Episodio 7 – L’ altro lato del muro
Rientro a casa dopo una lunga giornata a Gerusalemme, la testa confusa, il corpo stanco.
Sono uscita di casa alle 7.10, mi sono presa una bella lavata con la seconda pioggia della stagione (benedetta lei) e sono rientrata verso le 19. Il rientro è iniziato alle 16.30 circa dalla Hebrow University: bus israeliano – tram israeliano – bus arabo – checkpoint a piedi – bus palestinese – taxi. 2h30 per fare 20 km.
Ma la testa non è confusa dagli spostamenti, sono le 4 densissime ore passate con David, ragazzo israeliano della mia età che sta svolgendo un Phd in ecologia alla Hebrow University, a riempirmi la scatola cranica. 4 ore di chiacchiere filate, interrotte solo dalla pioggia e dal rendersi conto del tempo passato e del lavoro abbandonato.
Ho conosciuto David nel 2015, quando lavoravo in un ostello nella Patagonia argentina, lui era di passaggio, in viaggio con un’amica. Una sera ci eravamo attardati nella sala comune dell’ostello a parlare della questione palestinese ed ero rimasta colpita dal modo non banale e stereotipato con cui affrontava il tema. Dopo tanto tempo, qualche mese fa, ho deciso di riesumare il contatto facebook per capire cosa pensasse della situazione politica attuale e qualche giorno fa gli ho chiesto se potevamo incontrarci, mi sembrava un’ occasione da non perdere, anche se ero abbastanza preoccupata. Non sapevo se potevo fidarmi del tutto di questa persona, ho pensato di inventare una scusa per giustificare il mio viaggio, avevo il timore potesse denunciarmi sapendo che stavo vivendo a Ramallah.
E invece David era curioso, voleva sapere com’era Ramallah, com’erano le mie impressioni, le mie sensazioni. Lui non ci è mai stato, non può andarci, un cartello gigante vieta agli israeliani di entrare, dangerous zone. Ma prima degli anni 2000 molti israeliani se ne fregavano, a volte andavano lì a fare la spesa perché costava meno. Ora no, da parecchi anni la situazione è cambiata e, dopo il 7 ottobre, tutto è andato sempre peggio.
Così mi ritrovo a fare qualcosa che non avrei pensato di fare e che anzi, pensavo gli avrei dovuto tenere nascosto: gli racconto di come sono le strade di Ramallah, di quella sensazione di sicurezza nell’attraversarle, dei vecchietti tranquilli in al Manara square con pacchi di banconote in mano che ti cambiano gli shekel: David è stupito, nei territori Israeliani la criminalità nei villaggi arabi è molto alta (con la complicità del Mossad mi spiegherà poi un altro amico), ma in West Bank no, i problemi son ben altri. Gli racconto così delle persone che ho conosciuto, della loro ospitalità e gli mostro le foto dei piatti tipici che ho mangiato -“È uguale al nostro cibo”- commenta.
Gli racconto le storie di quotidiana occupazione con cui sono entrata in contatto: di alcune cose ne era al corrente, di altre no. Non ne ha giustificata neanche una e ha criticato il suo stesso governo e i pazzi che lo compongono e sostengono. Mi ha anche fatto uno spiegone politico* sulla composizione della società e del governo in Israele.
David è stato in Cisgiordania solo come soldato, più di dieci anni fa. Nel 2013 un suo collega ha sparato alla schiena a un ragazzo palestinese che stava fuggendo dopo aver fatto un buco nella rete. David ha testimoniato contro di lui durante l’indagine che ne è seguita: il soldato aveva sparato per lo stress di vedere il colpevole del buco nella rete fuggire, non perché minacciato. 3 anni di reclusione si è fatto, questo il valore della vita di un palestinese.
David sostiene il boicottaggio nei confronti di Israele, crede molto nella forza che questo possa avere, nonostante ne paghi le conseguenze con il suo lavoro quotidiano in università. Accusa i coloni violenti di terrorismo e per lui, per avere una reale pace, bisognerebbe riconoscere lo Stato di Palestina ed interrompere totalmente l’occupazione in West Bank. Non in Israele ovviamente, quella è casa sua. Era sicuro che anche i palestinesi avrebbero optato per questa scelta e sarebbero stati contenti di non dover mai più vedere un soldato israeliano per tutta la loro vita. Gli ho detto di no, per loro la Palestina non ha i confini della West Bank, tutto ciò che è Israele è considerato ancora una casa in cui tornare, anzi ne vanno orgogliosi e ti chiedono di andare a visitare quei territori, per non lasciare che siano un appannaggio solo israeliano. Per quanto riguarda la questione uno Stato-due Stati, gli ho raccontato che moltә palestinesi non hanno neanche interesse ad affrontare questo tipo di discorso, l’occupazione riempie talmente tanto le loro esistenze che non hanno altro a cui pensare: stop occupazione! Poi si vedrà… “Quando racconti della mancanza di spazio mentale dovuto all’occupazione mi sembra di sentire i racconti di mio nonno degli anni ‘20, quando la mia famiglia era discriminata in Polonia. Mio nonno mi ha sempre prepagato di non tornare mai più in quel posto, manco per una breve visita”.
David non ha un secondo passaporto, non ha un’altra terra in cui tornare, è spaventato dalla frase “From the river to the sea”, teme il razzismo che potrebbe vivere, le deportazioni, le esecuzioni…la stessa cosa che vivono quotidianamente le/i palestinesi dal ‘47, lo stesso che hanno vissuto i suoi antenati in Europa. Mi racconta del giubilio del 14 maggio ’48 quando tutti gli ebrei si sono riversati nelle strade per festeggiare la risoluzione ONU che sancisce la nascita dello stato di Israele. I presupposti della Nakba, la catastrofe per le/i palestinesi, che hanno subito un massiccio esodo forzato.
Mi racconta della sorella che vive a Londra e della paura crescente per gli atti di antisemitismo che lei ed altri ebrei stanno vivendo. Un fenomeno che personalmente avevo sottovalutato: tra tutto quello che sta succedendo non è mai stata la mia priorità. Ma sbagliavo: antisemitismo = alimentazione della paura = bisogno di rifugio = trasferimento in Israele alla ricerca di protezione = alimentare lo Stato criminale.
Chiedo a David se ha mai parlato con unә palestinese: “no”. Gli chiedo se gli andrebbe di conoscere il mio amico. “Non posso. Dove, come?” Ma dopo una prima sincera reazione di timore, acconsente. Chissà cosa risponderà Khaleel.
La pioggia ci interrompe, appena troviamo riparo parliamo delle nostre vite, David ora è sposato e padre di tre figli, e quando finalmente ci salutiamo mi dice: “di alla famiglia del tuo amico che gli auguro tutto il bene”.
Riprendo il cammino, passo davanti alla Knesset e aspetto un autobus che non passa.
Dentro di me un forte senso di confusione, i tasselli del puzzle che si sono aggiunti oggi rendono la questione sempre più complessa, meno stereotipata. Non posso fare a meno di sentirmi in colpa, ho fraternizzato col nemico? Ma chi è il nemico?
Durante la conversazione avevo riportato a David un discorso che mi aveva fatto un ragazzo palestinese: non esistono attivistә israelianәi buonә, se ti rendi conto che essere parte di quello Stato vuol dire causare la morte e sofferenza di migliaia di persone, l’unica possibilità che hai è andartene. “Se ce ne andiamo anche noi l’unica strada per Israele sarà l’oblio, io credo che sia nostro dovere resistere a questa attuale follia”.
Bus-tram-bus-check point-bus-taxi-casa.
Questo racconto, come molti altri, è stato scritto a quattro mani: ho voluto fare leggere a David quello che avevo trattenuto dalla nostra conversazione, farglielo modificare ed integrare, di modo che fosse il più fedele possibile alla realtà.
Chiara
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Complimenti per il tuo post e per il tuo modo pacato di esporre fatti e sensazioni.
Un abbraccio con stima,
Vicky
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