Primo dato: anche se la coalizione vincitrice avesse preso il 99% dei voti espressi (le famigerate percentuali “bulgare”, o meglio “nord-coreane”) rappresenterebbe comunque una minoranza degli elettori. Infatti oltre il 56% degli aventi diritto non si è neppure preso la briga di andare a ritirare e poi deporre la scheda nell’urna. Non è una novità: negli ultimi 15 anni quasi mai, alle elezioni regionali, aveva votato il 50 più 1 per cento degli aventi diritto. In alcuni casi si era scesi addirittura sotto il 40%. Ciò non turba certo i sonni né delle classi dominanti (che continuano imperterrite la loro politica), né dei galoppini delle stesse (che continuano ad essere definiti dai vari pennivendoli di regime “maggioranza”), ma nemmeno di quei pochi a sinistra che non hanno nessuna fiducia nelle “istituzioni democratiche” (tra i quali mi annovero). Solo l’opinione pubblica più o meno “progressista” si straccia le vesti lamentando la disaffezione (che a me sembra più estraneità) del cosiddetto “popolo”. Intendiamoci, io non ritengo assolutamente che questo allontanamento dalle urne sia un segno di maturità politica, quasi un presagio di “sovversione” rivoluzionaria. Chi non va a votare non pensa certo ai soviet e all’autogestione democratica diretta. Nel 95% dei casi è il classico atteggiamento qualunquista, ben simboleggiato dalla tipica frase da bar Sport “Tanto sono tutti uguali” (o, alternativamente, “è tutto un magna-magna”). Non che abbiano tutti i torti, questi commentatori da bar, in particolare nell’ultimo trentennio, quello della sciagurata “seconda Repubblica”. Ma, con queste percentuali, ormai strutturali, solo chi è in malafede o è totalmente accecato dall’ideologia della “democrazia rappresentativa liberale” (cioè della democrazia borghese, per noi rivoluzionari d’altri tempi) può definire rappresentativo il corpo degli eletti. Siamo, insomma, sotto il “minimo sindacale” della stessa rappresentatività delegata tipica delle “democrazie” delle classi dominanti. Ciò nonostante è sempre interessante dare un’occhiata a questi enormi “sondaggi d’opinione”, che sono spesso segnali di qualcosa che si muove (o che NON si muove) nelle profondità delle cosiddette masse. In questo fine settimana era chiamato alle urne oltre un quarto dell’elettorato italiano, per cui il “sondaggio” è particolarmente significativo. Come al solito i dati, riportati nella tabella sottostante, vanno presi con le pinze, soprattutto nel confronto tra le regionali (di oggi e di 5 anni fa) e le politiche di 3 anni fa. Alle regionali infatti si assiste, seppur in calo, soprattutto a destra, rispetto a 5 anni fa (ritorno del bipolarismo?) ad un proliferare di liste, listoni e listarelle civiche, giustificate quasi sempre da meccanismi di tipo clientelare e ben poco politici. Infatti, più che valutare le percentuali dei singoli partiti, mi sembra più utile la valutazione degli eventuali spostamenti (se ci sono stati) nei tre aggregati principali: destra, “campo largo” (o centro-sinistra) e sinistra “alternativa” (quest’ultima di meno facile definizione, viste le scelte diversificate di Rifondazione Comunista, che in Campania sta nella lista della sinistra, in Puglia sta nel M5S e in Veneto con lista propria interna al centro-sinistra). Complessivamente si può dire che i cambiamenti sono minimi, non solo per la conferma dei governi regionali (Campania e Puglia al centro-sinistra, Veneto alla destra) ma pure in termini di voti espressi e soprattutto di percentuali. Destra e centro-sinistra hanno più o meno lo stesso numero di voti (ed insieme arrivano al 98% dei voti espressi), grazie alla sostanziale scomparsa del cosiddetto “terzo polo” e alla stagnazione della sinistra “alternativa”. Il PD è, insieme alla Lega (che torna ad essere il primo partito della destra), il partito che può definirsi soddisfatto, raggranellando più o meno il milione di voti che aveva tre anni fa (e diventando il primo partito, con oltre il 20%) mentre vanno male i (post?) fascisti (che dimezzano i voti presi 3 anni fa alle politiche), e che perdono il primo posto nella coalizione di destra, grazie all’ottima performance leghista in Veneto, retrocedendo al terzo posto tra i partiti nazionali. Forza Italia zoppica, ma resiste, e AVS conferma il trend ascendente (pur senza troppi entusiasmi) favorito dalle candidature Salis e Lucano alle europee dell’anno scorso. Chi deve leccarsi le ferite, oltre ai fratellini meloniani, è il Movimento 5 Stelle che, nonostante il peso del “feudo” campano, perde quasi i 4/5 dei voti rispetto alle politiche del ’22 (elemento strutturale per gli ex “grillini”) ma arretra persino rispetto alle regionali di 5 anni fa (perde un elettore su 3). La sinistra “alternativa” migliora un po’ in Campania (con lo stesso candidato di 5 anni fa, il compagno Granato, di PaP, 42 mila voti rispetto ai 31 mila di 5 anni fa, un po’ più del 2%), ma resta marginale in Veneto (coi 10 mila voti di Rifondazione, lo 0,6%) e in Puglia.

partitoVoti 25% 25Voti 22% 22Voti 20%20
PD98420,3105016,293315,5
AVS2224,61973,31422,4
Altri csx85917,72163,3146624,3
CSX206542,6146322,6254142,2
M5S3136,5143522,24547,5
CAMPO LARGO237849,1289844,8299549,7
FdI79716,4166025,75499,1
Lega82217,05488,564210,7
FI4369,06109,43445,7
Altri dx3216,62543,9123920,6
DESTRA237649,0307247,5277446,0
TERZO POLO330,74156,42143,6
SINISTRA “ALTERNATIVA”*601,2851,3440,7
TOTALE4847100,06470100,06027100,0

*A cui andrebbero aggiunti i voti ottenuti dai candidati del PRC presenti nelle liste del M5S in Puglia.

Vittorio Sergi


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