Quando ho letto, due giorni fa, dell’ennesimo morto sul lavoro, a Manerbio (quanti sono? Ormai ho perso il conto degli omicidi bianchi in questa maledetta provincia catto-calvinista!), non ho potuto fare a meno di sentirmi ancor più schiacciato del solito dalla valanga della nostra sconfitta attuale. Ora i media li chiamano “morti bianche”. Cosa vuol dire quel “bianche”? Ha senso solo se usato accanto al sostantivo “omicidio”, e vorrebbe alludere ai “guanti bianchi” dei colpevoli. Se no è ridicolo, persino osceno: quando si parla di “morti bianche” ci si riferisce alle morti di neonati (bianche sono le bare dei piccolissimi morti prematuramente, e difficili da spiegare dal punto di vista pediatrico). Di “bianco”, in un 60enne schiacciato da un carro-ponte, o in un muratore che cade dal 5° piano, o in un ragazzino che muore durante la “partecipazione alla “lezione pratica” in quella schifezza che chiamano “alternanza scuola-lavoro” c’è soltanto, appunto, il guanto di sfida che i padroni del vapore di sempre hanno lanciato alla classe operaia, guanto che troppo raramente (soprattutto in questi tempi di assopimento delle coscienze proletarie) è stato raccolto. Negli anni ’60 e ’70 persino i giornali borghesi (addirittura il “Bugiardino”, il Giornale di Brescia catto-padronale) usavano l’espressione “omicidi bianchi”. Il che la dice lunga sull’arretramento, sociale, politico e culturale di questi ultimi 30/40 anni. Immagino già le voci scandalizzate dei “benpensanti” di fronte alla crudezza dell’espressione “omicidio bianco”. “Sono spesso gli operai che, per fretta o noncuranza, trascurano le misure protettive”, “gli imprenditori (la parola padroni è scomparsa) fanno ciò che possono”, “è stata una disgrazia, una fatalità”, ecc. ecc. Frasi che avremo sentito centinaia di volte, al bar e sul posto di lavoro. Dimenticando che qui non stiamo parlando di responsabilità personali e penalmente perseguibili (anche se troppo spesso ci sono pure queste) ma di una responsabilità sociale, collettiva, del sistema capitalistico. Perché quando il profitto individuale è il motore di una società (Smith docet!) l’intero sistema produce questi “mostri”: orari di lavoro assurdi (a cominciare dalle inamovibili 8 ore, di fatto limite inferiore da mezzo secolo!), ritmi sempre più frenetici, corsa al guadagno come primo, se non unico, elemento di soddisfazione anche per i lavoratori, per non parlare delle pressioni dirette ed indirette del padrone, o della sottovalutazione che l’intera società capitalistico-consumista fa della salute e dell’equilibrio psico-fisico di ogni essere umano. E stiamo volutamente evitando di parlare dei veri e propri “omicidi preterintenzionali”, limitandoci a quelli più o meno “colposi”. Ricordo mio padre steso su un letto d’ospedale, dopo un grave incidente sul lavoro all’Ideal Standard (uno dei tanti, il più pesante). E penso ai suoi compagni di lavoro, morti tutti prematuramente. Lui è stato tra i più longevi del reparto (77 anni) fino a quando la silicosi (tipico “regalo” sia del reparto caldaie-radiatori sia di quello chimico-ceramico) se l’è portato via. Per lui, come per tutte le migliaia di morti sul (e del) lavoro, dobbiamo continuare la lotta: nessun oblio, nessun perdono!

FG