanta.

La formula “tout tourisme”, oltre che deleteria per l’ambiente, risulterà insignificante rispetto al cronico problema della disoccupazione diffusa. Ai Corsi andavano pochi posti di lavoro stagionale, saltuario e mal pagato, mentre si rafforzava la condizione di “zona di consumo”per cui l’isola era costretta rimportare tutto ciò di cui necessitava.

Ma poi, nel 1976 (come conseguenza degli eventi di Aleria dell’agosto 1975) , sorgerà il FLNC come vedremo nella seconda parte.

(Continua…)

Gianni Sartori