Considerando i dati di nulle e bianche (circa il 3% del totale), in Lombardia ha votato meno del 39% degli aventi diritto. La provincia di Brescia si è confermata quella meno “assenteista”, con oltre il 45% di votanti (meno il 3% circa di nulle e bianche). Coerentemente con la triste tradizione vandeana (da “müs lonc” o “cüi bianc“, per dirla alla bresciana) qui da noi i cavernicoli, pur avendo perduto voti rispetto al 2018 e al 2022, hanno ottenuto quasi il 62% dei voti espressi (270 mila voti, 130 mila in meno di 5 anni fa, ma circa cinque punti in più in percentuale, grazie al crollo dei votanti). Anche rispetto a 4 mesi fa l’emorragia di voti è stata notevole: oltre 100 mila voti in meno (363 mila più 16 mila di frattaglie varie di destra). E anche nel bresciano vale il ragionamento fatto per l’intera Lombardia per ciò che riguarda gli schieramenti interni ai neandertaliani: i meloniani “succhiano” ampiamente ai legaioli e ai forzitalioti, che perdono i due terzi dei loro voti di 5 anni prima, ma non riescono a portare a casa gli stessi voti di 4 mesi fa (nonostante la non presenza, stavolta, di Italexit, Vita, ecc.). Oggi i fratellini ottengono la metà dei voti: 103 mila contro i 205 mila del 25 settembre. E perdono più che nel resto della regione in termini percentuali: ben 6 punti in meno (25, 5 contro i 31,6 di 4 mesi fa). Probabilmente la “base” leghista sta già tornando su suoi passi qui da noi: infatti la Lega, pur perdendo altri 20 mila voti rispetto al 25 settembre, recupera 5 punti, in direzione opposta ai meloniani. Sarà interessante vedere se questa tendenza al “ritorno a casa” si intensificherà o meno in futuro. Il centro-sinistra allargato perde oltre il 60% dei suoi voti rispetto a cinque anni fa, passando da oltre 300 mila (compresi grillini e LeU) ai 126 mila di oggi (e dal 43 al 29%), dimostrando, se ce n’era bisogno, che il bresciano approfondisce il suo essere ancora più a destra della Lombardia “media”. Al PD non va malissimo: da 111 mila voti scende a poco meno di 90 mila, e cresce in percentuale (dal 16 al 22) e diventando il secondo partito della provincia, subito dopo i ridimensionati “fratellini”. Anche all’alleanza Verdi-Sinistra non va così male: passano dai 12.500 voti di LeU a meno di 9 mila, ma ottengono qualche decimo in più (dall’1,7 al 2,2%), anche se rispetto al 25 settembre il calo è molto più vistoso (persi oltre la metà dei voti ed un punto percentuale in soli 4 mesi!). Sono i “grillini” che pagano il conto più salato, in una terra già avara verso di loro: passano dagli oltre 100 mila voti (15%) del 2018 ai 12 mila (meno del 3%) di oggi. E hanno perso due terzi dei pochi voti racimolati 4 mesi fa (39 mila voti, 6,1%). Evidentemente nel “campo largo” è il solo PD (opportunamente ripulito dai calendul-renziani) a guadagnarci. L’appeal della Moratti qui da noi è ancora minore che nell’area metropolitana milanese: 35 mila voti, meno dell’8%. E l’alleanza di Gianni e Pinotto si lascia per strada, in soli 4 mesi, i tre quarti dei voti: da oltre 60 mila (9,5%) a meno di 16 mila voti (meno del 4%). Per quanto riguarda UP si conferma il trend regionale: va meglio che nel 2018 (oggi quasi 6 mila voti, 1,4%, rispetto ai 4 mila e 0,6%) ma si perde un migliaio di voti (anche se si cresce dello 0,3% in termini percentuali) rispetto a 4 mesi fa. E questo nonostante dei picchi, legati al radicamento locale (come a Bovezzo o a San Polo) che vedono superare il 5 o il 6%.

Nel Lazio, visto che veniva da 10 anni di centro-sinistra, è andata ancor peggio che in Lombardia, da molti punti di vista. La destra infatti, pur perdendo un certo numero di voti in assoluto (come tutti) arretra meno che qui da noi. Oggi ottiene 935 mila voti (il 53,9%), rispetto ai 1.214 mila (44,8%) di quattro mesi fa e ai 965 mila (più 210 mila però ad altri gruppi di destra, non presenti stavolta) e 36,4% di 5 anni fa. Come si vede, si tratta addirittura quasi di una “tenuta” in termini assoluti, nonostante il calo di votanti, rispetto alle precedenti regionali. E anche l’arrtetramento rispetto a 4 mesi fa è molto minore di quello lombardo. Ovviamente, all’ombra del Colosseo ancor più che in Lombardia sono i meloniani a far la parte del leone, passando dai 220 mila voti (8,7%) del 2018 ai 520 mila (33,6%) di oggi. Vero è che perdono oltre 300 mila voti rispetto agli 851 mila di 4 mesi fa (31,4%), ma siamo lontani dal dimezzamento avuto in Lombardia. Appare chiaro che il radicamento storico dell’estrema destra nel Lazio è diverso dal “voto utile” post-fascista in una regione storicamente poco amante dell’estrema destra come la Lombardia. E si confermano di gran lunga (non per poco, come da noi) come primo partito della regione. Leghisti e forzitalioti si indeboliscono in termini assoluti (e, rispetto al 2018, anche in percentuale) ma in misura minore rispetto al dato lombardo. Insieme, comunque, hanno la metà dei voti dei fratellini italioti (262 mila, 17%), mentre nel 2018 ne avevano quasi il triplo (625 mila, 25%). Possono consolarsi pensando che 4 mesi fa erano ancora più schiacciati rispetto ad ora dalla vittoria dei tricolorati patrioti (350 mila voti contro 851 mila).

Se la destra è andata relativamente meglio nel Lazio che in Lombardia, si deduce facilmente che per il centro-sinistra sarà andata peggio. Sarà perché ha governato la regione negli ultimi 10 anni? O perché, diversamente che a Milano, ha preferito un profilo ancora più centrista, scegliendo di allearsi al calendo-renziani invece che coi grillini? Vediamo i numeri. Oggi il centro-sinistra porta a casa poco più della metà dei voti di 5 anni fa: 581 mila voti contro oltre un milione, anche se la percentuale è simile (un terzo dell’elettorato). Anche in questo caso è il PD a “soffrire” meno (anche se più del PD lombardo), passando da 539 mila voti nel ’18 (21,2%) ai 496 mila (18,3%) di 4 mesi fa, e ai 313 mila (20,3%) di oggi. Va male all’alleanza Verdi-Sinistra, che perde in voti e in percentuale. Dai 116 mila (4,6%) del ’18 (LeU più Verdi), ai 105 mila (3,9%) di 4 mesi fa, ai 42 mila (2,7%) di oggi. Ancor peggio va ai calendul-renziani, che perdono i due terzi dei voti in 4 mesi (da 231 mila a 75 mila voti, dall’8,5 al 4,9%). I grillini, invece, reggono meglio il colpo a Roma che a Milano. Si fa per dire, ovviamente, visto che passano dagli 835 mila voti (27%) di 5 anni fa ai 187 mila (10,8%) di oggi (ma erano già scesi a 400 mila voti, 14,8%, 4 mesi fa). Se in Lombardia hanno perso, in 5 anni, quasi il 90% dei voti, nel Lazio i danni sono più limitati: “solo” i 3/4 dei voti. Ma, si sa, nel regno dei ciechi un orbo è re.

E veniamo a “noi”, sciagurata sinistra “radicale”. Diversamente che in Lombardia, dove c’era solo Unione Popolare, a Roma ci si è divisi in due, ottenendo di spartirsi più o meno a metà il magro risultato. I 44 mila voti (1,4%) di Potere al Popolo del 2018 si sono ridotti a 32 mila (1,9%), equamente divisi tra PCI e UP. Molti meno che l’anno scorso, dove erano stati 60 mila (42 mila ad UP e 18 mila al PCI), pari al 2,3%. Soprattutto UP ha pagato il prezzo di questa divisione, mentre il PCI ha mantenuto i suoi (scarsi) voti. Tenuto conto che, da almeno un trentennio, il Lazio era sempre stato più generoso della Lombardia con la sinistra alternativa (diversamente che negli anni ’70, c’è da aggiungere), c’è di che riflettere sui danni delle divisioni. Ma è un discorso talmente arrugginito che è ormai diventato stucchevole.

Flavio Guidi

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