Christian Laval e Francis Vergne
Mentre in Italia gli studi sul contributo politico e filosofico di Gramsci languono, nel resto del mondo è un fiorire di saggi e riflessioni. Dai vicini Francesi e spagnoli, all’America latina e non, all’estremo oriente. Di seguito una parte di un saggio sulla scuola che riprende la riflessione Gramsciana di estrema attualità, pubblicato in origine dal sito contretemps.eu l’11 dicembre. Nostra la traduzione.
Pubblichiamo qui un estratto del libro di Christian Laval e Francis Vergne: Éducation démocratique. La rivoluzione scolastica in arrivo, pubblicato nel settembre 2021 da La Découverte.
De-gerarchizzare la conoscenza
Un altro difetto dell’educazione scolastica attuale è legato alle categorie che strutturano le sue divisioni disciplinari, le sue filiere e i suoi assunti. Queste categorie sono l’inerzia storica e gli ostacoli sociali alla reale eguaglianza dell’apprendimento. La loro impermeabilità, che dipende dall’organizzazione storica delle divisioni tra discipline colte, è anche dovuta alla divisione del lavoro tra gruppi sociali e tra i sessi. Le divisioni più “ovvie” e quindi più ideologiche sono tra le cosiddette materie concrete e astratte, o tra materie tecniche e generali, o tra materie specializzate e cultura generale. Il fatto che queste divisioni siano state superate dallo sviluppo di sistemi tecnici che fanno un uso massiccio della codificazione e della simbolizzazione ha poca importanza in una scuola di classe. In realtà, permettono di “operazionalizzare” l’ordinamento scolastico.
Il problema oggi non è quello di iniettare la “cultura generale” nella formazione degli scienziati e dei tecnici, ma è quello di superare l’opposizione tra le forme di cultura e fare in modo che la mente scientifica non sia considerata come una specialità, non più di quanto lo debba essere la conoscenza delle grandi opere del patrimonio letterario ed estetico o l’invenzione di oggetti tecnici. La nozione di cultura comune permette di superare la contrapposizione tra conoscenze letterarie, scientifiche, tecniche e fisiche, che struttura ancora largamente i curricoli e dà luogo a forme di “naturalizzazione” delle distinzioni tra corsi di studio e tra studenti.
L’opposizione tra cultura letteraria e scientifica è alla base di una separazione tra i sessi che ha funzionato abbastanza bene nelle scuole fino ad oggi. In uno strano e complesso rovesciamento di valori, ciò che distingueva le classi dominanti, e che la vulgata marxista aveva chiamato “cultura borghese” fatta di buon gusto per le arti in generale e la letteratura in particolare, è diventato un insieme di conoscenze e discipline screditate accademicamente, per il loro basso rendimento professionale sul mercato del lavoro, anche se in realtà conservano un valore simbolico implicito.
La cultura comune democratica deve superare questo tipo di divisione sessuale della cultura, non solo incoraggiando le ragazze a studiare le scienze, ma facendo condividere a entrambi i sessi la cultura comune, che è scientifica, tecnica e letteraria. Non dobbiamo ripetere l’errore commesso dai “modernizzatori” degli anni ’60 che credevano che, ripristinando la centralità della scienza nella cultura scolastica, avremmo rotto le affinità elettive tra cultura scolastica e ambienti privilegiati. La grande lezione degli anni ’70 e ’80, in un’epoca in cui le materie e le aree ad alto coefficiente scientifico e matematico stavano diventando il monopolio virtuale dei bambini delle classi dominanti, è che i vantaggi dell’origine sociale non si limitano alla cultura letteraria ed estetica, ma si estendono alle materie più astratte e a quelle più lontane dalla “cultura da salotto”[1].
La cultura comune deve includere la cultura tecnica fin dall’inizio della scuola. L’indipendenza pratica a cui può portare, e la riflessione che permette, il legame sistematico tra pensiero e attività, almeno quando l’insegnamento non è ripetizione di routine ma ragionamento a partire dalla pratica, ne fanno una componente essenziale della cultura democratica. Allo stesso modo, il divario tra la cultura tecnica cosiddetta “pratica” e la cultura scientifica cosiddetta “teorica” deve essere colmato. Niente giustifica la discontinuità tra gli artefatti della tecnologia e la conoscenza dei principi che guidano la loro realizzazione, se non le dimensioni sociali di questa separazione tra gli “operatori” e le élite scientifiche e amministrative del settore privato e pubblico.
Uno dei maggiori ostacoli alla costituzione di una società democratica è la divisione del lavoro tra “lavoro intellettuale” e “lavoro manuale”, tra “funzioni di progettazione” e “funzioni di esecuzione”, una divisione che si riproduce attraverso le generazioni. Questa opposizione sociale, che la scuola da sola non può abolire, potrebbe in parte essere superata da un insegnamento che fornisca agli studenti una padronanza ragionata dei principi delle tecniche e dei contesti in cui vengono utilizzate. Ma ci sono altre tre ragioni altrettanto fondamentali per cui la cultura tecnica non dovrebbe più essere relegata alle classi inferiori, segnando così l’inferiorità simbolica in cui l’istituzione la tiene.
Il primo è che la cultura tecnica è precisamente il dominio che meglio testimonia le capacità creative degli esseri umani in relazione al loro ambiente, che, in particolare attraverso la storia della tecnologia, può alimentare la riflessione antropologica. La seconda ragione è che i mondi in cui viviamo, i mezzi con cui ci scambiamo e le attività di svago di cui godiamo sono tutti mediati da strumenti tecnici che devono essere conosciuti per non imporsi tirannicamente su di noi[2]. Infine, la terza ragione, ben formulata da Guillaume Le Blanc, è che la cultura tecnica è sempre e solo il fondamento di tutta la cultura:
“È tutta la cultura che è tecnica poiché non c’è lavoro che non sia legato a operazioni tecniche di qualche tipo”[3].
3] Questo vale anche per ciò che Mauss chiamava le “tecniche del corpo”, che sono componenti integranti di una concezione emancipatrice della cultura comune. Quest’ultimo deve quindi includere il troppo spesso ignorato o relegato nel dominio di fondo della cultura del corpo attraverso cui l’umanità si è costruita inventando giochi e sfide fisiche e, con essi, regole comuni. Due insidie minacciano oggi l’educazione fisica e lo sport: quella tradizionale del disprezzo delle attività fisiche in nome della superiorità della mente, e quella più contemporanea dell’allineamento con il business dello sport, il suo produttivismo e la sua mercificazione.
Una cultura sportiva democratica deve sviluppare pratiche e tecniche per il corpo che uniscano il piacere e le emozioni della rivalità pacifica, della cooperazione, dell’aiuto reciproco e del rispetto degli altri. Questo è anche il caso delle danze, del mimo e delle arti circensi che invitano gli esseri umani a superare gli ostacoli in modo libero e disinteressato. Le abitudini acquisite in questi esercizi non sono senza effetto sulla capacità di adattamento alle circostanze o sulle facoltà di intuizione, invenzione e anticipazione che contribuiscono alla costruzione della personalità.
L’esperienza della solidarietà di fronte alle difficoltà, la canalizzazione e la regolazione della violenza, il riconoscimento acquisito nell’attività collettiva, l’accettazione ragionata di regole comuni e la loro applicazione sono tutte conoscenze pratiche la cui portata è allo stesso tempo antropologica, etica e, senza dubbio, anche estetica. Michel Serres non si è sbagliato quando ha espresso la sua gratitudine ai “maestri di ginnastica” che insegnano a pensare[4].
4] Troviamo la stessa idea nell’analisi critica di Philippe Descola sul dualismo natura-cultura, quando riflette sul posto che avrebbe lo sport nell'”universale di relazione” a cui aspira.
Il sistema scolastico del futuro deve garantire che nessuna area culturale o disciplina abbia il monopolio dell’eccellenza e il maggior prestigio sociale, come hanno avuto in tempi diversi le scienze umane classiche e poi la matematica, relegando altre discipline in una posizione simbolicamente e socialmente inferiore. Una scuola democratica deve stabilire la de-gerarchizzazione del sapere e ridurre le differenze di valore simbolico e sociale tra i diversi tipi di capacità intellettuali. Bourdieu, uno dei principali autori delle proposte del Collège de France del 1985, lo aveva capito molto bene:
“Per ragioni scientifiche e sociali inseparabili, è necessario combattere tutte le forme, anche le più sottili, di gerarchizzazione delle pratiche e dei saperi – in particolare quelle che si stabiliscono tra il ‘puro’ e l”applicato’, tra il ‘teorico’ e il ‘pratico’ o il ‘tecnico’, e che assumono una forza particolare nella tradizione scolastica francese – imponendo al tempo stesso il riconoscimento sociale di una molteplicità di gerarchie di competenze distinte e irriducibili”.
Uno dei limiti di questo rapporto, peraltro presunto, è che non è stata posta alcuna condizione socio-politica per questa “revoca delle gerarchie”, come se la scuola avesse il potere di parificare i valori sociali accordati ai diversi tipi di conoscenza senza che ci sia, al di fuori della scuola, una politica volontaristica che modifichi la gerarchia tra le forme di lavoro nella società – anche se Bourdieu, sempre nello stesso rapporto, può lucidamente scrivere che,
“Se il sistema scolastico non ha un controllo completo sulla gerarchia delle competenze che garantisce, poiché il valore dei diversi corsi di formazione dipende fortemente dal valore dei posti di lavoro a cui conducono, resta il fatto che l’effetto di consacrazione che esercita non è trascurabile: lavorare per indebolire o abolire le gerarchie tra le diverse forme di attitudine, sia nel funzionamento istituzionale (i punteggi, per esempio) che nella mente degli insegnanti e degli alunni, sarebbe uno dei mezzi più efficaci (nei limiti del sistema educativo) per contribuire all’indebolimento delle gerarchie puramente sociali”[7].
Non è stato un peccato di “scolasticismo” sopravvalutare la possibilità di una reale de-gerarchizzazione separandola da una politica globale che riguarda le strutture sociali e la distribuzione del potere nella società? La “pari dignità” dei saperi e dei corsi di studio è oggi più una pia speranza che una realtà, come si vede nell’ipocrisia della scuola, che sostiene che non c’è gerarchia tra i diversi tipi di maturità, o che la scuola assicura il “successo di tutti” grazie alla pluralizzazione delle forme di questo successo. [8]
La ‘scuola unitaria’ secondo Gramsci
Ciò che deve guidare la definizione di una cultura comune d’ora in poi è il futuro del lavoro nelle società. Se è ovviamente necessario preparare gli individui di domani a far riconoscere socialmente le loro capacità professionali individuali, bisogna anche dar loro i mezzi per essere qualcosa di diverso dai lavoratori subordinati nel rapporto salariale. Per dirla in un altro modo, si tratta di ripensare la formazione intellettuale in vista di un autogoverno popolare, che non comporterà meno cultura, ma molta di più, e tutta insieme tecnica, scientifica, fisica, letteraria, storica e filosofica.
In questa direzione non partiamo da zero. Alcuni teorici del socialismo rivoluzionario hanno posto le basi per questa riflessione. Negli anni ’20, Gramsci espose in brevi ma densi testi il progetto di una “scuola unitaria” per sostituire la vecchia scuola italiana in crisi, ma si scagliò anche contro la soluzione alternativa delle scuole professionali, che, secondo lui, non avrebbero fatto altro che radicare e perpetuare la divisione sociale. Gramsci nota, in un articolo dedicato all'”organizzazione della scuola e della cultura”, che la scuola tradizionale basata sull’ideale condiviso della civiltà umanista è in crisi, a causa della spinta industriale e della specializzazione delle attività e delle scienze, al punto che, secondo lui, ogni attività porta alla creazione di una scuola diversa.
La specializzazione e la differenziazione delle scuole, così come la tendenza parallela di ogni scienza e disciplina a svilupparsi secondo la propria particolarità, sono processi che mettono in discussione la scuola umanista disinteressata che intendeva formare un’individualità capace di pensare da sola e di dirigersi nella vita in modo autonomo secondo i principi dell’umanesimo e dell’illuminismo. Per Gramsci, non si tratta di riprodurre ciò che non è più attuale, ma di inventare una nuova forma di unità culturale per una futura società guidata dai lavoratori.
Secondo Gramsci, non c’è una relazione diretta tra il contenuto dell’educazione e il carattere di classe di una scuola. Contro coloro che, a suo tempo, pensavano che la moltiplicazione delle scuole professionali secondo le specializzazioni e i livelli di responsabilità nella divisione del lavoro avrebbe sostituito la vecchia formazione gesuitico-umanista, vista come intrinsecamente oligarchica, fosse una garanzia di democratizzazione, Gramsci difese un’altra idea della vera scuola democratica.
Una scuola di classe, secondo lui, è una scuola di separazione, quando “ogni gruppo sociale ha il suo tipo di scuola, destinata a perpetuare in questi strati una funzione tradizionale, dominante o strumentale”[9]. La professionalizzazione precoce della scuola, con il pretesto di rispondere alle esigenze della società moderna, non è di per sé democratica. Al contrario, è un tentativo di modellare il sistema scolastico sul sistema sociale e di creare tante scuole quante sono le caste e le classi[10]:
“Le scuole professionali, cioè quelle che si occupano di soddisfare interessi pratici immediati, stanno prendendo il sopravvento sulla scuola formativa immediatamente disinteressata. L’aspetto più paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene vantato come democratico, mentre non solo è destinato a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi.”[11]
La soluzione non è dunque nella diversificazione dei corsi di formazione, come molti dei suoi compagni comunisti auspicavano, ma al contrario nella creazione di una “unica scuola iniziale di cultura generale, umanistica, formativa, che articola precisamente lo sviluppo della capacità di lavorare manualmente (tecnicamente, industrialmente) e lo sviluppo della capacità di riflessione intellettuale.”[12] Questa prospettiva è inseparabile da un ripensamento dell’organizzazione della produzione, del ruolo del lavoro intellettuale e della partecipazione popolare alla vita politica. L’educazione deve formare i futuri collettivi di lavoratori che si faranno carico della vita economica e sociale. I cittadini della società futura devono avere sia una solida “cultura tecnica generale” che una conoscenza approfondita di lingua, letteratura, storia, società ed economia.
La vera rivoluzione culturale non consiste nel sacrificare il prezioso tesoro delle scienze umane, ma piuttosto nell’integrarlo pienamente in una cultura per tutti, attraverso tutte le specialità. È l’unione dei lavoratori e degli intellettuali che deve essere preparata fin dalla scuola, evitando che si allarghi il divario tra categorie che hanno troppo poco in comune culturalmente per lavorare insieme nell’organizzazione della società. Tutta la sfida politica di una cultura comune sta dunque nel creare le condizioni intellettuali per una reale democratizzazione dell’economia e della società. Lo scopo della “scuola unitaria” non è quello di adattarsi alle nuove condizioni di vita, ma di padroneggiare queste condizioni attraverso l’unità dei lavoratori e degli intellettuali, del lavoro e del pensiero.
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Foto: Una macchina da stampa Freinet in un’aula in Messico, 2013. Sergi Bernal.
Note
[1] Per una prospettiva storica sull’illusione scientista inerente alla “modernizzazione”, vedere gli atti del simposio di Amiens del marzo 1968: AEERS, Pour une école nouvelle, op. cit.
[2] Cf Mark HUNYADI, La Tyrannie des modes de vie. Sur le paradoxe moral de notre temps, Le Bord de l’Eau , Lormont, 2014.
[3] Guillaume LE BLANC , ” Cultura generale e cultura tecnica “, in François JACQUET-FRANCILLON e Denis KAMBOUCHNER (dir.), La crisi della cultura scolastica: origini, interpretazioni, prospettive, PUF, Parigi, 2005, p. 314.
[4] Michel SERRES, Mes profs de gym m’ont appris à penser, Le Cherche Midi, Paris, 2020, p. 30-31.
[5] Philippe DESCOLA, Cultures, Éditions Carnets Nord, Parigi, 2017.
[6] Pierre BOURDIEU, Proposte per l’insegnamento del futuro, op. cit.
[7] Ibidem.
[8] Si porta spesso l’esempio della Germania, dove il sistema educativo non subisce la stessa svalutazione della cultura tecnica, il che spiegherebbe perché gli operai e i tecnici sono trattati meglio lì che nelle aziende francesi. I confronti tra sistemi sono molto delicati. Per esempio, si dimentica che la separazione tra istruzione tecnica e generale è molto più precoce in Germania che in Francia.
[9] Antonio Gramsci, “L’organizzazione della scuola e della cultura”, Gli Intellettuali, Ed. Riuniti, Roma, 1975, p. 145.
[10] Questo tipo di scuole differenziate secondo le funzioni professionali è stato proposto già nel XVIII secolo dai fisiocrati francesi. Fu proprio contro questo tipo di scuola basata sulla divisione del lavoro che Condorcet scrisse le sue Cinq Mémoires sur l’Instruction publique.
[11] Antonio Gramsci, “L’organizzazione della scuola et della cultura”, op. cit. p. 145. Per “forme cinesi”, Gramsci intende divise secondo un sistema di caste.
[12] Ibidem, p. 128.