La manifestazione dell’altro ieri, indetta da PCL, La Comune e Sinistra Anticapitalista, davanti all’ambasciata russa di Roma, ha creato un (piccolo) vespaio nell’ambito della “compagneria”. Qualcuno ha ironizzato sul (molto relativo) risalto dato alla stessa da alcuni media borghesi (della serie “Vedete, vi fanno pubblicità perché state dalla loro parte”). Qualcuno mi ha telefonato un po’ scandalizzato, chiedendomi come mai la mia organizzazione aveva aderito. Altri, soprattutto sui social, sono andati giù ancor più pesanti. In genere, a occhio e croce, la maggior parte delle reazioni sono state improntate ad un “campismo moderato” (che caratterizza, mi sembra, il grosso della sinistra cosiddetta radicale qui da noi). Con questa espressione, chiarisco subito, non intendo i fan di Putin e del neozarismo moscovita già provenienti dalla sinistra (e, ovviamente, quelli storicamente di destra). Di questi non mi occupo neppure, in quanto, a mio avviso, fuorusciti da tempo dal “campo largo” della compagneria. Loro stessi sembrano, d’altra parte, sentirsi più a loro agio in compagnia degli Orban, dei Salvini, della Le Pen o di Forza Nuova. Mi riferisco a quei compagni che, pur considerando Putin per quello che è (cioè l’esponente più in vista della destra russa imperialista oligarco-capitalista), ritengono sbagliato un atteggiamento di equidistanza disfattista (il mio) o peggio ancora di appoggio all’Ucraina, basandosi sulla classica analisi “geopolitica” (che nulla ha a che fare con la lotta di classe e/o il socialismo, di qualsiasi tendenza), per cui, seppur non appoggiano Putin, mantengono un profilo basso (o lo criticano “flebilmente”, come scritto da un compagno ieri), in quanto “il nostro dovere è combattere soprattutto il nostro imperialismo” (concetto condivisibile) e/o preoccupati dalla russofobia sparsa a dosi industriali dai vari pennivendoli al servizio dei soliti noti. Devo dire che, seppur colto un po’ di sorpresa dalla manifestazione “trotskista” (così l’ha definita la stampa borghese, generalizzando un etichetta che va un po’ troppo stretta a Sinistra Anticapitalista e che sicuramente farà arrabbiare i compagni de La Comune), non ho nulla da ridire sulla correttezza del presidio anti-Putin e contro l’imperialismo russo. Le mie perplessità non vengono tanto dai rischi di strumentalizzazione, inevitabili in qualsiasi contesto, a maggior ragione in una guerra in cui si affannano a spiegarci quanto sono cattivi i russi e quanto sono bravi gli ucraini, quanto dal rischio di fraintendimento della parola d’ordine “a fianco del popolo ucraino”. Soprattutto se non si prevede un’analoga manifestazione di fronte all’ambasciata di Zelensky, le cui responsabilità nell’attuale guerra, se non erano uguali a quelle di Putin il 24 febbraio, sono andate crescendo in questi ultimi mesi, con una serie di dichiarazioni guerriere (fino all’assurdo di proibire l’espressione, in Ucraina, di posizioni diverse dal “Vincere! E vinceremo” di mussoliniana memoria). So benissimo che i compagni che hanno manifestato contro Putin sono lontani mille miglia dall’appoggiare il tragi-comico di Kiev, ma credo sia difficile far capire, non solo e non tanto alla “compagneria”, quanto alla grande maggioranza del popolo italiano, come sia possibile “difendere il popolo ucraino” senza, pur con tutti i distinguo, appoggiare chi organizza ed egemonizza (purtroppo) la cosiddetta “resistenza” contro l’invasione russa: cioè il governo Zelensky, l’esercito statale e persino le nefande milizie d’estrema destra (spesso in prima linea nei combattimenti) nazionalista. Mi rendo conto della complessità della questione, ma continuano a non convincermi i paralleli con la storia passata di realtà coloniali (dall’Algeria all’Etiopia) oppresse dai vari imperialismi un secolo fa o giù di lì. Anche i richiami all’ipse dixit (di solito Lenin e/o Trotsky, più raramente Marx, mai Rosa Luxemburg) mi lasciano piuttosto freddo, sia perché i contesti erano totalmente diversi, sia perché anche i nostri “maestri” possono essersi sbagliati (eccome!), come ha dimostrato la storia successiva. Occhio, non mi sto riferendo alle (vere o presunte) atrocità da entrambe le parti. Queste, in un certo senso, le do per scontate, tipiche di ogni guerra convenzionale (e pure di quelle “non convenzionali”, in cui si poteva distinguere tra – perdonatemi la banalizzazione – “buoni” e “cattivi”, in cui i “buoni” non erano certo del tutto esenti dalla brutalità, a volte gratuita, o quasi). La mia equidistanza, direi “zimmerwaldiana”, da entrambi i blocchi imperialisti (russo ed occidental-ucraino), rafforzata dalla convinzione che non solo l’Ucraina NON è un paese oppresso di tipo più o meno semi-coloniale (da almeno un secolo, e comunque di certo da 31 anni!), ma che ha avuto governi più o meno nazionalisti che hanno, soprattutto negli ultimi 8 anni, discriminato e a volte perseguitato le minoranze russofone dell’est e del sud (a cominciare dalla Crimea, che è ucraina come il sottoscritto è canadese), pur senza arrivare, per fortuna, al “genocidio” di cui parla la propaganda putiniana, si è ulteriormente consolidata (paradossalmente, diranno i miei amici e compagni filo-ucraini) negli ultimi mesi, di fronte all’escalation dei tanti apprendisti stregoni (Putin e Zelensky in testa) che sembrano sempre più a bulletti di periferia tesi a dimostrare “chi ce l’ha più lungo”. E qui il rischio non riguarda la banda di quartiere, ma l’intera umanità, minacciata dall’olocausto atomico. Ora, tanto sono convinto del diritto del popolo ucraino alla sua esistenza indipendente (e se vuole, pure contrapposta ai “moscoviti”), contro ogni pretesa neo-zarista di Putin e di chiunque sieda al Cremlino, altrettanto resto convinto dell’assurdità di far pagare ai russi d’Ucraina le malefatte degli zar o di Stalin, anche solo discriminandoli per la loro lingua. Più in generale, come ho avuto modo di scrivere in altre occasioni, non mi convince più la lettura “strutturalista” (nel senso marxista di “struttura”) che mette in secondo piano la “sovrastruttura” politico-culturale di un (presunto o vero) movimento “nazionale”. Non perché abbia deciso di appoggiare solo i movimenti col DNA puro (che abbiano cioè una prospettiva chiaramente socialista), ma perché credo sia necessario soppesare bene quanto di “progressivo” ci sia in questi movimenti. Altrimenti perché, per fare un esempio, non appoggiare i talebani contro gli imperialisti occidentali? In fin dei conti si tratta di un “movimento” con radici “popolari” e “nazionali” (pashtun più che afghane, a dire il vero), tra l’altro scevri da qualsiasi influenza imperialista (occidentale, ovvio, ma pure russa o cinese). Non è facile, lo so, tagliare con l’accetta in questi casi (come dimostra, altro esempio, il caso di Hamas nella striscia di Gaza), ma è necessario superare gli schematismi per cui si appoggia tutto ciò che (mi scuso di nuovo per la semplificazione) sa di “terzo mondo” contro il “Nord”, per definizione imperialista. Se, quindi, si tratta soprattutto di uno scontro inter-imperialista (col profitto, as usual, come motore principale da entrambe le parti), in cui si contrappongono due nazionalismi (per restare sul terreno “sovrastrutturale”, che non vuol dire irrilevante!) di estrema destra reazionaria (di cui, certo, uno ha radici imperialiste mentre l’altro è cresciuto in contrapposizione a questo, ma nutrendosi degli stessi umori antidemocratici e tendenzialmente razzisti) l’unica scelta che mi sento di condividere è quella degli internazionalisti di Zimmerwald: non un uomo, non un soldo per la guerra! E, ancor più radicalmente, invitare i popoli di Russia e d’Ucraina al disfattismo antibellicista: il nemico marcia alle loro teste, con tricolore zarista o col bicolore ucraino, e non sta nel soldato con diversa uniforme. Sperando e, nei limiti delle mie forze, battendomi (esercizio di ottimismo della volontà, temo di difficile realizzazione, almeno ) affinché, prima o poi, a quelle bandiere si sostituiscano quelle rosse (o nere, in memoria del “batka” Makhno) della rivolta sociale, della fratellanza internazionalista.

Flavio Guidi

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