Pubblichiamo il testo di un depliant diffuso il primo maggio a Brescia dai compagni del Centro “Filippo Buonar-roti” in occasione del 70° anniversario della morte del becchino della rivoluzione russa, Josif Vissarionovic Giugasvili, alias Stalin. Pur non condividendone al 100% il contenuto, ci sembra un buon modo di ricordare uno dei principali nemici della rivoluzione mondiale.
Nella notte del 5 marzo 1953, vittima di una emorragia cerebrale, moriva Iosif Stalin, l’uomo che organizzò e diresse la controrivoluzione in Russia, coluì che spazzò via l’internazionalismo proletario del partito che fu di Lenin.

L’Ottobre rosso
Il ‘900 è il secolo in cui la divisione borghese, maturata in spartizione imperialistica del mondo, ha prodotto le peggiori catastrofi sociali conosciute dalla storia dell’umanità, le guerre mondiali. In questo stesso secolo
l’internazionalismo, inteso come tentativo cosciente di unificare il proletariato mondiale in una strategia rivoluzionaria, ha toccato il suo punto più alto e il suo punto più basso.
È riuscito a fermare la Prima guerra mondiale con una rivoluzione comunista vittoriosa, la Rivoluzione dell’Ottobre 1917 in Russia, e ha tentato di farne il trampolino per la vittoria della rivoluzione internazionale. “Non vi riuscirono ma la storia dell’umanità li ricorderà, un giorno, come gli sfortunati precursori di un valore universale che cancella le classi e le razze” (Arrigo Cervetto).
La controrivoluzione e lo stalinismo
La sconfitta del tentativo iniziato con la Rivoluzione d’Ottobre si consuma in Germania, ma ad esserne travolto,
pagandone prezzi altissimi, è anche l’avamposto russo.
Quando nasce la Terza Internazionale, il reparto tedesco ha già perso i suoi capi migliori, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, assassinati dal governo socialdemocratico. L’ondata rivoluzionaria sollevata dalla guerra imperia-lista, dopo aver generato, oltre alla Rivoluzione d’Ottobre, i Consigli in Germania e Ungheria e il “Biennio rosso” in Italia, rifluisce senza che nessuna vittoria rivoluzionaria in Occidente sia giunta a spalleggiare l’avamposto russo. Lenin reputa – a ragione, come dimostrerà la Seconda guerra mondiale – che la situazione sia tutt’altro che stabile, ma agli inizi degli anni ’20 diventa chiaro che nell’immediato il proletariato russo non può attendersi alcun soccorso da Occidente. Il potere politico in Russia, vinta la durissima guerra civile, è in mano al proletariato. Le condizioni per avviare una trasformazione socialista della società, se mancavano nel 1917, tanto meno potevano esservi dopo che altri due anni di combattimenti, carestie, spopolamento delle città si erano
aggiunti ai tre di devastazioni della guerra imperialista.
Durante la guerra civile, le necessità di sfamare le città e rifornire l’Armata Rossa, avevano condotto ad un regime di requisizioni nelle campagne e di militarizzazione dell’industria noto come “comunismo di guerra”. Questa forma economica, nome a parte, non aveva nulla in comune con la gestione sociale delle moderne forze produttive create dal capitalismo. In ogni caso il “comunismo di guerra” divenne impraticabile con la fine della guerra civile.
Il rifornimento delle città e dell’industria mediante le requisizioni nelle campagne aveva avuto come presupposto l’alleanza oggettiva di operai e contadini contro le armate “bianche”. Queste attaccavano il potere proletario, ma erano sostenute innanzitutto dagli ex-proprietari fondiari decisi a riprendersi la terra. Rassicurati a questo riguardo dalla vittoria dell’Armata Rossa, i contadini non accettavano più requisizioni, ed esigevano di scambiare le eccedenze agricole con prodotti dell’industria: non temendo più il ritorno dei vecchi padroni, piuttosto di “regalare” il grano alle città preferivano non seminarlo neppure.
Separata dalla « metà » economica tedesca, la « metà » politica russa del socialismo non aveva alternative ad assecondare lo sviluppo del capitalismo che la stessa distribuzione delle terre ai contadini aveva accelerato.
Il proletariato russo doveva tentare di restare al potere fino a quando la rottura del precario equilibrio post-bellico non avesse riaperto la partita della rivoluzione in Occidente. Nel frattempo doveva utilizzare questo potere per cercare di incanalare lo sviluppo in Russia verso le forme più concentrate di capitalismo di Stato, favorire le rivoluzioni democratiche che, specie in Asia, potevano accelerare la destabilizzazione dell’imperialismo in Occidente, e soprattutto forgiare e radicare tra le masse, con la Terza Intemazionale, lo strumento per
affrontare vittoriosamente la nuova crisi rivoluzionaria quando si fosse presentata. La sconfitta di questa strategia internazionalista – strategia peraltro obbligata dopo la disfatta della rivoluzione tedesca – avviene ad opera delle forze suscitate in Russia dallo sviluppo capitalistico, in particolare proprio dallo sviluppo del capitalismo di Stato. La forma politica in cui trovarono espressione gli interessi del capitalismo di Stato russo fu lo stalinismo.

Leninismo, stalinismo, internazionalismo
Lo stalinismo si presentava come figlio, nonché legittimo erede, del leninismo e alla borghesia mondiale non è mai parso vero di poter attribuire al comunismo, per questa via, i numerosi crimini di cui si è macchiato uno dei più brutali regimi capitalistici storicamente noti. La questione se sia riscontrabile una continuità tra Lenin e Stalin non supera però il test dell’intemazionalismo. Alla prova di questa autentica pietra di paragone del comunismo, lo
stalinismo si rivela per quello che è: non la prosecuzione, ma la negazione totale – fino alla distruzione fisica – dell’ «internazionalismo della Rivoluzione d’Ottobre ». Stalin esordisce come teorico con la tesi del “socialismo in un paese solo”. Contrariamente a quanto sempre sostenuto dai comunisti, da Marx ed Engels fino a Lenin, Stalin affermava che, con la rivoluzione d’Ottobre e la vittoria nella guerra civile, si erano create le condizioni per
“edificare” il socialismo in Russia.
Dal punto di vista della teoria sarebbe agevole dimostrare – e molti comunisti l’hanno fatto – che la sola idea di potere “edificare” il socialismo è già di per sé la negazione del marxismo, anche senza aggiungervi l’assurdità di farlo “in un solo paese” e per giunta in uno tra i più arretrati del mondo.
È però più interessante, perché risolutivo, sottolineare le implicazioni strategiche, politiche e pratiche della nuova “teoria”. Nella strategia di Lenin, la Russia lavorava per l’Occidente, dove si sarebbe combattuta la battaglia deci-siva. La stessa Intemazionale, in cui il partito bolscevico aveva investito preziose energie, aveva la funzione prin-cipale di aiutare in ogni modo i comunisti europei nella loro lotta. Gli interessi della rivoluzione intemazionale facevano premio su qualsivoglia interesse russo.
La teoria del “socialismo in un solo paese” ha la funzione di rovesciare di 180 gradi questa strategia: se in Russia si sta “edificando” il socialismo, allora tocca ai comunisti occidentali subordinare ogni scelta politica e ogni azio-ne pratica a questo scopo supremo. Dato che « l’edificazione del socialismo » altro non era che lo sviluppo del capitalismo di Stato russo, il principio internazionalista di mettere la rivoluzione internazionale al di sopra
di ogni interesse locale diviene il pretesto per estorcere ad ogni comunista dei mondo l’appoggio agli interessi nazionali della Russia.
L’Internazionale Comunista, da partito comunista mondiale, si trasforma in una sorta di secondo ministero degli esteri russo, incaricato di ricavare il massimo vantaggio dalla propria influenza sul movimento operaio mondiale, coprendo e giustificando ogni crimine russo, dal massacro degli anarchici nella guerra civile spagnola fino al patto di Stalin con Hitler per la spartizione della Polonia, con la necessità di difendere la “patria” del socialismo.
Oggi non è difficile scorgere dietro lo stalinismo le forze sociali sprigionate in Russia dallo sviluppo del capitalismo di Stato, e nella teoria della “patria” socialista una variante ideologica del nazionalismo russo. Più
difficile farlo nello sbandamento prodotto dalla sconfitta della rivoluzione intemazionale, sotto i colpi di una controrivoluzione che affiancava alla dissimulazione stalinista i volti apertamente anticomunisti della social-democrazia e del fascismo. Ciononostante lo stalinismo non riuscì a passare facilmente, e trovò proprio in
Russia, nel partito bolscevico, la massima resistenza: per potersi servire del nome del partito di Lenin, Stalin non ebbe alternative alla eliminazione fisica dei protagonisti della rivoluzione, e alla loro sostituzione con i funzionari del capitalismo di Stato in ascesa.
Tra Lenin e Stalin non continuità ma rottura
Dei trenta rivoluzionari che costituivano, come membri effettivi o candidati, il Comitato Centrale del Partito bolscevico alla vigilia della rivoluzione d’Ottobre, otto muoiono prima del 1926, vittime dirette o indirette dell’immane sforzo della guerra civile: Dzhaparidze, Shaumyan, Urickij, Sverdlov, Sergeyev, Lenin, Dzerzinskij e Nogin. Nel 1927 Joffe si suicida per protestare contro l’espulsione di Trotsky dal Comitato Centrale, nel 1935 Berzin è strangolato con una corda di pianoforte perché accusato di essere una spia tedesca, nel 1936 sono pro-cessati e condannati a morte Zinov’ev e Kamenev, tra il 1937 e il 1938 seguono la stessa sorte, giustiziati o fatti sparire nei gulag, Sokolnikov, Bubnov, Bucharin, Rykov, Miliutin, Serebryakov, Smilga, Krestinsky, Antonov-Ovseyenko, Lomov, Kiselev, Preobrazhensky, Yakovleva. Nel 1940 Trotsky viene raggiunto e assassinato in Messico. Si salvano dal massacro, oltre al mandante Stalin, solo Alessandra Kollontaj ed Elena Stasova, entram-be inviate come diplomatiche all’estero, e Muranov, ritiratosi a vita privata nel ’39. La “Chicago Tribune” nel 1943 commentò: “Stalin ha ucciso i sacerdoti della fede marxista. Ha giustiziato i bolscevichi il cui regno era il mondo e che volevano la rivoluzione universale.”
Stalin dovette distruggere fino alle fondamenta quel Partito Bolscevico che, profondamente educato ai principi del comunismo sino all’ultimo dei suoi militanti più umili, mai assecondò la linea che sacrificava la rivoluzione internazionale agli interessi dell’edificazione del capitalismo di Stato in Russia. Cosa che fece Stalin, contro cui si scagliò Lenin negli ultimi mesi di vita (“Dichiaro guerra-e non guerricciola, ma una lotta per la vita e per la morte-allo sciovinismo grande-russo”), arrivando a proporre “ai compagni di pensare alla maniera di togliere Stalin da questo incarico [di segretario generale]. A metà degli anni ’20 si compiva il prologo della contro-rivoluzione in Russia con la estromissione, l’espulsione e la eliminazione fisica vera e propria di tutti i maggiori artefici della rivoluzione. Un altro partito, un nuovo partito, si oppose, distruggendolo, al Partito Bolscevico.

“Noi, invece, che abbiamo per patria il mondo,
come i pesci il mare” Dante Alighieri
Brescia – Maggio 2023