di Alessandro Estetico

Sin da quando ero ragazzino, camminando per le vie della città, tra le luci e le decorazioni natalizie, mi sorprendevo spesso in uno stato di sospensione. Non si trattava di stupore, né attrazione, e neppure repulsione. Era una percezione vaga ma costante che ciò che mi circondava era più grande di me, che stava operando su di me senza che io avessi possibilità di scelta.

Per anni ho cercato di dargli un nome, un’identità. Mi sono chiesto spesso cosa mi facesse sentire fuori luogo, a disagio, mentre ero avvolto dal candore e dalle luci degli addobbi tra le strade.

Poi finalmente sono riuscito a dargli un nome, a capire che quanto mi faceva e mi fa sentire tuttora in questa predisposizione d’animo si spiega alla luce di quella che si può definire un’estetica totalitaria che ci avvolge e ci pervade fin dentro l’anima.

L’immane apparato di merci che si dispiega davanti agli occhi non è solo una scenografia: è una fantasmagoria che prende la forma di un rito.

Una bellezza mostruosa, un fulgore oscuro. Una violenza impalpabile che ci attraversa nel candore delle campane a festa.

Benjamin aveva colto, con lucidità quasi profetica, questo carattere cultuale del capitalismo: una religione senza teologia, fatta solo di rito, di ripetizione, di presenza continua. Non cercò prove — forse perché il capitalismo, come ogni culto, si manifesta non dimostrando, ma imponendo la sua atmosfera.

La città natalizia è allora il suo santuario: il luogo dove sacro e profano si confondono, dove il consumo diventa liturgia.

L’albero di Natale gigante piazzato al centro delle piazze, nella sua imponenza, non è innocuo. Funziona come un totem moderno — Freud direbbe un sostituto laico dell’antica figura paterna del clan — e ricapitola in sé millenni di simboli.

Il suo valore, tuttavia, non si esaurisce nella ricordanza del sacro arcaico: è anche un gigantesco segnale stradale che rimanda ai grandi magazzini, alle offerte, alla corsa all’acquisto.

E’ un totem che benedice il commercio.

Qui la genealogia diventa chiara: la continuità tra feticismo religioso arcaico e feticismo delle merci non è metafora ma fatto antropologico. Le società di classe hanno trasformato il sacro in valore, e il valore in forma universale del sacro. La Mesopotamia dell’alienazione — la nascita simultanea di Stato, gerarchia, proprietà, divinità — non ha mai smesso di proiettare la sua ombra.

Oggi, però, questo dispositivo non si limita a ripetere antiche funzioni: si è ingegnerizzato. La tecnica, razionalità strumentale al servizio del Capitale, non si limita a coordinare la produzione, ma modella la psicologia collettiva. I suoi tentacoli — algoritmi, dispositivi di sorveglianza morbida, design persuasivo — “piovrizzano” la vita quotidiana. Nulla è lasciato al caso: tutto è calibrato, misurato, ottimizzato per convogliare l’attenzione verso l’atto di consumo.

Debord lo aveva chiamato spettacolo: la colonizzazione dell’immaginario, la trasformazione del vissuto in rappresentazione e della rappresentazione in legge. E qui lo spettacolo natalizio raggiunge la sua forma più compiuta: non più immagini che guardiamo, ma un ambiente che abitiamo, un’atmosfera che ci attraversa e definisce ciò che è possibile sentire.

Basta osservare la mobilità urbana: uomini e donne si muovono come insetti attratti dalla luce, convergendo spontaneamente verso le arterie principali dello shopping natalizio. Il valore di scambio celebra qui le sue orge, disgregando la percezione, triturando il pensiero, colonizzando parola ed emozione in un torpore estetico che restituisce il mondo già interpretato, già desiderato, già pagato.

E tuttavia — e questo è il punto decisivo — nel cuore stesso di questa estetizzazione totalitaria si intravede un rovescio dialettico. In questo orrore si intravede una nostalgia che non è mera malinconia, ma l’eco di una possibilità mutilata.

Chi prova fastidio per il Natale, chi lo odia, chi lo sopporta a fatica, non sempre è un misantropo: spesso è qualcuno che intuisce, confusamente, che la dimensione della festa potrebbe essere altro, potrebbe essere liberata.

Che l’umanità, riappropriandosi della propria vita sociale, potrebbe ritrovare nella celebrazione collettiva non il ricatto del consumo ma la gioia immediata dell’essere insieme.

Quella nostalgia dolorosa — che molti portano dentro come una ferita — è la testimonianza negativa di un potenziale positivo: la festa come forma di vita non mediata dal valore, come spazio di espressione non subordinato alla merce, come rito laico della comunità umana finalmente ricomposta.

L’albero di Natale potrebbe essere un simbolo di abbondanza condivisa, non di scarsità indotta; la luce potrebbe indicare cammino e rifugio, non attrazione magnetica verso la spesa; la città addobbata potrebbe essere celebrazione dell’inverno, delle relazioni, del tempo sottratto al lavoro, non macchina di accumulazione.

Dietro ogni sorriso confezionato, dietro ogni regalo prescritto dal rituale del consumo, si staglia — sì — la crisalide sociale del valore. Ma proprio perché la crisalide è tale, la metamorfosi rimane possibile. Il dominio del valore è silenzioso, muto, onnipervasivo; ma non è eterno.

La festa, se liberata dalla sua cappa feticistica, potrebbe diventare il luogo della socializzazione autentica.

Ed è forse proprio questa possibilità che il capitalismo teme e, paradossalmente, mimetizza: la possibilità che gli uomini, smettendo di essere consumatori, tornino a essere semplicemente umani — capaci di celebrare non ciò che possiedono, ma ciò che sono insieme.

Ma questo significherebbe negare il capitalismo stesso.

Allora potremmo forse dire che il comunismo sarà la realizzazione della Festa che il Capitale tradisce nel momento in cui la vende.

E che il concetto stesso del Natale porta con sé questo negativo, che ci ricorda la possibilità di un futuro che è già presente nelle cose.


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