QUELLE BUGIE SULLA MORTE DI PICELLI E I SOSPETTI SU UN VOLONTARIO STALINISTA

Ieri è stato pubblicato sulla “Gazzetta di Parma” un intervento di Giancarlo Bocchi su Guido Picelli, che aggiunge un ulteriore tassello alla ricerca della verità sulla morte del comandante antifascista avvenuta durante la guerra di Spagna. Per ragioni
di spazio l’intervento sul quotidiano di Parma è stato ridotto dall’autore. Ci riserviamo di pubblicare lo scritto integrale prossimamente.

Spesso la Storia riserva sorprese. Alcune si rivelano positive, altre frutto di negazionismo, manipolazione o ignoranza, generano solo sconcerto. È il caso di alcune dichiarazioni d’intervenuti alla visita in Spagna sui luoghi di Guido Picelli rilasciate alla Gazzetta di Parma del 10 ottobre. Sorprende la testimonianza di un anziano, Julian Gonzales, che “vide il corpo di Picelli, in fin di vita, portato dalle alture al paese”. In realtà Picelli venne colpito a morte nel pomeriggio del 4 gennaio 1937. Il corpo, abbandonato dai compagni nei pressi del S. Cristobal, fu ritrovato all’alba del giorno dagli uomini di Giorgio Braccialarghe. Non poteva quindi essere “in fin di vita”. Il giorno prima una pallottola sparata alle spalle lo aveva colpito al cuore.
Sempre nell’articolo del 10 ottobre, tale Pedro Garcia Bilbao, contestando l’idea che Picelli fosse stato ucciso dagli stalinisti, ha affermato: “Le probabilità che qui ci fossero Stalin (sic!) o qualcuno dei suoi sicari sono nulle.” Sostenere che in Spagna, insieme a tanti combattenti idealisti, altruisti, coraggiosi delle Brigate Internazionali e del Garibaldi, non vi fossero anche degli stalinisti fa sorridere, ma anche rabbrividire. Anche nel Garibaldi c’erano diversi stalinisti. Non mi riferisco agli ammiratori politici di Stalin, ma a personaggi arruolati negli organismi spionistici segreti sovietici.
Durante le mie lunghe ricerche in diversi paesi europei, soprattutto in Russia, uno in particolare ha attirato la mia attenzione: Antonio Roasio, braccio destro di “Ercoli” (Palmiro Togliatti) e membro dell’Ufficio quadri del Comintern, settore riservato collegato con l’NKVD, la polizia segreta di Stalin. Nei giorni della morte di Guido Picelli, Roasio, era il Commissario politico del Battaglione Garibaldi. Basterebbe questo per confutare la prima parte delle affermazioni di Pedro Garcia Bilbao. Ma per smontare anche la sua seconda affermazione occorre raccontare cosa accadde in Spagna in quei mesi. E anche approfondire la biografia Roasio, un personaggio che nel dopoguerra venne incautamente invitato a Parma per le commemorazioni di Picelli e che fu anche l’ispiratore di un “complotto” politico contro Giacomo Ferrari “Arta”, senatore e sindaco di Parma per il PCI.
Verso la metà degli anni ’20, Roasio arrivò in URSS per fuggire a un mandato di cattura per omicidio emesso della magistratura italiana. Inizialmente gli vennero affidati modesti incarichi nell’organizzazione della Scuola Leninista Internazionale, dove Picelli fu poi docente saltuario. I destini di Roasio e di Picelli s’incrociarono nuovamente al Comintern.
Fu in quel periodo che iniziarono a Mosca le persecuzioni contro Picelli. Venne allontanato dalla “Leninista”, gli fu negato il promesso l’ingresso all’Accademia Militare Frunze, venne estromesso dall’organizzazione del VII congresso del Comintern, annullata la sua partenza per la Svizzera e cancellato l’incarico di nuovo responsabile del Partito comunista d’Italia clandestino. Rispedito a far l’operaio alla fabbrica Kaganovič, subì nella “stanza rossa” un “processo di fabbrica” per frazionismo che sarebbe potuto sfociare nella sua deportazione in Carelia o in Siberia. Si difese strenuamente come sapeva fare, invocò l’aiuto dei compagni in Francia e, al contrario di altri, si salvò momentaneamente.
Dopo lo scoppio della Guerra di Spagna, Picelli chiese, come altri compagni, di partire per andare a combattere in difesa della Repubblica spagnola. Ma chi era sospettato di non essere “fedele alla linea” finiva in una lista firmata da Togliatti e da Roasio. A questi antifascisti non veniva restituito il passaporto e negato l’espatrio. Molti della lista “Togliatti – Roasio” non tornarono mai più dalla Siberia. Il nome di Picelli non finì su quella lista, ma inizialmente gli venne negato l’espatrio.
Fu un potente bolscevico, Dmitri Manuilski, che stimava Picelli come indomito combattente antifascista a ordinare all’ultimo minuto all’Ufficio quadri e all’NKVD di chiarire la questione “entro 24 ore!”. Così Picelli riuscì fortunosamente a partire qualche giorno dopo per Parigi.
Sul treno c’era anche Roasio che gli vietò d’incontrare a Parigi Michele Donati alias “Masi”, un antifascista che aveva defezionato. Picelli ignorò gli ordini di Roasio, giunto a Parigi vide Michele Donati e attraverso i contatti politici dell’amico, incontrò Julian Gorkin, il segretario internazionale del POUM, il partito antistalinista spagnolo. Dopo questo incontro Picelli abbandonò il Partito comunista e partì per Barcellona con gli uomini del POUM. Ma non entrò nel POUM per “orientarlo verso la politica moscovita” come scrissero gli spioni fascisti dell’OVRA, troppo spesso citati da incauti storici locali. Infatti la più netta smentita arriva proprio da rapporto segreto di Roasio al Comintern del giugno 1938: “Il compagno Picelli… dopo una settimana a mezzo di Masi fece conoscenza con Mariani del partito massimalista italiano (troschisti Poumisti) (sic!) e insieme a questo parti per la Spagna… e venne alloggiato nella caserma del POUM a Barcellona”. Il rapporto rivela che Picelli aderì al POUM non su ordine del Comintern bensì disubbidendo a chi gli aveva ordinato di non incontrare dissidenti come “Masi” .
Nessun mistero anche nel successivo passaggio di Picelli dal POUM alle Brigate Internazionali. Non fu organizzato da “misteriosi personaggi” come scritto in un libro sui volontari in Spagna, uscito di recente con un’antologia di errori. Fu Ottavio Pastore, che conosceva Picelli fin dalle Barricate di Parma, che convinse il comandante parmigiano a lasciare il POUM. Quello che si dissero fu pubblicato negli anni ’50 su l’Unità, il giornale che Pastore dirigeva all’epoca.
Chiarire le scelte di Picelli dall’arrivo a Parigi all’approdo a Barcellona sono importanti per capire perché Picelli si sentisse in pericolo e sapesse che passare dal POUM alle Brigate Internazionali era molto rischioso. Senz’altro immaginava che gli avrebbero fatto pagare l’abbandono del Partito per il POUM, la formazione antistalinista ben raccontata in “Omaggio alla Catalogna” di George Orwell e in “Tierra y Libertad” di Ken Loach, i cui membri erano più odiati dagli stalinisti degli stessi nemici franchisti, nazisti e fascisti. A questo proposito ricordiamo che cinque mesi dopo la morte di Picelli, quelli del POUM furono massacrati, imprigionati, torturati. Il leader, Andreu Nin, scelse di morire sotto tortura piuttosto che firmare agli stalinisti una falsa ammissione di tradimento.
Dopo aver assunto il comando del IX Battaglione delle Brigate Internazionali e aver addestrato magnificamente i suoi uomini, Picelli si ritrovò inspiegabilmente ridimensionato con il comando della sola I Compagnia del Battaglione Garibaldi. Arrivato al Garibaldi, Picelli si ritrovò tra i piedi, ancora una volta, Antonio Roasio, il Commissario politico del Battaglione.
Per il mio film “ Il Ribelle” feci diversi sopralluoghi a Mirabueno e sul S. Cristobal. Osservando i luoghi mi convinsi che la versione delle Brigate internazionali sulla morte di Picelli, che sarebbe avvenuta dopo aver “collocato una mitragliatrice“, non poteva essere veritiera. Un garibaldino della compagnia di Picelli, Antonio Eletto, mi confidò che il giorno dell’uccisione del suo comandante non avevano alcuna mitragliatrice con loro. Uno stalinista di ferro, legato all’Ufficio quadri e all’NKVD, Pietro Pavanin, in altro rapporto aggiunse un altro dettaglio poco credibile: “Picelli fu colpito da una mitragliatrice che spazzava la zona da 500 metri”. Da quella distanza una mitragliatrice dell’epoca come poteva colpire una persona così precisamente al cuore?
All’Archivio del Comintern, trovai un’altra versione dei fatti in un rapporto segreto del sinistro capo dell’Ufficio quadri, il bulgaro Georgi Damjanov alias “Belov”: Picelli era stato colpito da “una pallottola di cecchino fascista in fuga”.
Tutto chiaro, allora? Per niente. Forse era stato colpito da “un cecchino”, ma non certo da un “cecchino fascista in fuga” perché in quel momento i fascisti, o meglio i franchisti, erano asserragliati sul S. Cristobal e non stavano fuggendo. O forse l’espressione “fascista in fuga” voleva nascondere altro? E perché l’affastellarsi di versioni non veritiere? Considerate poi le distanze tra la cima del S. Cristobal e il luogo dove si trovava Picelli, molto più di 500 metri, con i fucili dell’epoca un “cecchino” come avrebbe potuto fare un tiro così straordinario?
Era invece nei pressi della prima linea il solito Roasio. Il comandante del Garibaldi, Randolfo Pacciardi, scrisse infatti nelle sue memorie: ”Roasio, benché zoppo, ha voluto seguirmi”.
Molti anni fa una persona, un anziano ricercatore che conosceva bene l’ambiente dei reduci della Guerra di Spagna mi disse: “So chi ha ucciso Picelli.” E aggiunse che il colpevole era originario di un paese in una provincia limitrofa a Parma. All’epoca pensai che il ricercatore per vanteria mi avesse detto solo una battuta, ma di recente a Mosca mi sono ritrovato tra le mani alcuni documenti su un membro della I Compagnia del Garibaldi che era stato promosso di grado subito dopo la morte di Picelli. Anche se la guerra in Spagna era ancora in corso, Roasio aveva inspiegabilmente mandato a Mosca questo personaggio, senza alcun incarico, quasi in viaggio di piacere.
Con sorpresa lessi che l’uomo era originario del paese che anni prima mi era stato indicato dal ricercatore. Controllai negli archivi. Nessun altro volontario delle Brigate Internazionali era nativo di quel paese.
Anche se in quei giorni accaddero a Picelli altri fatti molto strani, i sospetti del ricercatore anarchico e il viaggio del volontario emiliano a Mosca non sono decisivi. Almeno per ora.
Come nel mio film e nei miei libri lascio allo spettatore, al lettore, a chi non crede alle coincidenze fortuite o alla “storia ideologica”, giudicare sui fatti, sulle contraddizioni e sui molti indizi che ho trovato. La vicenda della morte di Picelli farà ancora discutere, ma di una cosa sono certo: non fu ucciso da un comunista, perché “gli stalinisti” non possono essere considerati tali. E qualunque nome avesse la pallottola che colpì alle spalle Guido Picelli, sicuramente proveniva dall’arma di un seguace di un totalitarismo spregevole. Quella pallottola mortale non è riuscita però ad annullare il valore di una vita spesa per la libertà e per la giustizia sociale, di rivoluzionario coraggioso e altruista che per primo in Europa sconfisse militarmente il fascismo a Parma e sul fronte di Madrid.

Giancarlo Bocchi

Pubblicità