Oltre un quarto dei cittadini d’Italia erano chiamati alle urne tra ieri ed oggi: la prima e la seconda regione per numero di abitanti, i due “cuori”, economico e politico, del Belpaese. E la risposta di massa di lombardi e laziali è stata una sovrana indifferenza. Il 60% non si è nemmeno preso il disturbo di andare a votare, una percentuale (rispetto agli aventi diritto al voto) talmente bassa da surclassare non solo TUTTE le elezioni della Repubblica Italiana, ma persino le ultime elezioni “democratiche” del Regno dei Savoia (quelle del 1919 e 1921). E non ho abbiamo i dati di nulle e bianche (4 mesi fa superavano il 2%). Insomma, è da un secolo che i sudditi (va beh, volevo dire i cittadini) non si mostravano così poco interessati alla politica (sia in versione teatrino istituzionale sia, ahimè, verso la politica tout court). Alla fine, bisogna riconoscerlo, i nostri governanti (di centrodestrasinistra), a forza di “riforme” elettorali, di abbassamento del livello politico-culturale, di riduzione della politica a spot pubblicitario per idioti o presunti tali, di censure e cancellazioni del “diverso”, ce l’hanno fatta. Anche quel semplice gesto di tracciare una croce su un simbolo (o su un nome, il che è molto meno e molto peggio) è patrimonio di una minoranza (nel Lazio addirittura poco più di uno su tre lo ha fatto). E non, purtroppo (con buona pace dei miei amici anarchici o astensionisti) perché il “popolo”, schifato da lor signori, abbia deciso di prendere il toro per le corna e dare un salutare scossone al sistema. Semplicemente, per la grande maggioranza della “gente”, la politica, anche quella minima dell’urna, non è ormai più affar proprio. Anche se, come diceva Lorenzo Milani, ci penserà la Politica a farti gli affari tuoi, che tu lo voglia o no. Se continua questo trend verso il notabilato ottocentesco, si potrà benissimo abolire il suffragio universale, e magari sostituire le elezioni, che fanno perdere tempo e soldi, con i sondaggi d’opinione o con l’incoronazione del sovrano di turno: pirla per pirla, un Savoia lo si trova ovunque, su uno yacht o tra i sottaceti.

Ma bando alle malinconie. Diamo piuttosto un’occhiata ai numeri, paragonandoli innanzitutto alle precedenti regionali di cinque anni fa: un’era geologica fa; Renzula e Calendula erano nel PD, il Salvino iniziava il suo effimero boom, la Melona era ancora impegnata a cantare “giovinezza” con un gruppo di fratelli d’Italia piuttosto risicato e, soprattutto, il “grillismo”, guidato dal prode Gigetto Di Maio, faceva sfracelli a destra e a manca). E noi “sinistri” tentavamo, per l’ennesima volta, di uscire dal pantano con la coalizione Potere al Popolo. Molto più interessante il confronto con le politiche di poco più di 4 mesi fa: in questo caso tutti gli “attori” presenti c’erano già tutti, dal primo all’ultimo. In questo primo articolo guardiamo la nostra regione, la triste Lombardia.

Innanzitutto i numeri veri, quelli assoluti. Qui, con la fuga dalle urne, hanno perso tutti, dalla destra al centro alla sinistra moderata. La coalizione di destra cinque anni fa aveva quasi 2,8 milioni di voti dati all’impresentabile Fontana (il 49,8%) e quasi altrettanti ai partiti e partitucoli della coalizione (51,3%). A questi andrebbero aggiunti i 50 mila voti (0,9%) degli ultras di Casa Pound. Il 25 settembre dell’anno scorso i risultati erano stati più o meno simili: 2,55 milioni, 50,4% (dati del Senato, su base regionale). A cui credo sarebbero da aggiungere i 150 mila voti (3%) di Italexit e altri ammennicoli di destra, non presenti oggi. Ora il leghista lombardo porta casa un milione di voti in meno, anche se cresce qualcosina in percentuale (oltre il 54%). Evidentemente la “sua” gente (intesa come somma di quelli che hanno un sacco di soldi e di quelli che hanno un sacco d’ignoranza) si è astenuta un po’ meno degli altri (quelli un po’ meno ricchi? O forse solo un po’ meno ignoranti?). Interessante vedere il travaso di voti interni alla coalizione dei cavernicoli. La Lega, che aveva oltre 1,5 milioni di voti 5 anni fa (30%), ed aveva già subito una debacle l’anno scorso (700 mila voti, il 14%), perde ancora oltre 200 mila voti, riducendosi di due terzi in soli cinque anni, ma, come direbbe il classico giornalista, “tiene” in percentuale (il 16,5%). Forza Italia, che già non era andata bene nel 2018 (751 mila voti, 14,3%) ed era quasi dimezzata il 25 settembre (400 mila voti, 7,9%), dimezza ulteriormente (poco più di 200 mila voti, 7,3%). Chi gode è solo la lista dei fratellini di merende meloniana, che passa dai 191 mila voti (3,6%) di 5 anni fa ai più di 700 mila di oggi (25,2%). Ma, per dirla alla Ligabue, gode così e così, perché in 4 mesi perde quasi la metà dei voti e oltre due punti in percentuale: infatti il 25 settembre i (post?) fascisti avevano avuto quasi 1,4 milioni di voti (27,6%). L’inizio dello sgonfiamento per i palloni tricolorati? I cespugli e frattaglie della destra non meritano alcun commento. In totale i partiti della coalizione neandertaliana ottengono un po’ più della metà dei voti del 2018 e del 2022, anche se in percentuale superano il 56%.

I centro-sinistri più i grillini non possono certo cantare vittoria. Nel 2018, infatti, ai 1.633 mila voti di Gori (29,1%) bisognava aggiungere i 975 mila voti (17,4%) dei grillini, a quel tempo candidatisi separatamente. Il che vuol dire una somma di voti molto vicina a quella di Fontana (2,6 milioni di voti, 46,5%). Se poi aggiungiamo i voti di Rosati (LeU), cioè 111 mila voti (2,1%), si arrivava quasi a eguagliare l’ineffabile volpone leghista: 2,7 milioni, 48,6%. Certo, allora gli esponenti della destra moderata Renzi e Calenda erano all’interno del centro-sinistra (come oggi in Lazio, il che dimostra che la Storia non insegna nulla). Il 25 settembre dell’anno scorso le cose erano un po’ più simili ad oggi. Il centro-sinistra, alleggerito dei renzian-calendisti ma con l’appoggio di verdi e SI, ottenne 1.373 mila voti (27,1%). Se ci aggiungiamo i 370 mila voti (7,3%) dei “nuovi” grillini guidati da Conte si arriva a 1,743 mila voti (34,4%). Oggi i “progressisti” lombardi guidati da Majorino ottengono circa un milione e centomila voti, e perdono qualche decimo di punto in percentuale rispetto a 4 mesi fa (33,9%). Segno che l’elettorato progressista si è astenuto in misura maggiore rispetto a quello reazionario. E pour cause, direbbe un maligno. Nell’ambito della coalizione si può dire che al PD è andata meno peggio che agli altri: certo, il milione e passa di voti (19,2%) del 2018, quasi confermato (975 mila voti, 19,2%) nel 2022, si è ridotto di quasi il 40% (poco più di 600 mila voti) ma lo vede crescere in percentuale (21,8%) e tornare ad essere il secondo partito in regione (e il primo nelle città, a cominciare da Milano, Brescia, Bergamo, Pavia, Mantova, Lodi, persino Varese). Molto peggio è andata ai grillini, che perdono i due terzi dei loro già risicati voti di 4 mesi fa (poco più di 110 mila voti, 4% scarso). In 5 anni, insomma, oltre 8 elettori su 10 hanno abbandonato il M5S. L’Alleanza Verdi-Sinistra, principale appoggio a sinistra del PD, non può certo dirsi soddisfatta, anche se si avvicina in termini assoluti ai 110 mila voti di LeU del ’18, dimezza in termini assoluti, perdendone più di 90 mila (e passa dal 3,8 al 3,2%) rispetto a 4 mesi fa. Delle altre frattaglie e cespugli centrosinistri non ci occupiamo.

Veniamo all’ectoplasma del cosiddetto “terzo polo”, inventatosi all’ultimo momento la candidatura di una dei peggiori esponenti della destra (moderata?) lombarda, mrs Letizia Moratti (che ho scoperto in queste elezioni chiamarsi in tutt’altro modo). Per i “Gianni e Pinotto” della politica italiana è andata ancor peggio che per i destri puri e duri e per i centrosinistri. Nonostante i milioni spesi, il battage pubblicitario, i sondaggi pilotati, i giornalisti leccapiedi, la “povera” Letizia non solo non ha fatto concorrenza a Fontana e a Majorino, ma non si è manco avvicinata al pronostico che la dava tra il 15 e il 20%. Un misero 9,8% (poco più di 300 mila voti), probabilmente il rapporto più alto tra costi e numero di voti di questa penosa campagna elettorale. E la cosa più divertente è vedere il crollo dei renzian-calenduli: 4 mesi fa in Lombardia avevano superato il mezzo milione di voti (10,2%). Oggi ne ottengono un quarto, 120 mila (4,2%), mentre il resto dei voti morattiani se li porta la lista civica a suo nome.

E veniamo, in un certo senso, a noi, intesi come sinistra “radicale”. Paragonati ai penosi risultati di 5 anni fa (36 mila voti, 0,7%, ma la lista era diversa) e pure a quelli, già migliori, di Unione Popolare di 4 mesi fa (56 mila voti, 1,1%) si è tentati di abbozzare un timido sorriso: dei 4 candidati lombardi, l’unica che ha accresciuto i voti rispetto al 2018 e ne ha persi pochi rispetto al 2022 è stata Mara Ghidorzi, che si avvicina al numero assoluto dello scorso anno (circa 50 mila voti) e incrementa un poco la percentuale (1,5%). Ma, anche grazie ai sondaggi che davano una media di oltre il 2% (fino al 2,9 di You Trend Quorum) qualcuno si era fatto l’illusione che fosse possibile, nonostante l’oscuramento mediatico e la violazione delle più elementari regole democratiche da parte del grosso dei media e delle istituzioni, veder rientrare al Pirellone, dopo oltre un decennio, una consigliera di “vera” sinistra. Come sempre, i risultati a macchia di leopardo, con quartieri e paesi dove si supera il 5 o addirittura l’8%, testimoniano del fatto che, per chi non ha i tromboni sonori (intesi nel duplice senso) dorati, solo il radicamento sociale e l’impegno dei militanti possono risolvere il problema di imporsi all’attenzione dei lavoratori, dei disoccupati, degli sfruttati e oppressi (che sono poi il grosso dell’astensione e della spoliticizzazione odierna). Resta la (magra) consolazione di poter dire di essere gli unici che han preso più voti oggi che nel ’18 e di poter rintuzzare le famose battute sarcastiche (tipiche di molti amici e “compagni” della sinistra moderata) sul “prefisso telefonico”: nessun prefisso comincia con uno!

Flavio Guidi

[continua]

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