di Gianni Sartori
Come (quasi) sempre del tragico episodio esistono almeno due versioni.
L’infermiere ecologista Manuel Esteban Paez Teran conosciuto come Tortuguita, tartarughina) ha perso la vita il 18 gennaio durante lo sgombero degli accampamenti (circa una trentina) a difesa di una foresta pubblica (Gresham Park, una quarantina di ettari nella regione di Atlanta) in procinto di essere abbattuta per costruire un grande centro di formazione alla pubblica sicurezza. Un manufatto che i dissidenti hanno già soprannominato “Cop City” ritenendo che diventerà un luogo per “l’addestramento alla guerra urbana” (ossia per reprimere manifestazioni e proteste). Causa della morte del venticinquenne, stando al comunicato del Georgia Bureau of Investigation (GBI), un colpo di arma da fuoco esploso dalla polizia.
Inevitabile ricordare un caso simile, quello di Berkin Elvan , a Gezi Park.
Colpito da un lacrimogeno, il quindicenne turco era morto dopo 9 mesi di coma (266 giorni) nel marzo 2014. Anche a Gezi Park la protesta era sorta per protestare contro l’abbattimento di alberi secolari.
Nel momento cruciale dell’intervento (con utilizzo di cani, bulldozer, lacrimogeni, proiettili di plastica…) Teran si trovava all’interno di una tenda dopo essersi rifiutato di obbedire all’ordine di sgombero.
Sempre secondo il GBI, il giovano avrebbe colpito e ferito un militare, presumibilmente un membro dell’unità speciale di polizia SWAT (Special Weapons And Tactics) e a questo punto gli altri agenti avrebbero reagito abbattendolo. Ma questa versione non sembra aver convinto gli altri ambientalisti presenti sul luogo.
Teran, attivo in un gruppo di “mutuo soccorso”, aveva partecipato alla costruzione di piattaforme sugli alberi e di tunnel per almeno rallentare, se non proprio impedire, l’abbattimento delle piante. Nella convinzione che ”questo progetto da novanta milioni di dollari comporta l’abbattimento di un numero talmente alto di alberi da determinare seri danni ambientali”.
Il soldato rimasto ferito avrebbe subito un primo intervento chirurgico e sarebbe in terapia intensiva in attesa di un ulteriore intervento.
Durante lo sgombero degli accampamenti sarebbero stati rivenuti “petardi, fuochi artificiali potenzialmente pericolosi, armi bianche, maschere anti gas, fucili ad aria compressa, torce…”.
Sette persone (tutte di età compresa tra i venti e i 34 anni) sono state arrestate con l’accusa di “terrorismo interno” (avendo – secondo il GBI – appiccato incendi che hanno messo in pericolo le comunità locali) e di occupazione illegale. Per un’altra ventina di ambientalisti, accuse di minore entità.
Altri arresti c’erano stati nei mesi scorsi quando le forze dell’ordine che rimuovevano le barricate erano stati fatti oggetto del lancio di pietre.
Da segnalare che da tempo i manifestanti (consapevoli di come la tensione andasse crescendo e dei rischi connessi) avevano chiesto che la polizia non intervenisse portandosi appresso armi da fuoco.
Gianni Sartori
IN AFRICA LITIO & C. RIMESCOLANO LE CARTE.
E MAGARI DOMANI ANCHE QUELLE GEOGRAFICHE…
Gianni Sartori
Facile previsione quella di dover assistere, oltre al deflagrare di conflitti, a nuove insorgenze indipendentiste o magari più modestamente a richieste di autonomia in quei territori africani dove si va ad estrarre, lavorare, commercializzare…il prezioso litio (e gli altri minerali indispensabili per l’elettrico).
Quindi eventuali situazioni di autonomia amministrativa preesistenti potrebbero, possono tornare utili, provvidenziali.
Vedi il caso del distretto autonomo di Abidjan, con relativo porto, in Costa d’Avorio. Magari grazie alla preveggenza di qualche compagnia straniera che da tempo aveva allungato le mani su questo strategico terminale minerario. Anche se il minerale in questione (per la cronaca: il prezzo del litio nell’ultimo anno è aumentato circa del 500%) proviene da un paese limitrofo, il Mali.
Infatti l’avvio dei preliminari delle attività estrattive nei giacimenti dell’azienda australiana Leo Lithium limited (in Mali) ha determinato un’accelerazione dei lavori nel “porto autonomo” di Abidjan. Dal 2018 a disposizione della società belga Sea Invest che ha in programma di ampliarne ulteriormente le capacità di stoccaggio (passando da 200mila tonnellate a 300mila) e di esportazione (sempre in previsione, annualmente oltre tre milioni di tonnellate di minerali).
Per i lavori di ampliamento e modernizzazione, si prevedono tempi brevi, al massimo una decina di mesi.
AUTONOMIA SI’, MA AL SERVIZIO DI CHI?
Va detto che la particolare condizione di Abidjan solleva qualche perplessità sull’eventuale abuso del concetto di “autonomia”.
L’ex capitale e maggior città ivoriana costituisce un distretto autonomo dei 14 in cui è suddiviso il Paese.
O meglio: una “regione urbana autonoma” (come l’altra, Yamoussoukro, la nuova capitale amministrativa).
Tutto questo potrebbe essere risultato un buon punto di partenza per l’ampliamento e la gestione (leggi controllo) delle infrastrutture necessarie per concentrarvi i minerali da esportare.
In Mali il progetto Goulamina (un giacimento di litio nel sud del paese, a circa 150 chilometri da Bamako) si avvia a diventare (si prevede nel giro di un paio di anni) forse la prima, comunque una delle maggiori miniere in attività del continente africano. L’area interessata si estende per quasi trentamila ettari (nel permesso di Torakoro) ed il progetto è sviluppato – come già detto – da Leo lithium limited, in collaborazione con la Ganfeng lithium (cinese).
Salvo imprevisti (come l’utilizzo di manodopera immigrata, specializzata o meno) l’impianto minerario dovrebbe assumere circa 6-7cento persone del luogo.
Un migliaio quelle assunte temporaneamente per i lavori di costruzione (durata prevista: due anni), mentre una novantina di milioni di euro (poco più di un terzo dei 240 complessivi) dovrebbero finire nelle tasche di imprenditori maliani (fornitori di calcestruzzo, attrezzature, installazioni…).
Gianni Sartori
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