Ogni volta che devo malauguratamente inserirmi nell’odioso traffico automobilistico urbano, mi torna alla mente “Il sorpasso”, quel bellissimo film di Dino Risi, girato nel 1962, con due strepitosi protagonisti, Vittorio Gassman e Jean Louis Trintignant. Soprattutto quando mi sto avvicinando ad un semaforo rosso, e vedo il solito personaggio impaziente che mi supera….per arrivare prima al semaforo rosso! Ed attendere, impazientemente, il mio arrivo al suo fianco, o addirittura (massimo sbeffeggio) vedersi sorpassare, con lentezza, dal sottoscritto, perché nel frattempo il semaforo è diventato verde, e nella corsia di destra non c’è nessuno ad ostacolare il passaggio. Confesso che, con l’avanzare dell’età, provo una crescente insofferenza verso quelle rumorose, ingombranti e puzzolenti scatole di metallo e plastica che chiamano “automobili”. Che di “mobile”, soprattutto nelle metropoli, hanno ben poco, visto che, per esempio in una città come Barcellona, sui brevi-medi tragitti hanno tempi di percorrenza inferiori a biciclette, ciclomotori, metropolitana, bus, e molto simili a quelli…dei piedi! Per cui, quando leggo del drastico calo delle vendite di auto, gioisco “sadicamente”, pur preoccupandomi dei lavoratori che, non riuscendo ad imporre al padronato scelte produttive alternative (ed ancor meno avendo il coraggio e la fantasia per impadronirsi collettivamente delle fabbriche), si troveranno ovviamente in grande difficoltà. Il mio periodo adolescenziale di “amore” verso auto e moto (più le seconde che le prime) si è fermato intorno ai 20 anni, e, dopo un decennio circa di sostanziale indifferenza, si è trasformato in aperta ostilità nell’ultimo trentennio. E le auto, nel mio immaginario, se la cavano ancora bene, se paragonate ai “mostri” per eccellenza, gli odiosi camion, nemici giurati della civiltà basata sulla gentilezza, il rispetto, la tutela della vita.

Potete quindi immaginare cosa provo ogni volta che leggo di persone che si lamentano (come in questi giorni per una piccola area del Carmine) dell’estensione delle ZTL. Di solito miopi bottegai (ma non solo) che continuano, come dei Don Chisciotte al contrario (intendo come ispirazione etica ed ideologica), a lottare contro l’ineluttabile futuro. Fatevene una ragione, cari i miei bottegai, i miei ammiratori delle automobili e delle motociclette, i seguaci delle sciagurate gare di Formula 1: le carcasse puzzolenti e chiassose che amate tanto sono destinate a sparire! In pochi anni gli obsoleti motori a scoppio (a scoppio! già questo la dice lunga…), e, nelle prossime generazioni, tutti gli stupidi mezzi individuali di abnormale escrescenza del corpo umano (a partire dai più squallidi, i SUV, che occupano uno spazio 10 o 15 volte superiore a quello di un corpo umano!). D’altra parte il milione e mezzo di morti (e 50 milioni di feriti) nel mondo che, secondo l’OMS, costituiscono il “costo” umano di questa follia novecentesca, non vi sembrano un prezzo un po’ troppo elevato per l’adorazione di un “Dio mobilità individuale” che diventa sempre meno mobile (almeno per la maggioranza degli umani, che vive nelle città)?

Tornando a ciò che accennavo all’inizio: quando sono immerso nel traffico di Brescia (una città che, grazie ad un sistema di trasporto collettivo ben lontano dall’efficienza di Barcellona, rende ancora “concorrenziale” l’uso del mezzo privato), osservo i miei simili, rinchiusi nella scatola che estende e nasconde i loro corpi, e i loro diversi comportamenti. E mi sembra una perfetta metafora della società capitalistica in cui viviamo. Non solo il tipo che mi sorpassa per arrivare prima al semaforo rosso. Non solo la minoranza di avventuristi pericolosi (quasi sempre giovani maschi) che fanno le gimkane tra una corsia e l’altra, facendo rombare gli inutili motori persino quando sono fermi, sgommando per poi inchiodare 50 o 100 metri dopo, bloccati dal semaforo successivo. Anche la maggioranza (quasi sempre persone d’una certa età e/o donne – plateale smentita del detto “donna al volante, pericolo costante”) che prosegue con rassegnata, esagerata lentezza, indecisa se usare questa o quell’altra corsia, spesso mettendosi nel bel mezzo, a cavallo delle strisce di separazione. E persino i poveri, indifesi ciclisti (che per fortuna vanno aumentando) che sfidano eroicamente i mostri metallo-plastici dalle dimensioni sempre più esagerate (prolungamenti freudiani o semplice incapacità di guidare?). I primi ai miei occhi incarnano perfettamente il modello “padroncino-mi-sono-fatto-tutto-da-me”: ho fretta, devo fare un sacco di cose, toglietevi di mezzo, pezzenti. Sono i peggiori, e stimolano i miei più oscuri istinti omicidi. Ma pure i secondi, i “maggioritari”, che mi ricordano il gregge di pecore condotte al macello, rassegnati (e soddisfatti?), ignari dei vicini, individualisti senza aggressività (ed è già un pregio, per quanto insufficiente), convinti che chi va piano (pianissimo, ben al di sotto del massimo consentito), anche se si assiepa e si ostacola vicendevolmente, va sano e va lontano. Non mi fanno imbestialire come i potenziali assassini di cui sopra, ma mi spazientiscono. Forse li paragono, nel mio subconscio, ad un proletariato addomesticato e incapace di rivolta? E persino i poveri ciclisti (tra i quali spesso ci sono pure io). Soli, fragili, immersi in un mare di metallo e plastica che sembra respingerli, come relitti buttati dalle onde del mare sulle spiagge piene di rifiuti. Non vi ricorda ciò che resta d’una sinistra “radicale” sempre più ininfluente, divisa e scoraggiata? E quando si arriva al grande incrocio, alla rotonda? L’apoteosi del liberismo selvaggio: ci sono code in tutte le direzioni. Ma quasi tutti (tutti quelli del gruppo avventurista e molti del gruppo rassegnato e indeciso) vedono il verde e avanzano. Di uno, due, tre metri, perché l’auto che li precede è ferma, preceduta da un’altra e così via. E, quando scatta il verde per gli altri, sono esattamente nel mezzo della carreggiata (o della rotonda). A questo punto anche chi sopravviene in direzione perpendicolare fa lo stesso: uno, due, tre metri “guadagnati”, perché “al enemigo ni agua!”. Tutti convinti che “la mano invisibile del mercato aggiusterà tutto, prima o poi”. Ma, con buona pace di Adam Smith, arriveranno tutti a casa con mezz’ora, un’ora di ritardo. Stanchi, stressati, dopo aver inquinato l’aria ben più del necessario. Per cenare e poi sedersi sul divano a guardare qualche immondizia televisiva, fino a sonnecchiare ed addormentarsi. In attesa di ricominciare il giorno dopo. Per omnia saecula saeculorum. Amen!

Flavio Guidi

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