di Marco Parodi
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Venerdì 28 maggio 2021 il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legge recante la governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e le prime misure sulle cosiddette semplificazioni. Così, nell’applauso pressoché unanime e generalizzato, il tanto elogiato PNRR comincia a produrre i suoi effetti. Hoc erat in votis, il professor Draghi risponde ai più scettici: «in varie occasioni della mia vita mi hanno chiesto: “come pensi di farcela?”. Beh, insomma, abbastanza spesso ce l’ho fatta io, e stavolta ce la farà il Governo». Rileggendo la sua biografia, lo spavento è d’obbligo. Ovvero: come ho imparato a preoccuparmi e … ad odiare il Capitale.
Gli assi strategici del PNRR
Già, il capitale. Comprendere davvero il PNRR è persino meno complicato di quanto sembri a prima vista: tutto ruota intorno al capitale, in funzione del capitale. La ripresa e la resilienza del capitale sono il motivo e lo scopo stesso di tutto il Piano. Quando venne presentata la primissima versione del PNRR dal Governo Conte, c’erano quattro linee strategiche e quattro sfide, cui corrispondevano sei missioni e sedici componenti funzionali. Le quattro linee strategiche erano la digitalizzazione e modernizzazione produttiva, la transizione ecologica, l’inclusione sociale e territoriale e la parità di genere. Ebbene sembravano proprio gli stessi assi, sebbene con prospettive diametralmente opposte, del programma strategico di Sinistra Anticapitalista: rivoluzionaria nel modo di produzione, eco–socialista e femminista. Da un lato, nel PNRR le linee strategiche sono subordinate alla logica del capitale e dell’imperialismo; dall’altro lato, in Sinistra Anticapitalista sono piuttosto orientate in senso anticapitalista e internazionalista. Ma gli assi erano pur sempre gli stessi, a riprova di quanto appropriata nella teoria e nella prassi, nonché adeguata allo scontro di classe, fosse stata la scelta strategica di Sinistra Anticapitalista, sin dalla sua costituzione, di orientarsi in senso rivoluzionario, ecosocialista e femminista.
Già nella seconda versione di gennaio, e poi in quella finale trasmessa dal Governo Draghi alla Commissione europea a fine aprile, gli assi strategici sono ridotti a tre, cui sono state aggiunte altrettante priorità trasversali. Le missioni e le componenti funzionali sono invece confermate. Quindi, i tre assi strategici sono: la digitalizzazione e l’innovazione, la transizione ecologica e l’inclusione sociale. Al tempo stesso, la parità di genere e l’inclusione territoriale sono parzialmente ridimensionate, costituendo comunque, assieme alle giovani generazioni, –donne, giovani e Sud-, le priorità trasversali di tutte le sei missioni. Per chi nutrisse dubbi sul vincolo del capitale, è emblematico come vengono più opportunamente riclassificati i tre assi strategici: capitale umano, capitale naturale e capitale sociale. Al contrario di quanto viene risaltato, si tratta di pura subordinazione: la conoscenza e l’innovazione tecnologica, l’ambiente e la società devono essere inquadrati esclusivamente nell’ottica della funzionalità alla ripresa e alla resilienza del capitale.
Così, infatti, ripresa e resilienza per il capitale identificano lo scopo essenzialmente duplice del PNRR. Si tratta di ripristinare le migliori condizioni per l’accumulazione di capitale e di migliorare la competitività delle imprese, sia in termini quantitativi, ovvero di sostenere la ripresa economica dopo la grande recessione e il grande lockdown, sia in termini qualitativi, ovvero di consentire la resilienza della produzione di fronte alle nuove sfide globali e minacce imperialiste. La transizione gemella, twin transition, digitale ed ecologica, rappresenta un’occasione di ripristino e impulso della profittabilità capitalista e un’opportunità storica imperdibile per il rilancio dell’imperialismo europeo. In questo senso, la svolta digitale ed ecologista del capitale, lungi dal rappresentare i contorni di una conversione ideologica nel nome della sostenibilità economica; si tratta, piuttosto, in senso duplice, sia dell’ennesima riproposizione della ricerca spasmodica del profitto per mezzo di un nuovo e forsennato tentativo di sviluppo incondizionato delle forze produttive, sia dell’ennesimo lacerante scontro tra le forze imperialiste.
Ripresa e resilienza per il capitale: investimenti e riforme
Di fronte a questa drammatica realtà, prima la grande recessione poi il grande lockdown, si dovrebbe valutare la risposta del programma europeo del Next Generation EU (NGEU), col duplice scopo di innescare la nuova crescita della profittabilità delle imprese e rilanciare l’imperialismo europeo. Purtroppo, l’Unione europea è sempre un terribile teatro di contraddizioni tra gli imperialismi dei singoli stati membri, contrapposti al loro interno tra paesi membri creditori e paesi membri debitori. Il risultato è che, a stento, è stato partorito un topolino. La quantità di risorse messe in campo dal NGEU ammonta a 750 miliardi di euro e si compone di vari stanziamenti su diversi programmi in funzione delle differenti finalità da perseguire. In termini di paragone, l’agenda Biden di “Ricostruire Meglio”, Build Back Better, ammonta nelle sue tre componenti a circa 6 mila miliardi..
L’iniziativa di gran lunga di maggior rilievo è la costituzione del Dispositivo per la ripresa e la resilienza, Recovery and resilience facility, (RRF), con una dotazione di 672,5 miliardi, di cui 312,5 miliardi sotto forma di sovvenzioni e 360 miliardi di prestiti. La componente di prestiti verrà erogata interamente attraverso questo strumento. Le dotazioni degli altri strumenti sono invece costituite interamente da sovvenzioni. Infatti, per finanziare il programma NGEU la Commissione prenderà a prestito 750 miliardi di euro sui mercati finanziari. Mentre le sovvenzioni assegnate agli stati membri dovranno essere rimborsate attraverso i futuri bilanci dell’Unione entro il 2058, grazie a un innalzamento temporaneo del massimale delle risorse proprie al 2 per cento del reddito nazionale lordo della UE, basato sull’istituzione di nuove forme di tassazione europea, nel caso dei prestiti contratti dalla UE e trasferiti agli stati membri, i rimborsi saranno a carico dei singoli paesi beneficiari (back to back).
Da un lato, il piano si presenta quantitativamente debole per il rilancio su scala europea, mentre alcuni singoli stati membri meno indebitati preferiranno muoversi in modo autonomo, come nel caso della Germania e degli stati frugali, che inevitabilmente integreranno le scarsissime risorse loro destinate dal NGEU; dall’altro lato, si tratta per una consistente quota di prestiti da parte degli stati membri creditori agli stati membri indebitati e per altri versi di sovvenzioni rigidamente condizionate, per mezzo dell’intercessione della beata Commissione europea. Nella prassi europea, la differenza tra fund e facility è tutta qui: il secondo è sottoposto a rigorose condizioni. Per carità di patria, smettiamola quindi di continuare a chiamarlo Recovery fund.
Per quanto riguarda le risorse mobilitate dal PNRR italiano, il loro ammontare complessivo, da utilizzare tra il 2021 e il 2026, è pari a circa 236 miliardi, costituiti in larga parte dai finanziamenti provenienti dal programma NGEU. In particolare, la quota del RRF destinata all’Italia è stimata in 191,5 miliardi, di cui 68,9 miliardi di sovvenzioni e 122,6 miliardi di prestiti, mentre quella erogata dal programma ReactEU raggiunge i 13,5 miliardi. In totale, le risorse del programma NGEU sono quindi pari a 205 miliardi; i restanti 31 miliardi circa del PNRR sono invece risorse nazionali, stanziate su un fondo di durata decennale istituito appositamente per l’attivazione del Piano nazionale per gli investimenti complementari, previa un ulteriore scostamento di bilancio a debito. Occorre evidenziare che dei 122,6 miliardi di euro di prestiti UE, soltanto 53,5 miliardi sono destinati a investimenti nuovi e aggiuntivi, mentre 69,1 miliardi di euro (quasi il 30 per cento del totale del PNRR) sono sostitutivi, ovvero impiegati per finanziare impegni già presi. L’Italia ha praticamente deciso di utilizzare quasi un terzo dei fondi soltanto per risparmiare sulla differenza tra gli interessi sul debito europeo comune rispetto al costo delle emissioni nazionali. Resta che, nei fatti, l’impatto aggiuntivo va valutato soltanto per 166,9 miliardi di euro, che, al netto delle ulteriori risorse nazionali complementari, si riducono a 153,4 miliardi di euro, di cui le sovvenzioni vere e proprie sono soltanto 68,9 miliardi, il 45 per cento, in sei anni. Ben poco rispetto a quanto megafonato e sicuramente insufficiente per promettere un nuovo miracolo ecosostenibile.
Coerentemente con quanto stabilito dal Regolamento europeo del RRF del 12 febbraio scorso, il dispositivo si basa sull’implementazione duplice di Investimenti e Riforme, orientate a risolvere le carenze strutturali delle economie degli stati membri, sulla base di quanto evidenziato nelle Raccomandazioni che il Consiglio ha inviato a ciascuno stato nel 2019 e nel 2020, nell’ambito del Semestre europeo. Per quanto concerne l’Italia, vi sono due squilibri macroeconomici eccessivi: l’elevato debito pubblico e la bassa competitività. Le riforme strutturali previste dalle Raccomandazioni del Consiglio sono quindi indirizzate in tal senso. La novità prevista nel nuovo Regolamento è che queste riforme strutturali divengono la condizione necessaria per accedere alle sovvenzioni e ai prestiti del RRF. Il monitoraggio sarà svolto in modo scrupoloso. Oltre 500 schede progetto, 2500 pagine e fogli excel per identificare obiettivi e processi, target e milestone, di ciascun investimento e di ciascuna riforma. Stavolta non c’è davvero scampo: non solo le riforme dovranno essere attuate a tutti i costi e gli investimenti realizzati senza se e senza ma, ma occorrerà raggiungere gli indicatori quantitativi stabiliti, talvolta davvero grotteschi, secondo i processi qualitativi già predefiniti. Il vincolo esterno è oggi più interno che mai.
A questo fine, il Piano comprende tre diverse tipologie di riforme: i) le Riforme orizzontali o di contesto, come la riforma della giustizia e della pubblica amministrazione, idonee a migliorare l’equità, l’efficienza e la competitività e, con esse, il clima economico del Paese; ii) le Riforme abilitanti, come la riforma della concorrenza e della semplificazione amministrativa, ovvero gli interventi funzionali a rimuovere gli ostacoli amministrativi, regolatori e procedurali che condizionano le attività economiche e la qualità dei servizi erogati; iii) le Riforme settoriali, contenute all’interno delle singole missioni. Infine, vi sono le Riforme di accompagnamento alla realizzazione del Piano, come la riforma del sistema fiscale e degli ammortizzatori sociali. Oltre a ciò, esiste il non detto nel PNRR, come la riforma delle pensioni, ossia la mancata conferma di quota 100, come promesso alla Commissione europea, e la riforma del reddito di cittadinanza, soprattutto sul piano delle cosiddette politiche attive, alias vincoli maggiori alla precarietà e flessibilità del mercato del lavoro.
Il ruolo dello stato borghese nella concezione liberale corrisponde esattamente alla necessità di creare le condizioni migliori all’accumulazione di capitale, ovvero a quello che nel PNRR viene costantemente richiamato come il clima economico del Paese. Innanzitutto, è dunque necessaria la giusta e tempestiva tutela della proprietà privata capitalista e della concorrenza. Di qui, la necessità della riforma della giustizia e della legge annuale sulla concorrenza, con particolare riguardo alla concorrenza nei servizi pubblici locali, ancora poco privatizzati e liberalizzati. Soprattutto, occorre una garanzia su tutte le forme di abuso dal punto di vista ambientale, storico e culturale: sia ex-ante nella forma dei procedimenti amministrativi, delle valutazioni d’impatto, delle sovrintendenze e delle gare d’appalto; sia ex-post nella forma della impunità giuridica. Una necessità per il capitale è data, poi, dalla riduzione dei costi improduttivi, faux frais, della circolazione con particolare riguardo ai costi amministrativi e burocratici. Chiaramente, nei confronti della burocrazia e della giustizia l’impostazione del Piano è soltanto in una prospettiva borghese. Nel senso borghese, l’efficacia della pubblica amministrazione è subordinata all’efficienza, quindi alla spending review, ovvero la riduzione stringente della spesa pubblica. Al tempo stesso, il merito e lo stimolo all’efficienza sono totalmente orientati a incentivare la divisione tra le lavoratrici e i lavoratori pubblici; ai premi per le presunte eccellenze corrispondono le sanzioni per i presunti fannulloni. Il risultato è quello opposto della ricostituzione di una burocrazia della rendita parassitaria, fatta passare per merito, e della frammentazione salariale.
Sul tema del fisco, infine, si gioca anche una partita decisiva. Nella tassazione dei redditi delle persone fisiche si contrappongono due modelli: il modello onnicomprensivo, nel quale tutti i redditi da lavoro e da capitale concorrono alla formazione della base imponibile dell’IRPEF; il modello duale, nel quale i redditi da lavoro vengono tassati in modo progressivo in IRPEF, mentre i redditi da capitale sono tassati in modo sostitutivo e flat, ovvero non concorrono alla formazione della base imponibile IRPEF. La riforma sembra avviarsi a una definizione pura del modello duale, l’estensione del regime della flat tax e una riduzione delle aliquote per gli scaglioni dei redditi medio-alti dell’IRPEF.
Un principio fondamentale del PNRR è quello per cui lo stato si deve anche preoccupare dei cosiddetti fallimenti del mercato. Non inteneriamoci, nella teoria borghese si intendono le disgrazie sfortunate del capitale: da un lato, attraverso il principio della temporanea socializzazione delle perdite e della successiva privatizzazione dei profitti per le imprese; dall’altro lato attraverso gli strumenti degli ammortizzatori sociali per le lavoratrici e i lavoratori espulsi dalle imprese. La logica è sempre quella del minimo necessario per la classe lavoratrice e del massimo possibile per la classe borghese. Anche dal punto di vista dell’esternalità ambientale, il principio basilare dell’UE, ovviamente ripetuto come un’ave maria nel PNRR, è quello del DNSH, do not significant harm, per cui alle imprese è lecito tutto, tranne nel caso in cui si arrechino danni significativi all’ambiente. Ancora una volta tutto si gioca sull’aggettivo significativo: il massimo concedibile alle imprese, la tutela minima possibile per l’ambiente. E questa per lorsignori sarebbe la lode alla rivoluzione verde!
Al contrario, soltanto la prospettiva dal lato del lavoro e dell’ambiente potrebbe sedimentare un autentico Piano ecocialista, femminista e rivoluzionario per la resilienza e la ripresa della classe lavoratrice. Il Manifesto programmatico di Sinistra Anticapitalista, per una società ecosocialista, femminista e libertaria, può rendere al meglio cosa s’intende per il PNRR della classe lavoratrice alternativo a quello del capitale. Il decalogo del Manifesto contiene tutte le riforme e gli investimenti necessari per una transizione ecosocialista, femminista e rivoluzionaria. Si scopre allora che: la transizione digitale e produttiva è impossibile senza la riduzione del tempo di lavoro; la transizione ecologica è impossibile senza la proprietà pubblica e la pianificazione democratica, orientata alla difesa dell’ambiente e basata su investimenti massivi per la riconversione ecosocialista; l’inclusione sociale è impossibile senza un netto recupero dei salari sulla produttività e una piena svolta sugli investimenti per il welfare, a partire dalla sanità pubblica e dall’istruzione pubblica; la parità di genere è impossibile senza la liberazione totale dalla cultura maschilista e patriarcale. Soprattutto, si scopre che la risposta alla pandemia non può che essere internazionalista, attraverso un programma sociale mondiale di produzione e distribuzione dei vaccini, la piena libertà dai brevetti capitalisti, la proprietà pubblica delle imprese farmaceutiche e la cooperazione e la condivisione della scienza.
E, ancora, che la società libertaria è fondata su una riforma della giustizia orientata all’abolizione del carcere e alle pene alternative finalizzate alla rieducazione della pena; che la vittoria del garantismo sul giustizialismo è veramente possibile soltanto quando si abolisce finalmente la giustizia di classe, ossia quando si riforma l’ordinamento della magistratura, mai veramente in discontinuità col passato regime fascista, in senso realmente democratico e si introduce il concreto patrocinio gratuito per i ceti meno abbienti. E che la riforma dell’amministrazione è impossibile senza una lotta micidiale alla burocrazia, attraverso stipendi commisurati alla quantità e qualità del lavoro svolto, esattamente come per tutta la classe lavoratrice, nonché per mezzo della rotazione e revocabilità degli incarichi, compresi gli eventuali premi di risultato. E che la democrazia è impossibile senza una permanente militanza antifascista.
La transizione gemella: digitale e ecologica
La prima missione riguarda la transizione digitale. Nel PNRR si intravede solo parzialmente come la transizione digitale rappresenti una contraddizione dirimente per il capitale. Da un lato occorre esplicitamente migliorare la competitività delle imprese e l’adattabilità ai cambiamenti dei mercati; dall’altro occorre recuperare i ritardi vistosi che l’economia europea ha accumulato in materia di intelligenza artificiale, banda ultra larga, 5G, nanotecnologie, ecc. Ricostruire e autonomizzare le catene del valore delle filiere industriali nelle tecnologie digitali è la sfida fondamentale per l’imperialismo europeo. Tuttavia, una vera transizione digitale dovrebbe presupporre un’autentica rivoluzione del modo di produzione e dell’organizzazione del lavoro.
Infatti, non è possibile concepire l’economia digitale senza una duplice trasformazione del modo di produzione: innanzitutto, la riduzione del tempo di lavoro come programma fondamentale per la redistribuzione dei guadagni di produttività e per la conquista del tempo libero rispetto al pluslavoro; in secondo luogo, la necessità della proprietà pubblica e della pianificazione democratica al posto della proprietà privata capitalista, in grado di rendere finalmente coerente lo sviluppo delle forze produttive con nuovi e adeguati rapporti di proprietà finalmente liberi, dove il possesso lascia il posto all’accesso, la proprietà alla condivisione, il copyright all’open source. Tanto rivoluzionaria risulta l’economia digitale della cooperazione e della condivisione quanto altrettanto reazionario risulta il next DEgeneration EU, così intriso di ciarpame ideologico della borghesia, subordinato unicamente alla necessità della crescita dei profitti e della tutela della proprietà privata capitalista. Purtroppo, il risultato sarà, da un lato, un ulteriore antagonismo di classe, per cui all’accumulazione crescente di capitale si rifletterà inevitabilmente l’accumulazione crescente di miseria relativa e l’esplosione dell’esercito industriale di riserva e del precariato di massa; dall’altro lato la spietata guerra imperialista per accaparrarsi le opportunità di profitto nello scenario del mercato mondiale. Come prima più di prima.
La seconda missione riguarda direttamente la c.d. rivoluzione verde e la transizione ecologica. Con l’accordo di Parigi, i paesi di tutto il mondo si sono impegnati a limitare il riscaldamento globale a 2°C , facendo il possibile per limitarlo a 1,5° C, rispetto ai livelli preindustriali. Per raggiungere questo obiettivo, l’Unione europea attraverso lo European Green Deal (EGD) ha definito nuovi obiettivi energetici e climatici estremamente ambiziosi che richiederanno la riduzione dei gas climalteranti (Green House Gases, GHG) al 55 per cento nel 2030 e alla neutralità climatica nel 2050. La Comunicazione è in via di traduzione legislativa nel pacchetto Fit for 55, che è stato anticipato dalla Energy transition strategy. Nel periodo 1990-2019, le emissioni totali di gas serra in Italia si sono ridotte del 19%, passando da 519 Mt CO2eq a 418 Mt CO2eq. In pratica, per circa 30 anni la riduzione media annua è stata pari allo 0,6%; di colpo nel decennio 2020-2030 occorre raggiungere una riduzione media annua pari al sestuplo, cioè il 3,6%. Questo per avere chiaro l’ordine di grandezza dell’imponente cambiamento necessario.
Nel PNRR è scritto che la transizione ecologica deve costituire la base del nuovo modello di sviluppo più sostenibile per le generazioni future. Subito dopo, però, si precisa che essa “può costituire un importante fattore per accrescere la competitività del sistema produttivo, incentivare l’avvio di attività imprenditoriali ad alto valore aggiunto, favorire la creazione di occupazione stabile”. Dunque, dietro alla sbandierata sostenibilità ambientale si cela l’agguerrita smania di profitti da parte del capitale, che trova un terreno vergine nel settore della transizione ecologica. L’economia e la finanza si sono immediatamente convertite alla transizione ecologica con nuovi investimenti e nuovi strumenti finanziari, data la promessa di ingenti profitti.
Ciò nonostante, si pone un duplice conflitto: in primo luogo, il concreto perseguimento degli obiettivi climatici dovrebbe imporre costi ingenti alle imprese sino a diventare proibitivi, a meno di una impennata dei prezzi nella fase della transizione; in secondo luogo, la crescita della produzione in termini quantitativi risulterà incompatibile col solo impiego delle fonti di energia rinnovabile, a meno di un clamoroso ritorno di fiamma dell’energia nucleare. Per tale ragione, la soluzione borghese a portata di mano potrebbe essere quella di considerare l’obiettivo della neutralità climatica in termini di saldo tra emissioni positive e negative. In questo caso, sarebbe possibile investire ingenti risorse sulla c.d. cattura e stoccaggio del carbonio, Carbon Capture Storage, CCS.
Persino nel caso dell’idrogeno, la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni: rispetto all’impatto negativo dell’idrogeno nero (da una centrale elettrica a carbone o a petrolio) e dell’idrogeno grigio (estratto da metano o da altri idrocarburi), in attesa dell’era dell’idrogeno verde (da una centrale alimentata da energie rinnovabili) per ora sin troppo costosa, si aprirebbe la strada dell’idrogeno blu (dove a differenza dell’idrogeno grigio, l’anidride carbonica che risulta dal processo non viene liberata nell’aria bensì viene catturata e immagazzinata) o, perché no, dell’idrogeno viola (da una centrale nucleare). Coerentemente, nel mentre si scriveva il PNRR, con tanto di esaltazione ideologica della rivoluzione verde, tutto in realtà si muoveva in direzione contraria: TAV, TAP, TRIV, impianto CCS di Eni in quel di Ravenna, programma per l’ex-ILVA ora Acciaierie d’Italia. Tutto all’insegna dell’incremento delle emissioni di CO2.
Non è possibile risolvere la contraddizione della transizione ecologica senza prevedere il passaggio da una produzione finalizzata alla quantità e al profitto a un’altra produzione orientata alla qualità e al bisogno sociale e ambientale. Non si tratta tanto di produrre e consumare di più o di meno, quanto piuttosto di produrre e consumare meglio; si tratta, altresì, di produrre più servizi e meno beni. In ogni caso, ancora una volta si dimostra pienamente che non saranno mai la proprietà privata capitalista e il mercato profit oriented a tutelare la transizione verde; piuttosto, soltanto la proprietà pubblica e la pianificazione democratica need oriented possono garantire la piena riconversione del modo di produzione in senso ecosocialista e anticapitalista.
La contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di proprietà ha raggiunto un livello cruciale. Hic Rhodus hic salta! Per risolvere questa contraddizione occorre per forza cambiare il modo di produzione capitalista e sostituirlo con un modo di produzione ecosocialista. L’unica alternativa restano le barbarie!