Pubblichiamo questo articolo di Aldo Bronzo sulla fondazione del PCC. (Zhōngguó Gòngchǎndǎng)

Quando nel luglio del 1921, presso l’educandato femminile di Via Pabulu a Shanghai, si riunirono i militanti rivoluzionari che intendevano procedere alla fondazione del Partito comunista cinese, non si può dire che la nascente formazione politica si potesse caratterizzare come una potente organizzazione di massa. Gli aderenti al partito erano in tutto 57 e i delegati all’assise congressuale solo 12, dopo che il quadro che accompagnava Mao Zedong dallo Hunan – tal He Shuheng – venne ritenuto troppo a digiuno di fondamentali questioni ideologiche e rispedito indietro.

In effetti il congresso di fondazione del P.C.C. era soprattutto il risultato delle iniziative del gruppo dirigente bolscevico che, dopo la presa del potere in Unione Sovietica, puntava sulla generalizzazione del processo rivoluzionario su scala mondiale. Venne così fondata la III Internazionale che, per i paesi sottoposti a dominazione coloniale, patrocinava la formazione di giovani partiti comunisti che, in virtù della loro esiguità, dovevano porsi con la dovuta duttilità tattica nei confronti del preponderante movimento nazionalista che pure in quel periodo cresceva per incidenza e capacità di mobilitazione, assumendo almeno parzialmente posizione antimperialiste, cioè antitetiche a quelle forze rappresentative degli interessi delle potenze occidentali che, per l’appunto, devastavano il mondo coloniale. In pratica, secondo le elaborazioni dei dirigenti bolscevichi dell’epoca, i giovani partiti comunistiche che andavano nascendo nel mondo coloniale dovevano anche appoggiare il movimento nazionalista, ma – secondo le esplicite indicazioni di Lenin – “senza mai fondersi con esso”, in quanto i partiti stessi dovevano predisporsi per porre in essere lotte rivoluzionarie di più ampia portata di natura sostanzialmente socialista, scavalcando per forza di cose le stesse direzioni nazionaliste che rappresentavano sostanzialmente gli interessi delle giovani borghesie locali.

Sotto l’incalzare di questa progettualità da parte sovietica avevano preso le mosse le “missioni” di Voitinskj prima e di Maring poi che avevano contattato quei pochi quadri che, nel momento dato, evolvevano in senso marxista – soprattutto  Chen Duxiu e Li Dazhao– perché confluissero in un partito capace di fare proprie le concezioni di fondo del marxismo rivoluzionario e, in ultima analisi, di aderire alla III Internazionale di recente formazione.

Certo Voitinskj  e Maring, in momenti diversi, avevano dovuto superare inadeguatezze e  difformità di non poco conto; ma tutto ciò non impedì che nel luglio del 1921 si potesse procedere alla fondazione del partito, dove l’assente Chen Duxiu – impegnato altrove per incarichi universitari – venne eletto Segretario generale, mentre al giovane Mao Zedong furono affidati incarichi più che altro procedimentali. Non mancarono inconvenienti e difficoltà di vario genere; valga per tutte l’apparizione di un personaggio sospetto che suggerirà ai congressisti di eclissarsi rapidamente, giusto in tempo per evitare di incappare in un raid poliziesco opportunamente messo a punto dalle autorità britanniche con intenzioni non proprio amichevoli. Tuttavia l’esiguità del numero dei partecipanti consentirà comunque la prosecuzione di lavori in un luogo più sicuro e precisamente sulle acque di un laghetto ad un centinaio di chilometri da Shanghai, dove i delegati, a bordo di una grossa imbarcazione, riuscirono a portare a termine i lavori congressuali sotto le sembianze di amanti della natura in gita lacustre.

Chen Duxiu venne individuato senza esitazioni di sorta come il capo storico del movimento radicale che si era formato al termine del I conflitto mondiale in Cina e, come tale, fu automaticamente riconosciuto come la figura più autorevole e rappresentativa di quelle forze che avevano progressivamente maturato posizioni conformi ai dettami del marxismo rivoluzionario. Di conseguenza la sua elezione a Segretario generale non venne messa in discussione, così come il suo “programma” politico centrato su una militanza  molto rigorosa che si voleva rivolta a far guadagnare al P.C.C. settori di rilievo del proletariato urbano. Una posizione che riscosse un consenso pressoché unanime, anche se si dové registrare il parziale dissenso di Li Hanjun che patrocinava un’accentuazione della propaganda ideologica per poter attrarre più che altro giovani radicali e intellettuali.

Altre rimostranze si manifestarono per il comportamento del delegato dell’Internazionale – il già citato Maring – che suscitò fin dalle prime battute un marcato disagio tra i delegati in quanto Maring stesso assunse un comportamento risolutamente decisionista su tutte le opzioni politiche all’ordine del giorno, giovandosi peraltro della sua funzione di delegato di quell’Internazionale di cui, nel momento dato, il P.C.C. non faceva parte. In pratica determinò un disagio abbastanza diffuso che portò alcuni delegati a richiedere che Maring non svolgesse alcun ruolo in merito ai lavori in corso, mentre sembra che Zhang Guotao intervenne per proporre di ridimensionare il ruolo del delegato dell’Internazionale moscovita a quello di un mero organo consultivo. Un contesto abbastanza contraddittorio e carico di tensioni che con tutta probabilità suggerì a Maring di tenersi per così dire sulle generali e di  proporre un impegno più specifico per incrementare in tempi brevi il reclutamento di elementi proletari. E su questo era chiaro che dissensi non potevano esserci.

Le risoluzioni approvate al termine dei lavori sintetizzarono la piena valorizzazione delle posizioni di Chen Duxiu e l’accantonamento di quelle più caute sostenute da Hu Hanjun. In pratica venne ribadita l’esigenza di “un rivoluzione armata del proletariato per rovesciare le classi capitaliste” e la messa a punto della “dittatura del proletariato”. Di conseguenza veniva categoricamente esclusa ogni ipotesi di collaborazione con altre forze politiche o raggruppamenti o “intellettuali gialli”, forzando anche le caute disponibilità tattiche che lo stesso Lenin aveva precedentemente individuato come comportamento da tenere nei confronti del movimento nazionalista. Inoltre si sancì la proibizione della partecipazione per i quadri che aderivano al P.C.C.  di aderire ad organismi dove avrebbero svolto funzioni governative o come membri del parlamento, fatta eccezione per i soldati, i poliziotti e gli impiegati dei servizi pubblici. Il partito, ribadivano i documenti approvati nella circostanza, confermava la propria vocazione proletaria, con una proiezione verso i lavoratori delle grandi imprese. L’adesione formale all’Internazionale comunista fu differita a giorni migliori.

Infine i meccanismi relativi al funzionamento del neonato organismo risultarono in perfetta armonia con questo contesto di radicalità sommaria che caratterizzò l’intero congresso. Si sancì infatti l’autorevolezza quasi esclusiva del Comitato centrale che doveva esercitare ogni funzione decisoria nell’intervallo tra i vari congressi, per cui si respinsero le sollecitazioni di Li Hanjun intese a privilegiare una sorta di decentramento ai vari organi periferici che si sarebbero formati se l’auspicata crescita avesse avuto effettivamente luogo. In pratica prevalse un’impostazione ispirata ad una centralizzazione estremamente esasperata che tuttavia, nel periodo immediatamente successivo, non impedirà al P.C.C. di mantenere una sua vivacità critica e una tendenza a diversificarsi in maniera estremamente problematica.

Il congresso di fondazione del P.C.C. chiuderà i suoi lavori caratterizzandosi sostanzialmente per la categoricità abbastanza sommaria  dei suoi orientamenti strategici di fondo e la modestia quasi tautologica delle conseguenti indicazioni politiche. In sostanza la prima assise dei militanti che in Cina avevano maturato posizioni prossime al marxismo rivoluzionario si pose in rilievo, più che altro, per il marcato spirito militante e per la determinazione attivistica intesa a proiettarsi a breve termine nelle lotte politiche con il fine di accrescere il numero degli aderenti in vista dei futuri scontri sociali.

ALDO BRONZO

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