di Aurelio Macciò (Sinistra Anticapitalista Genova)

Cinque giorni consecutivi di sciopero per i metalmeccanici genovesi che chiedono garanzie per il futuro della siderurgia. Il governo risponde con i lacrimogeni ma la lotta continua (da Genova, Aurelio Macciò)

Bisogna risalire parecchio indietro nel tempo per riuscire a ricordare in Italia una manifestazione sindacale per uno sciopero proclamato da sindacati confederali che viene attaccata dalla polizia con lanci di gas lacrimogeni.

Certo eravamo abituati a vedere comparire i lacrimogeni per reprimere manifestazioni di gruppi che i mass media definiscono “antagonisti”, o i No Tav, oppure gruppi di ecologisti radicali. Ma con il Governo Meloni, con il restringimento ulteriore e progressivo di spazi democratici, con il Decreto sicurezza diventato legge e altro ancora, lo scorso giovedì 4 dicembre a Genova siamo arrivati anche a questo.

La manifestazione era stata indetta per lo sciopero generale dei metalmeccanici genovesi proclamato da FIM e FIOM, a cui aveva successivamente aderito anche l’USB, contro le prospettive di chiusura dello stabilimento ex ILVA di Cornigliano e, più in generale, contro una prospettiva di gravissimo ridimensionamento del comparto siderurgico nel nostro Paese. Per i lavoratori ex Ilva si trattava del quarto giorno consecutivo di sciopero, con blocchi stradali e presidio permanente sul nodo stradale di fronte alla stazione ferroviaria di Cornigliano, manifestazioni e cortei che erano arrivati a bloccare anche l’autostrada.

Il corteo sindacale doveva arrivare in centro città, di fronte alla Prefettura. Qui però le forze di polizia avevano allestito un fortino impenetrabile, con alte grate metalliche che a Genova fanno ricordare i tempi del G8 del 2001, disposte sui diversi lati dello slargo antistante il palazzo della Prefettura, in via Roma su entrambi i lati, allo sbocco che dà in piazza Corvetto e dall’altra parte, verso piazza De Ferrari, e poi su salita Santa Caterina. Dietro le grate e all’interno del “fortino” almeno una ventina di furgoni blindati della polizia.

I lavoratori, per nulla intimoriti da questa provocazione, hanno dapprima sbattuto con gran rumore i caschetti protettivi sulle grate e poi, sotto il lancio dei gas lacrimogeni, con dei tiranti agganciati a uno dei grandi mezzi meccanici della fabbrica che erano stati portati in corteo, hanno divelto alcune grate aprendo un varco nel “fortino”. Il lancio di lacrimogeni si è infittito, con lanci anche molto distanti verso tutta l’ampia piazza Corvetto per disperdere la folla di migliaia di manifestanti.

Dopo una buona mezz’ora di tensioni, il corteo è poi proseguito verso la stazione Brignole, una delle due principali stazioni ferroviarie della città, occupandola per oltre un’ora, insieme alla piattaforma tra i binari 2 e 3, con la circolazione ferroviaria che è stata interrotta. Poi, intorno alle 2 del pomeriggio, il lungo rientro del corteo a Cornigliano.

Ieri, al quinto giorno di sciopero, sono arrivate notizie di qualche positività, pur molto parziali e temporanee, dall’incontro che si è svolto a Roma tra il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, il presidente della Regione Liguria Marco Bucci e la sindaca di Genova Silvia Salis, giudicate favorevolmente dalla RSU e dalle Organizzazioni sindacali e sufficienti a disattivare le azioni di sciopero e il presidio permanente. Ma la partita non è per niente chiusa.

Già lo scorso 19 novembre i lavoratori avevano occupato lo stabilimento di Cornigliano, pronti a prolungare la protesta a oltranza, dopo che la sera prima, in seguito a un incontro con il Governo, le Segreterie nazionali FIM, FIOM e UILM avevano deciso uno sciopero di 24 ore con assemblee in tutti gli stabilimenti del gruppo ex Ilva, contro un piano governativo che, di fatto, portava al fermo del gruppo stesso. In particolare il piano prevedeva il cosiddetto “ciclo corto” a Taranto, con la vendita diretta dei coils (i rotoli di acciaio) prodotti e lo stop del loro invio a Genova, con il conseguente blocco della produzione a Cornigliano. Presidio permanente davanti allo stabilimento, con le tende in piazza Savio e le ruspe a bloccare le strade.

Da parte di esponenti sindacali genovesi, in particolare della FIOM, prima sottotraccia e poi anche in esplicito, si disse che i rotoli potevano arrivare anche non da Taranto e venne richiesto un incontro al Governo per i soli stabilimenti del nord (Cornigliano, Novi Ligure, Racconigi), aprendo di fatto a una separazione del gruppo, anche se le dichiarazioni successive di questi ultimi giorni ci sembra che abbiano fatto rientrare questa linea. A nostro avviso ipotesi di cosiddetto “spezzatino” del gruppo, dividendo le sorti degli stabilimenti del nord da quello di Taranto, oltre che sbagliate, risulterebbero anche perdenti perché, banalmente, ci si riesce a difendere meglio in un gruppo più grosso, nell’ambito della feroce concorrenza del mercato dell’acciaio, che non dividendosi.

Nella serata del 20 novembre, al secondo giorno di sciopero e occupazioni, il ministro Urso fissò come richiesto un tavolo al Ministero per il successivo 28 novembre e la protesta fu sospesa. Le Segreterie nazionali richiesero giustamente l’allargamento dell’incontro all’insieme del gruppo, come poi avvenne, e presso la Presidenza del Consiglio, ma ad oggi su questo punto non vi sono state risposte. L’incontro del 28 novembre fu un totale fallimento e pertanto da lunedì 1° dicembre riprese la lotta a Cornigliano dal punto in cui era stata temporaneamente sospesa.

Ieri, infine, dopo cinque giorni di sciopero e la grande mobilitazione, nell’incontro a Roma il commissario straordinario della ex Ilva si è impegnato a far ripartire la linea dello zincato con l’arrivo di 24mila tonnellate di acciaio da lavorare, bilanciando questo rifornimento con quello relativo alla banda stagnata, mantenendo quindi gli attuali livelli occupazionali a Cornigliano, con 585 addetti in produzione, 280 in cassa integrazione e 70 in formazione, ma con la zincatura in funzione, diversamente da quanto precedentemente previsto. Resta però il problema che non è stato ritirato il piano che prevede il “ciclo corto”, fatto che dimostra la fragilità di questa intesa. Inoltre per il lungo periodo si sarebbe aperto al fatto che in caso ci siano delle offerte non sufficienti o non stabili per poter garantire il livello occupazionale, il Governo potrebbe intervenire per stabilizzarle.

Ma sono mesi che il Governo e il ministro Urso raccontano balle. E del resto non è certo il primo Governo che lo fa, per un comparto così strategico come quello dell’acciaio e per un gruppo che complessivamente resta ancora il più grande a livello europeo, con circa 20.000 addetti, considerando anche gli appalti e l’indotto.

Al bando di gara che è stato indetto, sulla base del piano del Governo per l’acquisizione dell’insieme del gruppo ex Ilva, hanno risposto con offerte solo due fondi finanziari americani, Bedrock Industries e Flacks Group, e si sa dove si va a finire quando intervengono dei fondi finanziari, che non si muovono certo con una prospettiva di sviluppo industriale. Urso racconta che ci sarebbero negoziati anche con un altro operatore – sembra che sia Qatar Steel – con cui si sarebbe sottoscritto un accordo di riservatezza. In ogni caso l’insieme del piano è privo di elementi essenziali e di certezza, quali gli investimenti necessari e chi li fa e soprattutto per quali prospettive occupazionali che tengano insieme almeno tutti gli attuali addetti, compresi quelli che sono da anni in cassa integrazione.

Noi sosteniamo da anni che l’unica soluzione che può salvare l’industria siderurgica in Italia, una produzione che è strategica, è la nazionalizzazione del gruppo ex Ilva. Una nazionalizzazione, beninteso, con modalità che consentano un controllo esigibile da parte dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali. E un intervento che faccia pagarne i costi a chi, negli anni, ha fatto miliardi di profitti e procurato gravi disastri ambientali, in particolare a Taranto, come la famiglia Riva o Arcelor Mittal. Gli investimenti necessari per la bonifica delle aree, soprattutto a Taranto, la decarbonizzazione e la costruzione di impianti ecologicamente sostenibili sono ingenti.

Cornigliano va salvaguardato l’utilizzo a uso industriale delle aree coinvolte, contro i voraci appetiti di operatori portuali e della logistica, e lo sviluppo e il potenziamento delle attuali linee di produzione che consentano l’attività di tutti gli attuali addetti, compreso chi da anni è in cassa integrazione in deroga e, secondo l’Accordo di Programma del 2005, è inserito in programmi di lavori socialmente utili che consentono l’integrazione al reddito


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