di Mauro Belcastro

Ci sono due episodi che continuano a tormentarmi da qualche giorno. Mentre preparavo una lezione su Kierkegaard, ricevo il messaggio di un mio ex-studente che mi scrive: «Prof., stavolta abbiamo sbagliato: avremmo dovuto occupare…». Poi, a scuola, un brevissimo scambio con una collega: «Non c’eri ieri, come mai?». «Ero con gli studenti alla manifestazione per la morte di Lorenzo e a chiedere la fine del PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, ndr)». «Eh, quello non era un PCTO. Bisogna essere precisi con le parole…».

Allo studente ho risposto senza mezzi termini che per la lotta c’è sempre tempo: non si è mai in ritardo quando si deve prendere la parola di fronte a un’ingiustizia, di fronte alla pervasiva, arrogante e prepotente imposizione di chi sa sempre cosa sia meglio per te… Alla collega non ho risposto. E questo continua a tormentarmi. Perché?

Venerdì scorso, a Torino, alla manifestazione organizzata dagli studenti e patrocinata da COBAS, non eravamo molti. «Non importa ‒ mi ha detto un collega ‒ in qualche modo dobbiamo ricominciare a manifestare». C’era anche mio figlio con me. Lui, quattordicenne della generazione di Fridays for Future, non aveva ancora mai partecipato a una manifestazione di questo tipo, e gli è bastata la prima carica della polizia per rendersene conto. Iniziata la manifestazione, i poliziotti hanno subito sbarrato ogni via d’uscita da Piazza Arbarello. Un corteo era da escludere. Lamorgese è stata chiara: siamo in zona arancione, quindi se avessimo voluto fare una manifestazione statica ok, ma un corteo proprio no. Neppure il tempo di interloquire con la polizia sull’assurdità della risoluzione del Governo che è partita la prima carica (“di alleggerimento”, l’hanno chiamata). L’accanimento dei manganelli è stato piuttosto impressionante… Ma non era che l’inizio, perché a quella sono seguite altre quattro cariche, con altrettante manganellate. Pesanti. I ragazzi e le ragazze, e noi adulti con loro, giravamo in tondo per Piazza Arbarello come criceti senza meta, ma ben coscienti di quanto stava accadendo. Dopo la terza carica della polizia, qualcuno/a aveva cominciato a chiedersi se non fosse il caso di sedersi a terra e di cominciare a discutere sul da farsi, discutere della morte di Lorenzo, discutere di abolizione di PCTO. Ma ormai la situazione era troppo tesa, troppo frangiata.

Vedere studenti e studentesse pestati/e è orribile; se poi è il potere a esercitare violenza, ancora peggio. Non è certo la prima volta e non sarà l’ultima, però in questo contesto, carico di bianca e dragonesca retorica sul “bene dei nostri ragazzi”, mi fa ancora più arrabbiare. Quella “benevola retorica” che vede la scuola come il luogo in cui ragazzi e ragazze si formano per il futuro, io la trovo agghiacciante e offensiva: gli studenti e le studentesse non sono concetti futuri, ma presente attivo, operante e creativo. Non sono feti in formazione, non sono materia grezza che il sistema del plusvalore può manipolare, non sono carbone per le formaci del capitale. Sono esseri umani che pensano, che hanno una personalità, delle idee, delle aspettative, delle speranze, certo, ma hanno anche un presente (sono un presente) che vedono con grande preoccupazione, un presente che si sta ormai disgregando sotto i nostri piedi. È vero che i ragazzi e le ragazze mancano di qualcosa: dopo decenni di “buonascuola” (la legge renziana non ha fatto che vidimare una mentalità operante da molto tempo) di sicuro è evidente a chi lavora nella scuola che mancano di prospettiva. Spesso sono anestetizzati, sedati da una molteplicità di “elementi dopanti” ‒ che si chiamano plusvalore ‒ e che non consente loro di decidersi per la trasformazione del mondo. E la scuola, che dovrebbe essere il luogo in cui emerge la critica radicale al mondo così com’è, in cui si affinano gli strumenti di e per questa critica, diventa invece il luogo della riproducibilità e riproduzione dell’esistente.

Pensando alla risposta che avrei voluto dare alla collega, mi viene in mente che il PCTO è solo una delle forme ‒ acuta ‒ della malattia della scuola. E noi insegnanti accettiamo supinamente la mentalità veicolata da questa forma di scuola-impresa, illudendoci si tratti di un’esperienza formativa. Mentre si tratta di un’esperienza performativa, che dice cose facendole, trasformando cioè gli studenti, le studentesse, in tanti bravi ingranaggi della macchina del profitto. Lorenzo non è morto “propriamente” durante un PCTO. «D’altronde, sai, lui faceva una scuola professionale. Lì c’è il tirocinio, c’è il sistema duale…». Frasi come queste ne ho sentite diverse nei giorni scorsi, frasi che aggiungono classismo alla cecità. Il sistema scuola-lavoro, declinato con diversi nomi a seconda che si tratti delle “scuole di serie A, B o C”, è un sistema che non ha bisogno di distinguo, di precisazioni terminologiche. È un sistema che ha bisogno di essere riconosciuto per quello che è, cioè funzione del capitale, e che deve essere trasformato. La scuola addestra i lavoratori del futuro a essere bravi funzionari, obbedienti e ossequiosi.

Il problema è che anche noi insegnanti siamo affetti da questa malattia: sfiduciati, ridotti a merce, per lo più precari, facciamo fatica a fare fronte comune, a essere solidali persino tra noi, per il bene della scuola e della società tutta. La pandemia ha peggiorato tutto, ma ha anche accelerato la disgregazione, rivelando che “il re è nudo”. Non credo lo stiamo capendo. Mi sembra però arrivato il momento ‒ ed è questo ‒ di prendere in mano la scuola e cambiarla. Docenti, studenti e studentesse, tutti e tutte assieme. Senza attendere che qualcun altro lo faccia per noi, perché difficilmente giungeranno proposte “dall’alto” che vadano in una direzione diversa da quella del profitto.

Plaudo alla decisione del Liceo Gioberti di Torino di occupare la scuola. È necessario ora fare rete tra scuole, per costruire un cambiamento largo e condiviso.

Articolo originale https://volerelaluna.it/opinioni/2022/02/04/le-manganellate-agli-studenti-sono-solo-la-punta-delliceberg/

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