Il 2 giugno 1946, dopo la cupa parentesi del fascismo e della seconda guerra mondiale, il popolo italiano tornava a potersi “esprimere liberamente” nelle urne, per decidere in un referendum se tornare alla monarchia prefascista od optare per una Repubblica. Nello stesso giorno si eleggevano anche i deputati per l’Assemblea Costituente, col metodo proporzionale (metodo molto simile a quello del 1919-1921). E, per la prima volta in Italia, votavano anche le donne. Ovviamente a sinistra molte cose erano cambiate: il “vecchio” PSI era rinato come Partito Socialista di Unità Proletaria, unificando sia gli ex riformisti “turatiani” che gli ex massimalisti (ciò che era avvenuto già nel 1930, in esilio), ma anche le componenti più di sinistra, anti-riformiste ed anti-staliniste che provenivano dall’ex Movimento di Unità Proletaria di Lelio Basso. Anche il PCdI era cambiato: due anni prima, in seguito alla “svolta di Salerno” voluta da Togliatti, aveva modificato simbolo (aggiungendo il tricolore) e nome (diventando Partito Comunista Italiano), ma soprattutto abbandonando il programma rivoluzionario anticapitalista del 1921 (e che, in maniera più o meno coerente, era stato formalmente in vigore fino al VII congresso del Comintern, nel 1935) per abbracciare la linea della “democrazia progressiva”, un qualcosa che, mi si perdoni lo schematismo, stava a metà tra un “capitalismo dal volto umano” e il socialismo (beninteso, in “un solo paese”). Una linea che era molto debitrice di ciò che era stato deciso a Teheran, Yalta e Potsdam da Stalin, Roosevelt e Churchill sul futuro assetto del mondo. Molta acqua era passata sotto i ponti in 25 anni: la sconfitta ad opera del fascismo, la stalinizzazione dell’URSS e del grosso del movimento comunista ufficiale, la guerra mondiale con la vittoria degli Alleati. Le vecchie polemiche tra comunisti e socialisti sembravano sopite (almeno in parte), al punto che forti erano all’interno di entrambi i partiti le spinte all’unità ed addirittura alla fusione. Nell’ambito della sinistra era nato un nuovo partito, il Partito d’Azione, sorto dalle ceneri di “Giustizia e Libertà” dei fratelli Rosselli (assassinati dai fascisti nel 1937), che aveva avuto un grande ruolo nella Resistenza Antifascista (secondo solo a quello dei comunisti) e che aveva al suo interno tendenze variopinte, che andavano da un certo liberal-radicalismo (chiamato spesso liberal-socialismo) fino ad un socialismo libertario con sfumature quasi anarcoidi. I Repubblicani, che non avevano partecipato al CLN per la loro pregiudiziale antimonarchica, emergevano nella nuova situazione come partito non più “sovversivo”, visto che l’obiettivo della Repubblica era ormai raggiunto, iniziando quella parabola di allontanamento dalle forze del movimento socialista ed operaio che li porterà in brevissimo tempo a diventare una delle “stampelle” del nuovo ordine borghese, incentrato sul ruolo chiave della Democrazia Cristiana, partito “pigliatutto” (o quasi), soprattutto dopo il ’48, erede della destra costituzionale (ed anche un po’ oltre) prefascista. Le altre forze della sinistra marxista (bordighisti, trotskisti, ecc.) erano ridotte a poca cosa (lo 0,4% dei voti), anche se il Partito Comunista Internazionalista, in cui militava il vecchio leader del PCd’I, Amadeo Bordiga, ottenne qualche risultato non totalmente irrilevante in alcune città del nord. In definitiva il “Vento del Nord” di cui parlava Nenni soffiò abbastanza forte, portando la sinistra ai suoi massimi risultati elettorali. Ecco i dati nazionali:

  •  Partito Socialista di Unità Proletaria       20,7% (-4,0%)
  •  Partito Comunista Italiano                          18,9% (+14,3%)
  •  Partito d’Azione                                                   1,5% (+1,5%)
  •  Altri                                                                            0,4%  (-2,1%)                                       TOTALE                                                            41,5% (+9,7%)

Come si vede, ben 10 punti in più rispetto alle ultime elezioni libere di 25 anni prima. Se l’Italia non era ancora “rossa”, almeno dal punto di vista elettorale, era perlomeno diventata “rosa”. Anche perché l’altro colore dominante non era più quello dei liberali, ma il bianco dei democristiani, eredi dei clericali del Partito Popolare di Don Sturzo (che era assurto a primo partito italiano in termini di voti, con il 35%, ben più del 20% del 1919-1921). Nell’ambito della sinistra il vero vincitore appariva il PCI, che riemergeva dalla clandestinità con oltre il quadruplo della percentuale ottenuta 25 anni prima (e con 15 volte più voti, oltre che con quasi due milioni di iscritti), anche se, visto il radicamento capillare conquistato nella società, prima con la lotta clandestina e poi con la lotta armata, probabilmente non ci si aspettava di essere superati dai socialisti in termini di voti. Ma si sa, la deformazione nell’urna dei veri rapporti politico-sociali è un dato assodato. Riemergeva, come si vede nella cartina in alto, la “geografia politica” del primo dopoguerra, con le regioni “rosse” nel Centro-Nord, con il cosiddetto Triveneto notevolmente “tinto di rosa” e il Sud (a parte qualche “isola” in Puglia, Calabria e Basilicata) saldamente in mano alla DC o ad altre forze di destra più o meno moderata.  Ecco i dati per le singole regioni (tra parentesi la differenza rispetto al 1921.

  1. Emilia-Romagna                                 66,3% (+20,1%)
  2. Toscana                                                 56,2% (+9,4%)
  3.  Liguria                                                  55,1% (+14,7%)
  4.  Lombardia                                           51,3% (+6,7%)
  5.  Piemonte                                              51,0% (+14,0%)
  6.  Umbria-Reatino                                  50,5% (+21,2%)
  7.  Friuli-Bellunese                                   46,5% (+12,2%)
  8.  Marche                                                  43,3% (+8,0%)
  9.  Veneto                                                    43,1% (+11,5%)
  10.  Sardegna*                                              36,3% (-5,0%)
  11.  Trentino (senza Sud Tirolo)               35,8% (+7,3%)
  12.  Basilicata                                                29,3% (+19,3%)
  13.  Abruzzo                                                  28,1% (+11,0%)
  14.  Calabria                                                   27,9% (+16,6%)
  15.  Lazio                                                        26,8% (-6,5%)
  16.  Puglia                                                       26,4% (+5,0%)
  17.  Sicilia                                                       21,6% (+15,8%)
  18.  Campania                                                17,0% (+10,1%)
  19.  Molise-Sannio                                         14,0% (+14,0%)

*Col Partito Sardo d’Azione.

Come si può agevolmente vedere, è una crescita in quasi tutte le regioni (escluse la Sardegna, in seguito alla crisi del PSd’Az, dimezzato rispetto al ’21, e al Lazio). Una crescita imponente in genere nel Centro-Nord (di 10 o 20 punti!), ma buona anche nel Sud che, pur restando in gran parte in mani reazionario-moderate, vede per la prima volta nella sua storia l’emersione di una sinistra non più marginale anche al di fuori dei tradizionali bastioni bracciantili. Entrando più nel dettaglio, si nota il ritorno al primo posto dell’Emilia-Romagna, col il collegio Bologna-Ferrara-Romagna che arriva ai due terzi dei voti (66,9%, 12 punti in più del 1921) e l’Emilia occidentale che aumenta di quasi 30 punti (65,8% contro il 38,6 del ’21), balzando al secondo posto in Italia. Evidentemente il terrore delle squadracce fasciste del 1920-21 era ormai un lontano ricordo, permettendo il recupero del tradizionale insediamento social-comunista nella Bassa Emiliana. Analogo il recupero delle tradizionali zone rosse lombarde, con Mantova-Cremona risalire al 61,2% (contro il 50,4 del ’21), Milano-Pavia al 55,8 (un punto in più del 1921), e piemontesi (Torino-Novara-Vercelli al 55,4 contro il 40 del 1921). Sempre per restare nelle zone rosse, la Toscana (che, come abbiamo visto nell’articolo precedente, aveva sofferto meno delle altre zone rosse di cui sopra) vede la sua zona meridionale (Siena-Grosseto-Arezzo) risalire al 63,6% (48% nel ’21), il collegio Firenze-Pistoia al 60,1 (15 punti in più che nel ’21), mentre più debole è il recupero nell’area nordoccidentale (Pisa-Livorno-Lucca-Massa Carrara, che sconta la “zavorra” bianca della Lucchesia), che cresce di soli 4 punti (dal 47,4 del ’21 al 51,4 del 1946). Prosegue e si accentua lo spostamento verso il rosso della Liguria (dato destinato a consolidarsi nei decenni successivi), mentre il Veneto, che siamo abituati a considerare “bianchissimo”, risente in queste elezioni del “vento di sinistra”, non solo con la tradizionale Venezia  (oltre il 50% alle sinistre), ma persino con il resto della regione (42,6% del collegio Verona-Vicenza-Padova-Rovigo, 9 punti in più che nel ’21). Persino la bianchissima Trevigiana vede le sinistre superare il 30% dei voti. Si tratta di un comportamento analogo a quello delle zone storicamente meno rosse del Nord: la Lombardia nord-occidentale (47,5%, 8 punti in più che nel ’21), Brescia-Bergamo (40,5%, ben 14 punti in più di 25 anni prima), il Piemonte meridionale (43,2%, 10 punti in più che nel ’21). Il Trentino vota da solo, senza il Tirolo meridionale (in attesa che la Conferenza di pace di Parigi decide il da farsi), e dà alle sinistre il 35,8% dei voti (percentuale mai più raggiunta in seguito), segno che il vento favorevole soffia, seppur meno impetuoso, anche nella valle dell’Adige. Il Friuli, col bianco Bellunese, dà alle sinistre una percentuale, se non da regione rossa, almeno da regione “rosa”, col 46,5%, 12 punti in più rispetto al 1921. Scendendo verso sud, le Marche si confermano regione a doppio volto, con Ancona e Pesaro “rosse” alla romagnola (e teniamo conto del notevole peso del PRI in questa zona, che nel ’21 avevamo considerato nel blocco delle sinistre, diversamente dal ’46), mentre la parte meridionale (Macerata ed Ascoli Piceno) vede il netto predominio democristiano. La media comunque, con quasi il 44% (8 punti in più che 25 anni prima), ne fa una delle regioni cerniera (o rosa, per restare nella metafora cromatica). L’Umbria recupera ampiamente la debacle del ’21, superando, col 50,5% dei voti (21 punti in più che nel ’21) persino il risultato eccezionale del 1919. Il Lazio (senza il Reatino) è l’unica regione italiana (viste le peculiarità sarde) a vedere un calo delle sinistre rispetto al 1921: 26,8%, oltre sei punti in meno. Ovviamente è la realtà della capitale a condizionare questo voto anomalo. E veniamo al Sud vero e proprio. Pur essendo ben lontani dai risultati del Centro-Nord, si può affermare che, con queste elezioni, le sinistre sono riuscite a farsi spazio fuori dalle tradizionali “isole” rosse della Capitanata o del Crotonese. Anzi, mentre l’incremento in queste ultime appare limitato (il collegio Bari-Foggia passa dal 27,9 al 30,6%, uno striminzito +2,7%), troviamo ovunque percentuali raddoppiate e persino di più, come in Basilicata, in Calabria, nel Molise-Sannio, in Sicilia. Fanno eccezione la Puglia centro-meridionale (dal 13 si sale al 20%) e, soprattutto, la Campania settentrionale (nel collegio Napoli-Caserta si stagna intorno al 17%, più o meno come 25 anni prima). Nel collegio Salerno-Avellino si esce comunque dai risultati ad una cifra (il 5% del 1921), arrivando ad un modesto, ma incoraggiante (viste le condizioni di partenza) 17,6%. Un caso particolare, come accennato sopra, è costituito dalla Sardegna, che nel 1921, col 41,3%, era assurta al quarto posto nella graduatoria rossa, per scendere nel ’46, col 36,3%, all’undicesimo (ma sempre prima tra le regioni meridionali). In realtà la sinistra “di classe” è aumentata nell’isola, passando dal 13 al 21%. Il calo di 5 punti è tutto attribuibile alla crisi dei sardisti di sinistra del PSd’Az, dimezzatisi rispetto a 25 anni prima.

Rispetto al quadro del primo dopoguerra, si nota un passo avanti verso l’omogeneizzazione dei comportamenti elettorali. Siamo ancora ben lontani dal livello raggiunto nel XXI secolo, grazie all’onnipresenza e all’invasività dei mass-media, che tendono a “spalmare” il voto d’opinione in ogni angolo del Paese, dalle metropoli all’ultimo villaggio sperduto sui monti. Infatti i tre quarti del voto di sinistra si concentrano a nord dell’immaginaria linea che corre tra il sud della Maremma toscana e il porto di Ancona. Ma tra la media delle regioni “bianche” e quelle “rosse” il rapporto, nel 1946, è più o meno di 2 a 1, mentre un quarto di secolo prima era di uno a cinque o uno a sei (o addirittura tendente all’infinito, se pensiamo che nel ’19 il voto socialista era addirittura assente nel Molise e nel Sannio, ed era tra il 5 e il 6% nella maggior parte del Mezzogiorno.

[continua….]

Flavio Guidi

 

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