Il punto di vista di Marx ed Engels
1. “Guardare più lontano, avere una visione più ampia”
Per Marx ed Engels la classe lavoratrice ha “una missione”, una missione storica – in termini ben più normativi ha “un dovere”. Le espressioni specifiche sono molte varie (“grande scopo”, “scopo più alto”, ecc. ecc.), ma la sostanza è questa. Usano raramente il termine socialismo, o comunismo, per definire questa missione, mentre moltissime volte la definiscono in termini di conquista del potere. “La conquista del potere politico è divenuto il grande dovere della classe operaia”, recita ad es. il famoso “Indirizzo” del 1864. Ma qualcuno potrebbe obiettare: ma perché mai “il signor Marx” pretenderebbe di conoscere quale è il mio dovere? Sono libero, e decido io quali possano essere i miei doveri! A partire da questa semplice considerazione si sono snodate ad libitum le critiche a Marx, reo di determinismo, oggettivismo, teleologia, fatalismo e millenarismo; avrebbe preteso di capire le regolarità storiche e le “leggi della storia” a cui tutti saremmo soggetti – mentre invece per fortuna non siamo burattini di un destino già scritto, che ci conduce obbligatoriamente in questa o in quella direzione.
L’obiezione è mal costruita. È vero che c’è una forte vena millenaristica in Marx ed Engels, e che entrambi pretendevano di aver capito le regolarità storiche, ma non si sono mai sognati non solo di aver trovato, ma anche solo di cercare, “le leggi della storia”, che a loro avviso non esistono e mai sono esistite. Marx, in un suo celebre testo del 1877 affermava che ogni evento sociale dev’essere studiato in sé e poi in comparazione con quelli che storicamente si sono prodotti, e solo così si sarebbe trovata la “chiave” di quell’evento specifico. Marx non perdeva tempo con illusorie chiavi universali dedotte da “una teoria storico-filosofica generale”, per definizione “sovrastorica” – a lui interessava la storia, la storia delle società umane (si concentrò ovviamente sulla “società borghese”, ma divorava testi di storia relativi a qualsiasi continente ed epoca). Quello che a lui interessava erano le causalità che operano nella storia. Marx ed Engels commentando il fallito attentato di Orsini nel 1859, affermano che Napoleone III “a parte la consueta spicciola politica quotidiana, non riconosce nella storia altra causalità che l’azione misteriosa di influssi fatalistici, che sfuggono alla ragione e che spesso elevano un assoluto impostore al potere supremo”. La “causalità nella storia”: quella che, non riconosciuta, gioca brutti scherzi ai grandi (e meno grandi) protagonisti della storia stessa – la “causalità nella storia” si esprime nella sua ironia, nell’hegeliana “Ironie der Geschichte”. Ironia che fa fare la rivoluzione a chi non ne ha nessuna intenzione, come Bismarck, che fa fare ai rivoluzionari, una volta al potere, l’opposto di quello che hanno sempre predicato, come proudhoniani e blanquisti nella Comune di Parigi, che fa tirare un sospiro di sollievo alle vecchie forze sociali (i loro partiti, i loro capitali) quando trovano una via d’uscita in una brutta situazione, salvo poi scoprire con orrore che così facendo hanno accelerato la propria fine. E così via. Nei testi e nelle lettere di Marx ed Engels vi sono decine e decine di ricorrenze dell’ “ironia della storia”. Ma se nella storia operano delle causalità, la più importante di queste è la lotta di classe, come recita il famoso incipit del “Manifesto”. Ma fare questa affermazione significa dire che che la “storia” è un campo di battaglia, e una battaglia è sempre per definizione “una battaglia incerta”, come recita la traduzione corretta del titolo di un capolavoro di Steinbeck. Marx, dice Arcary nel 2000, “riconosce l’incertezza, dovuta all’antagonismo di classe, che non ha un esito prestabilito. Identifica la possibilità, ma non annuncia l’imponderabile… In una parola: il marxismo non consiglia il fatalismo, ma il massimo attivismo… Afferma che le contraddizioni inconciliabili che dividono l’umanità, corrispondono a una fase di evoluzione, ma non sono un destino malvagio. Presto sarebbe possibile cercare di cambiare il mondo… Ciò che provoca irritazione contro il materialismo storico non è l’affermazione della necessità, ma la promessa di libertà che rivendica”. Carver nel 2018 analizzando la retorica del “Manifesto” dice lo stesso – la logica soggiacente è una logica d’azione: “sei a favore o sei contro …?”. “L’appello retorico di Marx ed Engels è all’azione della classe lavoratrice contro l’oppressione economica, alla democratizzazione della politica contro l’autoritarismo e alla risoluzione definitiva della ‘questione sociale’”. La storia è un campo di possibilità, che non sono infinite in ogni momento dato, perché ogni società ha causalità a cui non si può sfuggire, ma tuttavia non sono univocamente predeterminate, l’esito finale non è uno e uno solo, perché la “storia” non esiste, esistono gli esseri umani che fanno la storia. La storia è un campo di possibilità, è un campo di battaglia, un campo di lotta. Questa arena era il luogo in cui Marx si ritrovava naturalmente. “Marx era prima di tutto un rivoluzionario. Nella vita, la sua missione fu di contribuire, in un modo o nell’altro, al rovesciamento della società capitalista e delle sue istituzioni statali, per contribuire alla liberazione del proletariato moderno… La lotta era il suo elemento” – questo l’epitaffio funebre che gli dedicò Engels.
Ma se Marx ed Engels erano esattamente all’opposto del fatalismo, avevano tuttavia forti venature millenaristiche. La storia umana per loro è una storia di infinite sofferenze e di infinito sfruttamento, e di lotte per affermare il proprio diritto alla vita e alla dignità. Nella storia si sono succeduti milioni e milioni di schiavi, di servi, di contadini liberi a cui veniva strappato anche l’essenziale, e infine “la schiavitù salariale” – tutta la storia umana è storia di piccole e grandi lotte, di milioni di rivolte dalla microscopica azione locale agli eventi che hanno sconvolto la storia mondiale e ne hanno impresso una svolta. Ogni società ha avuto “causalità” proprie, specifici meccanismi di sfruttamento e di oppressione, e ogni società è sempre stata strettamente “storica”, sorta per precise cause, e scomparsa per altre. “Per Marx, una cosa sola è importante: trovare la legge dei fenomeni che egli si occupa di indagare. E, per lui, è importante non solo la legge che li governa… ma soprattutto la legge della loro metamorfosi”: così Kaufman nel 1872. Marx lo cita, ritrovandosi in questa descrizione, e aggiunge che il suo metodo “vede ogni forma… nel divenire del moto… nel suo aspetto transitorio… [nel] suo necessario tramonto”. Marx pensava che la società borghese per la prima volta nella storia creava le condizioni materiali e umane per la fine della maledizione eterna del genere umano: lo sfruttamento, e che fosse ora possibile una società di “produttori associati”, “in cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti” (e non l’opposto!). Per Marx l’interesse oggettivo del proletariato a non essere più sfruttato lo rende capace e lo obbliga ad intraprendere un vasto compito storico di trasformazione sociale, riassunto nell’ “Indirizzo” del 1850 in tre opposizioni. Non: trasformazione della proprietà privata – ma: distruzione della proprietà privata; non: attenuazione dei contrasti di classe – ma: abolizione delle classi; non: miglioramento della società attuale – ma: fondazione di una nuova società. Nei nostri tempi neanche più si predica l’ “attenuazione dei contrasti di classe”, ma addirittura la “coesione sociale”…
Questa in estrema sintesi la “visione” di Marx ed Engels, ed erano graniticamente convinti di essere nel giusto. Molti commentatori, nel corso del tempo, hanno fatto appello all’infinita “arroganza” sia di Marx che di Engels (Engels: “possiamo essere sempre più rivoluzionari di tutti i parolai, perché noi abbiamo imparato qualche cosa e loro no, perché noi sappiamo cosa vogliamo e loro no”; Marx: “Gli altri non sanno che cosa vogliono, o non vogliono ciò che sanno”). Tutti sono convinti di qualcosa, ma qual’è il criterio per determinarne la giustezza? Cohen, in un suo saggio del 1968, affronta proprio questa obiezione, e conclude che Marx ed Engels avevano tutte le ragioni a credere di essere nel giusto, anche contro tutti gli altri. Il suo ragionamento può essere riassunto in questo modo. In un mondo la cui dinamica sociale è data dalle classi e dalle lotte fra classi, Marx vedeva i vari intellettuali e teorici del passato e del presente come rappresentanti intellettuali di queste classi, o frazioni di classe (aristocrazia, possidenti fondiari, borghesia, ecc.). Per assolvere questa funzione di rappresentanti dovevano soddisfare due condizioni: la loro teoria doveva servire gli interessi della classe di riferimento e i membri di questa classe dovevano trovare naturale crederci (anche non riconoscendone la strumentalità, che era “segreta”, e quindi queste teorie erano “ideologie” in senso stretto, errate nel loro contenuto e totalmente illusorie). In altri termini per Marx le classi hanno una vita teorica, espresse da molteplici personalità e teorie. La funzione di queste ideologie illusorie era di convincere altre classi a unirsi alle rivoluzioni fatte da queste classi: per questo ad es. l’ideologia di “Liberté, Égalité, Fraternité” era lo strumento per la borghesia francese di vincere alla sua causa l’immensa maggioranza dei francesi. La strumentalità era “segreta”, nel senso che la borghesia francese non aveva abbracciato questa ideologia per ipocrisia, vi credeva sinceramente: secondo le parole di Marx la borghesia doveva “vivere le proprie illusioni” – quella tedesca non fece mai una rivoluzione perché era troppo meschina nello spirito, presa da preoccupazioni troppo private e limitate, e mancava di ardore romantico (tutto questo presuppone che gli esseri umani siano spinti ad azioni di importanza storica mondiale solo se ispirati dalla proclamazione di ideali universali). Marx considerava la sua teoria corretta, e aveva diritto a pensarlo, in quanto la sua teoria era la teoria dell’emancipazione del proletariato, e quest’ultima classe non avrebbe bisogno di “ideologie” semplicemente perché costituisce la stragrande maggioranza dell’umanità e quindi non ha bisogno di fare appello a ideologie illusorie per conquistarsi degli alleati. I lavoratori si troverebbero in una posizione che renderebbe superfluo abbracciare false teorie, e di conseguenza percepirebbero il mondo in modo lucido, immune da illusioni, e quando il mondo dev’essere interpretato la classe lavoratrice sarebbe ben equipaggiata per trovare la verità. La teoria di Marx è la teoria della loro autoemancipazione, e quindi è vera appunto per questo carattere; il rappresentante intellettuale del proletariato non ha bisogno di difendere alcuna ideologia illusoria. La dimostrazione della giustezza della teoria di Marx in ultima analisi verrà data dalla realizzazione della rivoluzione proletaria, un rivolgimento storico di portata universale – o in alternativa la dimostrazione della sua falsità. Il ragionamento è intrigante, ma porta con sé una serie di interrogativi: davvero nel XX e XXI secolo il proletariato è stato così “lucido”? Fino a quando bisognerà aspettare “la dimostrazione della giustezza della teoria di Marx”? (nel frattempo Cohen si stancò di aspettare e smise di crederci) Ma queste domande che vengono spontanee sono ancora premature, e ci ritornerò nelle conclusioni.
Il soggetto di questo rivolgimento storico è per Marx ed Engels la “classe lavoratrice”, il “proletariato”, cioè la classe che sola crea la maggior parte delle belle e utili cose e servizi di cui godiamo nella nostra vita, e che soprattutto crea le ricchezze che i borghesi proclamano siano loro per diritto. Oggi, e da tempo, non va di moda parlare di “classi”. Già nel 1992 la Thatcher diceva: “classe è un concetto comunista… [Dovremmo invece] parlare di libertà” – la signora Thatcher non diceva che le classi non esistono, ma diceva che “classe” è un concetto pericoloso. Anche i progressisti di sinistra evitano di parlare di classe lavoratrice. Nulla di nuovo, per carità. Si confronti questo brano, riferito all’Inghilterra, scritto da Briggs nel 1960:
negli anni ‘850 e ‘860 l’attenzione non è stata rivolta agli ampi contorni delle divisioni di classe, ma a una serie quasi infinita di gradazioni sociali… In questo contesto il termine “classe” è stato pensato come una parola un po’ sconveniente con sgradevoli associazioni. Il Times nel 1861 osservava che “la parola ‘classe’, quando usata come aggettivo, è troppo spesso intesa a trasmettere una certa riprovazione. Parliamo di ‘pregiudizi di classe’ e di ‘legislazione di classe’, e inveiamo contro l’egoismo dell’interesse di classe”.… Non sorprende che in questi anni siano state fatte tre osservazioni principali sulla “classe” in Inghilterra. In primo luogo, l’Inghilterra era un Paese dove c’era un marcato grado di mobilità individuale e questo rendeva tollerabili le divisioni di classe. In secondo luogo, le linee di divisione tra le classi erano estremamente difficili da tracciare. Terzo, c’erano divisioni significative all’interno di quelle che convenzionalmente erano considerate classi, e queste divisioni erano spesso più significative delle divisioni tra le classi.
La situazione cambiò negli anni ‘870 e ‘880, con un mutato contesto economico e l’inizio della rottura dell’equilibrio sociale dell’epoca medio-vittoriana; negli anni successivi, in un contesto di ascesa del movimento socialista, il linguaggio di classe si affermò, riconciliandosi con i fatti di classe che sempre avevano caratterizzato l’Inghilterra.
Das, nel 2017, ha sviluppato una analisi molto critica di certa sinistra odierna, che mi sembra fondata. Questa sinistra si caratterizza per il fatto che da un lato riconosce l’esistenza oggettiva della classe, ma dall’altro considera la divisione in classi come una tra le tante divisioni sociali proprie del mondo borghese, e la classe lavoratrice come uno dei tanti soggetti “potenzialmente rivoluzionari” – le oppressioni di genere, di “razza” e di nazionalità non vengono considerate nel loro aspetto classista, ma come fenomeni autonomi. In altri termini: questa sinistra non sottoscrive la tesi della “classe come creazione mentale”, per cui se i lavoratori non sono consci di esserlo, allora la classe non esiste, ma neppure ritiene che alla radice dei problemi odierni dell’umanità vi siano le relazioni di classe. Conseguentemente la produzione, lo sfruttamento e i suoi effetti sulla vita e sui corpi dei lavoratori e delle lavoratrici non sono al centro della sua azione e delle sue preoccupazioni. Per questa sinistra il compito rivoluzionario di sostituire il capitalismo sembra ormai superato e irrealistico, e le rivendicazioni che avanza sono solo di tipo redistributivo, e non sono relative alla produzione e al potere, attirandosi le ire postume del Marx del 1847 per cui queste persone “vogliono conservare le categorie che esprimono i rapporti borghesi, senza l’antagonismo che li costituisce e che ne è inseparabile. Essi credono di combattere sul serio la prassi borghese, e sono [invece] più borghesi degli altri”.
“Classe lavoratrice” è sia un fatto oggettivo sia una relazione. È un dato obiettivo nel senso che è un insieme di persone che grazie al loro lavoro arricchiscono la borghesia, direttamente nel caso di lavoratori produttivi di plusvalore, o che consentono la realizzazione di questo stesso plusvalore nel caso degli altri lavoratori; ma è anche una relazione con la classe borghese, una relazione di sfruttamento. La proprietà e il controllo da parte della borghesia dei mezzi di produzione obbliga i lavoratori a vendere la propria forza-lavoro per poter vivere, cedendo alla borghesia il plusvalore creato – nessuna “classe salariata” esisterebbe senza una “classe borghese” che ha la proprietà dei mezzi di produzione, e così l’inverso. Concettualizzare la classe come relazione oggettiva in cui gli individui entrano indipendentemente dalla loro volontà presuppone che esistano interessi oggettivi di classe, indipendentemente dalla “coscienza di classe” esistente: l’interesse dei lavoratori è di non essere sfruttati sul posto di lavoro, e di non subire gli effetti negativi dello sfruttamento come la disoccupazione e la povertà, quello della classe capitalista è nello sfruttare. “Classe” è anche un processo di resistenza contro lo sfruttamento subìto. L’antagonismo obiettivo degli interessi di classe fa sì che la lotta di classe sia un dato permanente e ineliminabile della società borghese, senza bisogno che si “creda” alla lotta di classe – come ricorda Draper una persona che cade da un aereo non ha bisogno di credere a Newton per cadere (anche se sarebbe meglio che creda nel paracadute…). Dire che gli interessi di classe sono antagonistici, significa che finché persiste questo sistema di relazioni di classe, gli interessi non possono essere conciliati in modo sostenibile e irreversibile a lungo termine.
Parlare di classe è parlare di potere. Il potere di sfruttare sul posto di lavoro e di assicurare questo sfruttamento grazie al potere su tutta la società, grazie al potere dello Stato. La caratteristica distintiva dell’approccio di Marx è l’affermazione che il proletariato, in quanto classe, ha una missione storica mondiale, un compito vitale, liberamente accettato, che non può essere portato a termine da nessun altro: la conquista del potere poltico, che consentirà l’avvio di un più o meno lungo processo di transizione il cui esito finale sarà l’abolizione finale dello sfruttamento, e cioè l’abolizione le classi (il contenuto del termine “socialismo”). Quando Marx diceva che “la classe operaia è rivoluzionaria o non è niente” non intendeva ovviamente dire che la classe operaia in quanto tale, come entità obiettiva, non esisteva, ma che in rapporto alla sua missione storica la classe operaia poteva essere solo rivoluzionaria. Un’ovvietà, ma sfuggita a non pochi commentatori. E così siamo finalmente tornati al punto di partenza di questo capitolo. Per illustrare questo concetto riprendo due citazioni famose, l’una di Marx del 1852, l’altra di Lenin del 1917 (ma pubblicata un anno dopo), che ne costituisce una chiosa:
Per quanto mi riguarda, non a me compete il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna e la loro lotta reciproca. Molto tempo prima di me, storiografi borghesi hanno descritto lo sviluppo storico di questa lotta delle classi ed economisti borghesi la loro anatomia economica. Ciò che io ho fatto di nuovo è stato: 1) dimostrare che l’esistenza delle classi è legata puramente a determinate fasi storiche di sviluppo della produzione; 2) che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) che questa dittatura medesima non costituisce se non il passaggio all’abolizione di tutte le classi e a una società senza classi.
L’elemento essenziale della dottrina di Marx è la lotta di classe. Cosí si dice e si scrive molto spesso. Ma questo non è vero e da questa affermazione errata deriva, di solito, una deformazione opportunista del marxismo, un travestimento del marxismo nel senso di renderlo accettabile alla borghesia. Perchè la dottrina della lotta di classe non è stata creata da Marx, ma dalla borghesia prima di Marx. e può, in generale, essere accettata dalla borghesia. Colui che si accontenta di riconoscere la lotta delle classi non è ancora un marxista, e può darsi benissimo che egli non esca dai limiti del pensiero borghese e dalla politica borghese. Ridurre il marxismo alla dottrina della lotta delle classi, vuol dire mutilare il marxismo, deformarlo, ridurlo a ciò che la borghesia può accettare. Marxista è soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta delle classi sino al riconoscimento della dittatura del proletariato. In questo consiste la differenza più profonda tra il marxista e il banale piccolo-borghese (e anche il grande). È questo il punto attorno al quale bisogna mettere alla prova la comprensione e il riconoscimento effettivi del marxismo. E non vi è da meravigliarsi che nel momento in cui… la classe operaia [si pone] praticamente questa questione, non solo tutti gli opportunisti e i riformisti, ma anche tutt[a la] gente che oscilla tra il riformismo e il marxismo… [si rivelino] dei miserabili filistei e dei democratici piccolo-borghesi che negano la dittatura del proletariato.
La scrittura di Lenin può suonare molto “settaria” alle orecchie odierne, e la ricorrenza del termine “dittatura del proletariato” può provocare rigetto, per la negazione delle più elementari libertà democratiche che evoca – di dittature, dopo il XX secolo, giustamente nessuno ne vuole più sentir parlare, anche se in molti paesi la deve ancora subire. Ma non considerando le particolarità dell’eloquio di Lenin (scriveva nell’agosto-settembre 1917, e bisogna tenere a mente cosa era successo e cosa stava accadendo…), il brano di Lenin ripete fedelmente i concetti di quello di Marx. La questione fondamentale è che il termine “dittatura” nel XIX secolo e nella scrittura di Marx non implica alcunché nella forma politica dello Stato, sulle libertà democratiche, ma è esclusivamente sinonimo del termine “potere”. Così come per Marx ed Engels gli Stati loro contemporanei erano delle “dittature della borghesia”, cioè Stati in cui il potere era in mano alla borghesia, fossero repubbliche, monarchie più o meno costituzionali, con suffragi universali, o censuari, con un effettivo potere del Parlamento, o una preponderanza dell’esecutivo, o del monarca, così il termine “dittatura del proletariato” indicava semplicemente che il potere statale era di questa classe sociale. Quindi affermare “che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato” è la pura e semplice ripetizione da parte di Marx, con altri termini, che “la conquista del potere politico è divenuto il grande dovere della classe operaia”, la sua “missione”. Tralascio (ma solo per il momento) qualsiasi commento sull’avverbio “necessariamente”. Ma quello che è specifico a Marx ed Engels, e che è stato per lo più dimenticato nel corso del XX secolo, è che intendono sempre “potere”, “dittatura” di una classe sociale, nel suo complesso, non di un suo segmento più illuminato, oppure di suoi rappresentanti “istruiti”, “competenti”, che sappiano gestire il potere “a nome” della classe. Il problema della “rappresentanza politica dei lavoratori”, che ha fatto e fa discutere ancora in Italia, avrebbe fatto venire l’orticaria a Marx ed Engels. Leipold ha messo ben in evidenza nel 2017 questo aspetto, studiando gli scritti di Marx sulla Comune di Parigi:
In un passaggio divertente, [Marx] sostiene che la concezione britannica dell’autogoverno equivale a essere amministrati localmente da “consiglieri comunali ingoiabrodo, comitati d’affari parrocchiali e feroci custodi di case di correzione”, e governati a livello nazionale da “un circolo oligarchico e la lettura del Times”. Al contrario, Marx afferma che la concezione dell’autogoverno della Comune significava “il popolo che agisce per se stesso e da se stesso”… la Comune è lodata per aver fatto delle “funzioni pubbliche – militari, amministrative, politiche – delle funzioni veramente operaie, invece di continuare ad essere attributi segreti di una casta addestrata”. Marx afferma quindi che la capacità di decisione politica e di amministrazione non sono capacità riservate a pochi elitari selezionati – la “casta addestrata” – ma condivise dal popolo nel suo insieme. … [Marx] fa un confronto intrigante… tra gli elettori che scelgono i rappresentanti [nell’ordinamento della Comune] e i datori di lavoro che scelgono quali lavoratori o manager assumere, e dice che entrambi “sanno generalmente come mettere l’uomo giusto al posto giusto”, ma se “commettono un errore”, Marx sostiene che possono “prontamente porvi rimedio”. L’implicazione è che, analogamente a come i lavoratori sono legati alle volontà dei loro datori di lavoro, così i rappresentanti diventano legati alle volontà dei loro elettori.
È il concetto dell’ “autoemancipazione del proletariato”, dell’ “autoliberazione della classe operaia”. Il potere ai lavoratori vuol dire ad es. che i ragazzi che vedo a Brescia pistare sulla loro bicicletta come rider con enorme sacco sulle spalle con su stampato “Glovo” hanno una “missione”: la conquista del potere, né più, né meno. I ragazzi e le ragazze che vedo dalla mia finestra far volare le loro mani sui tavoli della cucina di un locale della catena “Schiaccia” hanno anch’essi questa “missione”. E così tutti i lavoratori, lavoratrici, senza distinzione di passaporto, orientamento sessuale, religioso, colore della pelle, età e così via. Marx ed Engels guardavano ai lavoratori in carne e ossa come soggetti del più grande rivolgimento della storia mondiale – e ritenevano che fossero perfettamente in grado di essere all’altezza della situazione. Per questo nel 1879 Marx ed Engels tuonano contro i dirigenti del partito tedesco che in nome della “competenza” riservavano a se stessi un ruolo “pedagogico” nei confronti dei lavoratori – d’altronde solo chi “‘ha l’occasione e il tempo’ per familiarizzarsi bene con le cose che giovano ai lavoratori” può diventare competente e operare di conseguenza in Parlamento: “Alla fondazione dell’Internazionale abbiamo formulato espressamente il grido di battaglia: la liberazione della classe operaia deve essere opera della classe operaia stessa. Non possiamo quindi andare sottobraccio a gente che dice apertamente che gli operai sono troppo incolti per liberare se stessi e devono prima essere liberati dall’alto” [mia sott.]. E Marx aggiunge, riferendosi sempre a questi dirigenti: “[vogliono] illuminare i lavoratori o, come dicono loro, portare loro ‘elementi di educazione’ con il proprio confuso sapere superficiale e, soprattutto, rendere rispettabile il partito agli occhi dei borghesucci. Sono dei poveri parolai controrivoluzionari”. Non sono parole da poco rivolte a dei dirigenti del Partito socialdemocratico! Per Marx ed Engels l’importante era liberare la creatività dei lavoratori, strappandoli alle abitudini secolari di passività e obbedienza. Così fin dalla fondazione della Lega dei Comunisti, Marx afferma che doveva esser rimosso dagli statuti “tutto quello che incoraggiava una superstiziosa attitudine nei confronti dell’autorità”, e a Schweitzer, dirigente dell’ADAV lassalliano, ricordava che in Germania “dove l’operaio viene trattato fin dall’infanzia con provvedimenti burocratici e crede all’autorità, ai superiori, la cosa più importante è di insegnargli a camminare da solo”, e negli stessi giorni, scrivendo a Engels, specificava che “la classe operaia tedesca… una razza addestrata così burocraticamente deve fare un corso completo di ‘auto-aiuto’”. Scrivendo nel 1890 di un passato fortunatamente superato dalla classe operaia Engels descriveva “il nostro carattere personale in quanto tedeschi”: “i tedeschi si battono bene se sono ben comandati, ma devono essere comandati, in loro non c’è traccia di autonomia, di carattere, di capacità di resistenza”. Specificità nazionale solo tedesca, d’antan e forse anche d’oggi? Non molto, a sentire oggi chi si affolla nelle vie delle città italiane in tempi di pandemia dire: “Perché sono qui? mica è vietato…”. Anche noi italiani d’oggi putroppo “dobbiamo essere comandati”, e dobbiamo ancora imparare a camminare da soli…
Sono infinite le dichiarazioni di Engels che esprimono la sua cieca fiducia nei lavoratori che hanno imparato a camminare da soli, quasi sempre contro dirigenti e intellettuali. Esemplare questo testo del 1890 sulla capacità dei lavoratori di organizzare la produzione:
che i nostri operai siano capaci lo mostrano le loro molte società di produzione e di distribuzione, che, se non distrutte deliberatamente dalla polizia, erano amministrate altrettanto bene e ben più onestamente che le società per azioni borghesi. Come Lei possa parlare di mancanza di cultura delle masse in Germania dopo la splendida prova di maturità politica che i nostri operai hanno fornito nella vittoriosa battaglia contro la legge antisocialista, non riesco a capirlo. La presuntuosa superbia pedantesca delle nostre cosiddette persone colte mi sembra un ostacolo ben maggiore. Certo ci mancano ancora tecnici, agronomi, ingegneri, chimici, architetti, ecc., ma nel peggiore dei casi possiamo comprarceli altrettanto bene quanto i capitalisti, e quando sarà stato dato un duro esempio a un paio di traditori – in mezzo a questa società ce ne saranno di certo – scopriranno che è nel loro interesse non derubarci più. Ma a parte questo tipo di specialisti, tra cui annovero anche gli insegnanti, possiamo farcela benissimo senza le altre “persone colte”, e ad esempio il fatto che oggi letterati e studenti accorrano in massa al partito [socialdemocratico] porta con sé ogni sorta di danni, se appena questi signori non vengono tenuti nei dovuti limiti. I latifondi degli Junker dell’Elba orientale possono esser dati senza difficoltà in gestione, sotto la dovuta direzione tecnica, agli attuali lavoranti a giornata o servi di fattoria, ed esser coltivati in forma associativa. Se ci saranno eccessi ne saranno responsabili i signori Junker, che in barba a tutta la vigente legislazione scolastica hanno fatto abbruttire la gente a questo modo. L’ostacolo maggiore sono i piccoli contadini e le persone colte con la loro fastidiosa saccenteria: meno capiscono di una cosa, più devono saperne tutto. Se perciò solo avessimo tra le masse seguaci a sufficienza, la grande industria e la grande agricoltura di latifondo potrebbero venir socializzate assai rapidamente, una volta preso il potere politico. Il resto seguirà presto, più rapidamente o più lentamente. E con la grande produzione avremo le redini in pugno. Lei parla di assenza di un giudizio equilibrato. Questo esiste – ma tra le persone colte venute fuori dai circoli nobiliari e borghesi, che non hanno la minima idea di quanto abbiano ancora da imparare dagli operai.
Le parole di Draper illuminano la visione di Marx ed Engels dell’autoemancipazione del proletariato:
Il principio di autoemancipazione è stato spesso elogiato come una concezione democratica: le persone prendono in mano il proprio destino. Questo è vero. Ma quello che a volte viene trascurato è che questo principio sottolinea la natura rivoluzionaria (letteralmente: sovversiva, che rovescia) della visione di Marx del socialismo. Niente è più rivoluzionario che il rifiuto di principio di tutta la “benevola protezione dall’alto” (per usare un’espressione di Engels)… Solo un movimento che guarda alla lotta di classe dal basso può essere un movimento rivoluzionario autenticamente proletario; perché è il proletariato che è sotto – “lo strato più basso della nostra società presente”, che “non può sollevarsi, non può alzarsi in piedi senza che venga fatta saltare in aria tutta la sovrastruttura di strati che formano la società ufficiale”… “Concessione” è una parola che puzza della trasmissione di generosità da parte del Padrone, dell’imposizione del cambiamento dall’alto, dal salvatore alle sue pecore, dal signore ai suoi lacchè. La rivoluzione “su concessione” è una rivoluzione dall’alto, il polo opposto dell’autoemancipazione. Corrispondentemente ad esso possiamo mettere “socialismo su concessione” come termine generico per le molte varietà di radicalismo che hanno avuto come prospettiva quella di una élite che trasmette il nuovo ordine sociale a un popolo adeguatamente docile e riconoscente.
Da ciò che precede risulta ovvio che Marx si focalizzava sulla classe lavoratrice come soggetto, non su un qualsiasi “partito” quale oggi l’intendiamo. Un po’ di confusione deriva dal fatto che talvolta, parlando di classe, Marx usa il termine partito (questi problemi terminologici sono naturali a distanza di un secolo e mezzo). Cerco di chiarire il concetto. Per Marx vi è una logica nell’interesse collettivo delle classi sociali, e nel suo rapporto con movimenti politici e idee – non è un rapporto evidente, non è empiricamente ovvio, è un “segreto” che dev’essere disvelato. “Il suo punto di partenza è l’affermazione di Kant… per cui la rivoluzione scientifica inizia quando Copernico rigettò il fatto empiricamente ovvio che il sole girava attorno alla terra”, ci ricorda Sperber. Oggi ai lavoratori e alle lavoratrici per es. d’Italia non passa minimamente per l’anticamera del cervello di avere una “missione”, anche se la realtà obiettiva della lotta di classe li porta ad avere certe idee, certi comportamenti, pur senza sapere quali sono le causalità all’opera – il sole gira ovviamente attorno alla terra, n’est-ce pas? Il “segreto”, il “mistero” verrà disvelato grazie al “movimento reale” della classe, grazie ai “movimenti spontanei della classe lavoratrice”, che porteranno all’assunzione conscia da parte dei lavoratori e delle lavoratrici della propria missione – è la terra che gira attorno al sole, parbleu! Questo “movimento reale” viene chiamato da Marx “il partito nel grande senso storico” – un “partito” che astrae totalmente da aspetti organizzativi (questo non è ovviamente l’unico senso della parola “partito” in Marx – su questo estesamente più avanti). Ma cosa intendono Marx ed Engels per “movimento reale”? È la lotta di classe, per il pane e la dignità, che rivela ai lavoratori il loro potere collettivo nell’imporre dei cambiamenti radicali. Le parole dell’Internazionale, “da continente a continente questa terra ci basterà” e “l’Internazionale, futura umanità!” ne furono l’espressione. Il “movimento reale” non è dato dall’affermazione di una qualsiasi dottrina, ideologia, o quant’altro, foss’anche “socialista” o “comunista”, ma dalla lotta per l’affermazione dei propri interessi. Per Marx la dignità, l’autorispetto dei lavoratori è un elemento essenziale, come afferma in questo brano del 1847, e come ripeterà nei decenni successivi: “I princípi sociali del cristianesimo hanno giustificato la schiavitù antica, esaltato la servitù della gleba medievale, e se necessario si prestano anche a difendere l’oppressione del proletariato, sia pure assumendo un’aria un po’ lamentosa… I princípi sociali del cristianesimo predicano la viltà, il disprezzo di se stessi, la mortificazione, il servilismo, l’umiltà, insomma tutte le qualità della canaglia, e il proletariato, che non si vuole far trattare da canaglia, ha molto più bisogno del suo coraggio, del suo senso di sicurezza, del suo orgoglio e del suo spirito d’indipendenza che del suo pane”.
[segue]