di Gianni Sartori
Che dire? Certa gente ha proprio la faccia come il culo.
La prima cosa a venirmi in mente vedendo Antony Blinken deporre una corona di fiori sulla lapide in memoria di Hector Pieterson a Soweto, oggi banlieu, ieri ghetto nero di Johannesburg.
Posta all’ingresso del THE HECTOR PIETERSON MUSEUM, è sovrastata dalla foto (scattata da Sam Nzima) in cui Mbuyisa Makhubu sorregge il corpo esanime del dodicenne ammazzato il 16 giugno 1976.
Un’immagine imprescindibile della memoria delle lotte di liberazione anticoloniali.
Così come quella meno nota dei funerali di Hector con centinaia di pugni chiusi sollevati a rendergli onore (tra cui quello di Winnie Mandela, la moglie di Nelson).
Il 16 giugno 1976 centinaia di studenti (almeno 600 si calcola) vennero massacrati dalla polizia sudafricana mentre protestavano pacificamente contro l’introduzione dell’obbligo dell’afrikaans (la lingua dei dominatori boeri) nelle scuole.
Della sua partecipazione a questa manifestazione di Soweto (dove si era trasferita in casa di una zia per poter studiare) ne avevamo parlato con Theresa Machabane Ramashamole che in quella circostanza era rimasta ferita.
Theresa ricordava di aver preso parte, suo malgrado, anche alla manifestazione di Sharpeville contro i pass, quella del 21 marzo 1960 tragicamente passata alla storia. Infatti c’era sua madre sua madre, incinta di lei di cinque mesi. Ufficialmente i morti (“colpiti alla schiena, mentre scappavano”) furono una settantina, “ma tutti sanno che in realtà furono molti di più”, ci raccontava. “Mia madre era riuscita a fuggire, anche se con il pancione correva meno veloce degli altri”.
Una vita la sua in qualche modo predestinata, segnata dalle lotte e dalla repressione. Viene ricordata anche come l’unica donna dei “Sei di Sharpeville”, arrestati negli anni ottanta per essersi trovati in una manifestazione dove un collaborazionista era stato ucciso (ma non da loro). Vennero a lungo torturati (a causa delle scariche elettriche subite Theresa non poteva avere figli e negli ultimi anni perse l’uso delle gambe) e condannati a morte. L’esecuzione venne sospesa appena 24 ore prima, quando erano già stati misurati e pesati (per stabilire il tipo di forca adatto, su misura) e poi, con la fine dell’apartheid avevano ritrovato la libertà.
Chissà cosa avrebbe pensato dell’omaggio (tardivo, ipocrita e strumentale) reso da Blinken a questo giovane vittima del colonialismo: Mi sarebbe piaciuto poterlo chiedere ma purtroppo Theresa ci ha lasciato alla fine del 2015 (così come quasi tutti i “SEI” anche per le conseguenze delle torture subite, vedi nel 2006 l’indimenticabile amico Duma Khumalo).
Tornando a Blinken, come pro-memoria ricordiamo che all’epoca gli USA erano in piena attività contro ogni forma di resistenza all’imperialismo e contro ogni lotta di liberazione che potesse intaccare, anche solo arginare i profitti delle compagnie internazionali.
Principalmente in America Latina con gli indios e i contadini massacrati in Guatemala, il sostegno ai regimi golpisti e fascisti, l’addestramento fornito a esponenti delle squadre della morte in Salvador, Argentina, Bolivia, Cile…
Se in Sudamerica sponsorizzava l’Operazione Condor, in Africa Washington appoggiava i governi di Pretoria (suo prezioso alleato nella SATO, la “Nato del Sud”) e finanziava, insieme alla RSA, Savimbi in Angola.
Sorvoliamo pure su eventi precedenti (come la defenestrazione di Achmed Sukarno e lo sterminio in Indonesia di oltre mezzo milione di “comunisti” veri o presunti o sul golpe contro Mossadegh in Iran nel 1953) ma – si parva licet – ricordiamo che in Europa, oltre a sostenere Francisco Franco in Spagna, gli USA supportarono il golpe dei colonnelli greci e la “strategia della tensione” in Italia.
Certo, nel 1976 l’attuale segretario di stato Tony Blinken (nato nel 1962) poteva non conoscere la sorte del suo quasi coetaneo Hector Pieterson (nato nell’agosto 1963). Ma ritengo di poter affermare – e senza timore di venir smentito – che anche in seguito la cosa non deve averlo interessato più di tanto, tantomeno turbato.
Almeno fino ad ora. Chissà perché…?
Gianni Sartori