di Massimo Caterini

L’analisi delle contraddizioni dell’imperialismo europeo, del riarmo e delle mistificazioni ideologiche che accompagnano la presente fase della crisi non può rimanere sul terreno della semplice denuncia. La borghesia del vecchio continente, stretta tra il declino relativo della propria centralità produttiva, la competizione globale con i poli statunitense e cinese, e l’erosione del proprio radicamento sociale, ha imboccato la via classica del capitalismo in decomposizione: ristrutturazione industriale, taglio dei salari reali, spese militari come “motore” economico, centralizzazione politica sotto forma di nuove alleanze imperialiste.

Che la corsa al riarmo sia una risposta alla crisi è un fatto incontestabile; che questa corsa possa diventare un’occasione per la classe lavoratrice è una menzogna colossale. La crisi è sempre e soltanto opportunità per il Capitale, perché è il Capitale a governarne i tempi, i modi e gli sbocchi. Il proletariato, quando non dispone di una propria forza politica autonoma, viene travolto dagli eventi e arruolato , direttamente o indirettamente , negli interessi della propria borghesia nazionale, anche quando questi si presentano con la maschera dell’europeismo, del progressismo, della difesa della democrazia o della lotta contro l’autoritarismo russo.

La debolezza politica della classe non si spiega solo con la propaganda borghese, ma con un processo più profondo: la disgregazione sociale determinata da decenni di individualismo mercantile, dalla precarietà strutturale e dalla trasformazione delle forme stesse della produzione. La fabbrica diffusa, la frammentazione delle mansioni, la discontinuità occupazionale hanno minato le basi materiali della solidarietà di classe; e dove queste basi non sono più percepite, l’ideologia dominante trionfa quasi senza resistenza. La borghesia europea ha formato generazioni di individui più che di lavoratori, consumatori prima che produttori, monadi concorrenziali più che membri di una collettività antagonista. Non stupisce che oggi essa si lamenti della “scarsa combattività” dei popoli europei, proprio dopo averli disarmati culturalmente a colpi di benessere privato e di promesse di mobilità sociale individuale.

Ma questa de-socializzazione della vita non produce automaticamente spirito internazionalista o rifiuto cosciente della guerra imperialista. Produce piuttosto apatia, ritiro nel privato, sfiducia generale: condizioni perfette affinché la borghesia, nel momento opportuno, possa tentare nuove vie autoritarie per ricostruire ciò che ha distrutto , disciplina, obbedienza, spirito nazionale ,e trascinare masse impoverite dentro la logica del sacrificio patriottico. Lo si è visto nelle discussioni sulla leva obbligatoria, sulla mobilitazione civile, sulla retorica del “dovere verso la comunità”: tutti segnali di un regime politico che prepara la società all’economia di guerra.

Il problema principale non è, dunque, solo l’avanzare del militarismo europeo o la crescente centralità della Germania nella futura architettura imperialista del continente. Il problema è l’assenza di una forza politica rivoluzionaria capace di intervenire nella crisi in modo organizzato, disciplinato, internazionale. La classe lavoratrice, lasciata a sé stessa, non può costruire autonomamente né la propria coscienza né la propria unità: lo stesso Marx, contro ogni mito spontaneista, ricordava che “l’ideologia dominante è l’ideologia della classe dominante” proprio perché il dominio materiale produce dominio spirituale. Senza un partito comunista rivoluzionario, il proletariato nelle fasi di crisi non si solleva: oscilla, si spaventa, cerca protezione nella nazione o viene arruolato nella guerra degli altri.

È qui che la prospettiva marxista rivoluzionaria, lontana anni luce dal pacifismo democratico e dalle illusioni gradualiste, ripropone l’unica linea capace di aprire un cammino diverso: il disfattismo di classe. Non un rifiuto moralistico della guerra, ma la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria, l’unica risposta storica possibile quando il modo di produzione capitalista giunge al suo punto di saturazione. Contro la propria borghesia, contro il proprio Stato, contro il proprio fronte imperialista.

La lotta contro il riarmo europeo e contro la preparazione alla guerra non può essere affidata a slogan generici o a movimenti interclassisti; deve passare per la ricostruzione di nuclei rivoluzionari nei luoghi della produzione, per il radicamento nel vivo delle contraddizioni quotidiane , licenziamenti, ritmi, precarietà, erosione salariale ,e per un lavoro costante di coordinamento tra i settori produttivi. Senza un tessuto organizzato, la classe non può opporsi né alla guerra né al militarismo economico; ma quando un tale tessuto esiste, anche le lotte più limitate possono diventare scuola politica, esperienza collettiva, terreno di ricomposizione e maturazione di quadri rivoluzionari.

La crisi che si dispiega oggi in Europa, con la sua accelerazione bellica, non offre alcun destino progressivo. Ma contiene una possibilità: quella di far emergere, dalla decomposizione dell’ordine borghese, la necessità storica della ricostruzione di un partito comunista internazionale, coerente, programmatico, radicato nella classe e capace di guidare le sue future esplosioni. È solo attraverso questa ricomposizione politica e organizzativa che il proletariato potrà nuovamente porre sé stesso come forza antagonista, rompendo l’incantesimo dell’ideologia individualista e affrontando la borghesia non sul terreno delle illusioni democratiche, ma su quello della lotta per il potere.

La storia non dona mai nulla: ogni passo avanti è frutto di organizzazione, disciplina, coscienza. La borghesia europea si prepara alla guerra; il proletariato deve prepararsi alla rivoluzione. Non per volontà, ma per necessità. Non per idealismo, ma per sopravvivenza storica.


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