Riprendiamo, dal sito di Controvento, questo articolo del compagno Luca Scacchi, dirigente dell’opposizione di sinistra in CGIL

Una riflessione sulla due giorni fiorentina (AG e Assemblea dei delegati/e) e la scelta dello sciopero il 12 dicembre

Qui il testo in pdf.

Il sei e sette novembre 2025 la CGIL ha finalmente riunito l’Assemblea Generale, per fare il punto dopo le incredibili settimane di settembre e ottobre, i tre scioperi generali nel corso di pochi giorni, la marea che ha riempito le piazze e dato forma ad un vero e proprio movimento di massa. L’organizzazione è stata sostanzialmente presa in contropiede dalla Global Sumud Flotilla e dalle mobilitazioni su Gaza, anche perché focalizzata in una discussione sulla sconfitta referendaria di giugno, nella quale si erano iniziate a confrontare prassi sindacali assai diverse. Questa distrazione, innestata su una più generale distanza in questi anni dall’iniziativa contro le politiche di genocidio in corso a Gaza, ha contribuito a determinare gravi errori nelle prime cruciali settimane di sviluppo del movimento: i presidi del sei settembre in alternativa a quelli chiamati il 4 e il 7 dalla Flotilla, la proclamazione dello sciopero parziale il 19 settembre e l’assenza il successivo 22 proprio nei settori cruciali della conoscenza, che potevano scioperare solo in quella giornata. Lavoratrici, lavoratori e delegati/e CGIL hanno però colto la dinamica in corso, sono stati nelle mobilitazioni e hanno quindi sostenuto la rapida svolta dell’organizzazione, che non solo ha proclamato lo sciopero generale unitario il tre ottobre, ma ha anche esplicitamente rivendicato di esser parte di parte di quella mobilitazione, ponendosi al servizio di quella dinamica e del suo sviluppo (questo, in fondo, anche il senso della partecipazione di Landini alla conferenza stampa unitaria con GSF, USB, CUB e Cobas). 

Nel frattempo, però, gli eventi hanno avuto un loro corso. La marea dopo il tre ottobre si è ritirata, forse più rapidamente di quello che si poteva pensare, in ogni caso di quello che io speravo. Lo ha fatto dopo aver incassato evidenti risultati: l’attenzione sulla Flotilla e quindi la salvaguardia degli equipaggi; la legittimazione politica dell’obbiettivo di rompere l’assedio di Gaza; il riconoscimento internazionale e la difficoltà israeliana a gestire queste azioni popolari (la Flotilla e lo sciopero); l’incapacità di reazione del governo italiano, anche di fronte alla ripetuta violazione dei limiti al decreto sicurezza. Questo movimento, però, è rifluito velocemente, nel sostanziale isolamento internazionale (praticamente in nessun altro paese si è innescata una dinamica di sciopero), di fronte all’improvvisa e ambigua tregua imposta da Trump. Le forme e i tempi del suo sviluppo gli hanno impedito di evolversi, maturando strutture collettive di discussione e direzione dell’iniziativa. La moltitudinarietà dei movimenti contemporanei ha il pregio di ricostruire condizioni di unità, proprio per la loro capacità di far convivere componenti e programmi diversi come correnti di un unico fiume, ma è anche uno dei loro limiti maggiori, impedendo di sviluppare esperienze e costruire sintesi collettive. Il prosciugamento nella partecipazione di massa ha quindi rinfrancato quelli che pensano si debba mettere tra parentesi, circoscrivere e superare, lo spirito unitario e moltitudinario di queste settimane, permettendo ad ognuno di riprendere i propri percorsi, teoricamente sempre all’insegna dell’unità ma in realtà ciascuno nel proprio cammino (le cosiddette convergenze parallele che abbiamo conosciuto in questi anni). Le responsabilità sono diverse, ma diffuse e in qualche modo credo interroghino tutti/e noi. Le proposte di percorsi unitari di confronto e iniziativa, per provare a raccogliere e rilanciare lo spirito di questo movimento, sono stati silenti per diverse settimane, forse spiazzati dalla rapidità del riflusso, in ogni caso complicati dall’assenza di spazi, canali e prassi consolidate. Si è sostanzialmente mancata l’opportunità di convocare uno sciopero generale di convergenza venerdì 14 novembre, giornata nazionale di mobilitazione di tutte le componenti studentesche (Cambiare Rotta, collettivi, Rete Studenti Medi e UDU; UdS e Link, Primavera degli studenti, ecc), in cui provare a tener saldato il lavoro con il nuovo protagonismo delle giovani generazioni. Un primo appuntamento di ampio confronto si è annunciato una settimana fa e alla fine si è concretizzato solo in questi giorni [Assemblea nazionale contro i Re e le loro guerre, Sapienza, Roma, 15 novembre ore 9.30], quando la dinamica delle cose ha oramai assunto altre curvature e questo stesso appuntamento si inserisce più una logica di demarcazione che in una di tessitura di relazioni tra le diverse soggettività delle mobilitazioni.

Ognuno ha trovato da solo una propria via d’uscita dalla marea. La CGIL si è concentrata sul corteo del 25 ottobre, riuscito nella partecipazione e quindi capace di riaffermare le dimensioni di massa dell’organizzazione, ma allo stesso tempo sostanzialmente confinato al popolo della CGIL e ai suoi immediati dintorni, senza capacità di mettersi in continuità con il movimento precedente. Un’iniziativa, per di più, segnata ai suoi margini da alcune tensioni e persino polemiche, connesse al dibattito in corso nell’organizzazione. Il blocco politico e sociale raccolto intorno a USB (Cambiare Rotta, OSA, Potere al Popolo), per il ruolo assunto il 22 settembre con le forzature precedenti, ha comunque conquistato un suo protagonismo in questo movimento: dopo il tre ottobre ha quindi colto l’occasione per presentarsi come unico polo aggregativo alternativo alla CGIL (vedi il comunicato del 4 ottobre, Un popolo indignato in cerca di riferimenti, e la relazione all’Assemblea nazionale del 1° novembre), adottando come metodo di raggruppamento quella della demarcazione programmatica alzando il livello dello scontro (corteo romano del 24 ottobre per bloccare l’Ambasciata israeliana). Il resto del sindacalismo conflittuale, schiacciato dalla polarizzazione tra CGIL e USB, ha cercato di trovare una propria convergenza (vedi la sanità), rilanciando la mobilitazione contro il governo e le sue politiche economico-sociali. Il passaggio deve comunque esser stato complesso, perché è esitato nell’ansia di determinare una data di sciopero (prima che lo facesse USB), portando la CUB alla dichiarazione di servizio sullo sciopero del 28 novembrediretta al resto del sindacalismo di base escludendo USB e CGIL: si è così solo auspicato la partecipazione di un ampio schieramento di sindacati, così da favorire la congiuntura delle istanze rivendicate con le mobilitazioni del 22 settembre e 3 ottobre anche con le rivendicazioni sociali e del mondo del lavoro. Epperò, nelle prassi e nei linguaggi di movimento, la chiamata all’unità su una data di servizio decisa autonomamente ha un suo profilo, che non è esattamente quello della convergenza, quanto piuttosto quello della convergenza parallela. A fronte di un calendario autunnale oramai delineato e dei vincoli della normativa antisciopero, USB ha quindi proclamato il proprio sciopero generale lo stesso 28 novembre, aggiungendo il corteo nazionale di sabato 29 a Roma, puntando ad emergere nella comunicazione di massa come soggetto principale se non unico della mobilitazione. Cobas, CLAP, SIAL e ADL Cobas hanno quindi scelto di convergere anch’essi in questa data, considerato il perdurante silenzio della CGIL. Una scelta a suo modo significativa, perché loro si erano pubblicamente spesi per uno sciopero unitario in scia al tre ottobre (cioè, con al CGIL), in linea del resto con il ragionamento e la pratiche dello scorso anno. Quindi, nel corso di ottobre si è determinata una data di sciopero generale per il 28 novembre 2025, su cui convergono diverse soggettività in un quadro non particolarmente unitario, in ogni caso nel contesto di un significativo prosciugamento delle mobilitazioni di massa e di un rinnovato protagonismo dei percorsi programmatici dei diversi soggetti.

La CGIL è arrivata tardi a fare le sue scelte. Nel mese di ottobre si è focalizzata sul suo corteo e ha lasciato scorrere gli eventi, senza porsi il problema di come tenere insieme i percorsi di movimento e neanche di come riaprire un percorso unitario con la UIL, esterna per scelta alle mobilitazioni su Gaza. La UIL, nel frattempo, ha scelto di sottolineare la centralità della detassazione, ha aperto alla manovra economica del governo, ha sottoscritto i contratti delle Funzioni centrali, degli Enti locali e dell’Istruzione e ricerca: ha cioè segnato pubblicamente uno sganciamento dalla collocazione contrattuale e generale contro le politiche di governo, lasciando sola la CGIL. La discussione dell’Assemblea Generale CGIL non è stata solo instradata dagli eventi, ma anche da dinamiche e scelte maturate nella segreteria confederale. Da una parte, si è deciso la pre-proclamazione tecnica già dal 31 ottobre di uno sciopero generale il 12 dicembre, senza particolari ragioni effettive se non l’ansia di indicare la data (gli altri scioperi erano già proclamati e non c’era quindi particolare motivo di garantirsi la copertura della giornata, con un metodo tra l’altro inusuale per la CGIL). Dall’altra, si è attuato un cambio di deleghe nella stessa segreteria, segno di forzature e tensioni su strategie e assetti dell’organizzazione che oramai faticano a fare sintesi e, in qualche modo, persino a dialogare. La discussione del sei e sette novembre, allora, si è quindi svolta non solo in un contesto in cui gli eventi sono oramai maturati, ma anche nel quadro di scelte già effettuate e di una polarizzazione del confronto interno che rende oramai complicato qualunque confronto di merito sulle cose.

Una scelta sbagliata, nel merito e nel metodo. La proclamazione di uno sciopero generale il 12 dicembre ripercorre errori del passato, quando si è arrivati a proclamare iniziative fuori tempo massimo, cioè non solo al di là dei tempi per poter sortire un qualsivoglia effetto politico, ma persino anche ai limiti od oltre i limiti gli stessi percorsi parlamentari di definizione di quei provvedimenti (ricordo ad esempio lo sciopero del 12 dicembre 2014 contro il Jobs act, a legge sostanzialmente approvata dalle Camere, o quello del 16 dicembre 2021, contro la legge di Bilancio di Draghi, entrambi con la UIL). La cosa a suo modo surreale è che negli interventi si sottolinea come questo sciopero deve assumere un profilo rivendicativo e sindacale, di contrasto a specifici provvedimenti del governo, quando proprio la sua collocazione temporale nega questo stesso profilo, delineando in realtà uno sciopero che segna l’opposizione alle scelte del governo e ribadisce le proposte dell’organizzazione. In una sorta di neolingua sindacale, cioè, quanto si afferma non corrisponde più al contenuto della comunicazione: affermare il profilo rivendicativo dello sciopero serve a rimarcare le differenze con gli scioperi politici di settembre e ottobre, con quelle stesse esperienze di movimento, più che sottolineare una sua reale funzione di contrasto ad una specifica azione di governo. Così, però, si riproducono scioperi programmatici di organizzazione, che infatti ripropongono un infinito elenco di rivendicazioni che servono a coprire tutti gli articolati settori e strati del lavoro (ognuno dei quali ha la necessità di vedersi rappresentato nella piattaforma per potersi sentire considerato dall’organizzazione stessa), in un contesto che è al contempo estraneo ad una specifica lotta rivendicativa (ad esempio lo sciopero contro la Buona Scuola o contro la Legge Fornero), ma anche distante da una vertenza generale, che dovrebbe definire appunto gli elementi generali e unitari del lavoro (ad esempio il salario, diretto indiretto e sociale). La scelta, poi, è sbagliata nel metodo, perché così si esce dalla logica di costruzione di un movimento di massa, si cancella di fatto la rivendicazione di esser parte di parte e l’esperienza di settembre, per riaffermare una centralità della CGIL e del suo programma. Così, infine, si abdica dal proprio ruolo di sindacato generale, che dovrebbe esser focalizzato sull’obbiettivo di fase di costruire la più larga opposizione sociale alle politiche di questo governo. Con altre compagne e compagni, abbiamo provato a dirlo nell’Assemblea generale, anche presentando una breve risoluzione, raccontata da Eliana Como a Radio Onda d’Urto.

La risoluzione presentata. Convergere nel movimento: sciopero il 28 novembre. Le straordinarie settimane di mobilitazione di questi ultimi mesi hanno dimostrato l’importanza di cogliere e accompagnare lo sviluppo dei movimenti di massa, capaci di superare i confini delle diverse organizzazioni e di attivare un protagonismo sociale diffuso, anche delle giovani generazioni. Il governo ha oggi confermato con la Legge di Bilancio politiche economiche e sociali di austerità (allungamento dell’età pensionabile nel solco della Fornero; tagli a sanità, scuola e università; allargamento del precariato, ecc), accompagnandole con rinnovati interventi autoritari nel solco del decreto sicurezza e pratiche di occupazione autocentrata del potere (messa sotto controllo governativo della giustizia, revisioni di sistema nella scuola e nell’università, controllo dei media, ecc). La costruzione di una vertenza su questi provvedimenti deve essere tempestiva, altrimenti rischia di essere di sola testimonianza. E deve svilupparsi in uno spirito di continuità con le mobilitazioni di settembre e di ottobre, ribadendo lo stesso metodo di convergenza. Siamo consapevoli della difficoltà a riattivare oggi quelle dinamiche partecipative e di movimento che abbiamo visto nelle scorse settimane, ma siamo altrettanto consci che una svolta nelle politiche di governo potrà esser costruita solo da un’attivazione sociale diffusa e dallo sviluppo di un simile movimento di massa. Per queste ragioni, l’Assemblea generale della CGIL ritiene fondamentale indire lo sciopero generale per il prossimo venerdì 28 novembre 2025, tenendolo ancora nel pieno della discussione parlamentare della legge di bilancio, sulla base della propria piattaforma e delle proprie rivendicazioni, ma in una logica di convergenza con le altre soggettività che hanno deciso di contrastare apertamente le politiche di governo (Eliana Como, Luca Scacchi, Antonella Stasi).

Le scelte dell’Assemblea Generale CGIL, però, sono state altre. La larghissima maggioranza ha votato per scioperare il 12 dicembre. Anche se le ragioni e lo spirito di una scelta unitaria attraversano l’organizzazione ben oltre la nostra posizione, come mostra l’intervento il giorno successivo della RSU dell’Università di Firenze, la sua sottolineatura che si poteva lavorare, sin d’ora, per un’unica data di sciopero il 28 novembre, il significativo applauso che quel passaggio ha raccolto in platea. La scelta del 12 dicembre, in realtà, è la risultante di un confronto sulle strategie della CGIL tuttora aperto e, anzi, diventato oggi più acuto.

L’impostazione del segretario generale e di parte della segreteria, che mi sembra di poter cogliere nei loro discorsi e nelle loro scelte, è quella di affrontare il confronto con il governo reazionario, la frammentazione del lavoro e la difficoltà a sviluppare il conflitto nei rapporti di produzione dislocando l’azione sindacale sui territori e nell’agitazione socialeCome mi è già capitato di notare, è un orizzonte che per molti versi richiama l’esperienza della Coalizione sociale, una volta assunta la sconfitta del contrasto al modello Marchionne nelle fabbriche (capitolazione alla Bertone di Grugliasco ed estensione del CCSL all’intero gruppo FCA). Speriamo, tra le altre cose, che oggi non si ricalchi quel passaggio, l’arenarsi nel vuoto di quelle mobilitazioni e quindi nel 2016 il rinnovo unitario del CCNL metalmeccanici, il peggiore della storia con la definizione degli assi del Patto di fabbrica e il welfare contrattuale. In ogni caso, oggi questa impostazione sembra porre al centro dell’organizzazione (risorse, poteri e responsabilità) le Camere del lavoro e la Confederazione nazionale, come strutture in grado di organizzare un sindacato di strada in contesti lontani dal tradizionale agire…, dalle parrocchie all’associazionismo diffuso e al volontariato dei piccoli comuni, ricostruendo un nuovo senso di comunità e di militanza a partire dal territorio, valorizzando l’agire in rete a vantaggio anche dell’azione collettiva nei luoghi di lavoro in cui convivono soggetti diversi, con delegati di sito e di filiera che trovino la loro collocazione e il loro coordinamento nelle Camere del lavoro. Questi luoghi dovrebbero diventare sedi in cui naturalmente si confrontano col sindacato le associazioni e i comitati territoriali, i soggetti che sul territorio si battono per il diritto alla casa, e quelli che danno vita alle comunità energetiche. E nelle aree interne, e non solo, i giovani contadini che da soli o in forma associata si impegnano per una agricoltura biologica e il più possibile a chilometro zero e scoprono anche lì nuove possibilità di lavoro, la lotta per il salario minimo e l’iniziativa per un vero reddito di cittadinanza (Sinopoli e Ranieri, in un testo di qualche mese fa). Questa ipotesi generale, oggi mi sembra declinata in una prospettiva che non si fonda tanto sullo sciopero generale e sulle vertenze salariali di categoria (rinnovo del CCNL metalmeccanico, contratti separati nel pubblico impiego, questione del salario minimo nei servizi, ecc), ma sembra guardare soprattutto al prossimo referendum sulla giustizia, in cui far lievitare un nuovo protagonismo diffuso a partire dalla cosiddetta società civile e non dalla politica organizzata, in cui possa trovare un ruolo significativo anche il sindacato. In fondo come nell’esperienza dei referendum CGIL del giugno scorso (la cui sconfitta è stata poco discussa e ancor meno elaborata), mi sembra che si pensi di aprire una nuova e diversa stagione sempre a partire dalle urne del referendum (il voto è la nostra rivolta), mettendo in crisi su quel terreno le politiche autoritarie di governo. Questa prova referendaria sarà probabilmente nei prossimi mesi (marzo-aprile) e il suo risultato ad oggi non è per nulla scontato, nonostante lo schieramento politico e mediatico a sostegno della nuova norma costituzionale: sia per l’astrattezza del tema, su cui non ci sono in realtà schieramenti popolari consolidati; sia per l’assenza di un consenso di maggioranza e consolidato intorno alle forze del governo, che raccolgono intorno al proprio nucleo reazionario oltre il 40% dei consensi, ma con una grande disaffezione elettorale. Una possibile bocciatura della riforma Costituzionale potrebbe allora aprire effettivamente nuovi scenari, in cui agire un progressivo logoramento del governo. In quel quadro, c’è forse anche chi pensa sia possibile far avanzare anche la discussione in CGIL sull’organizzazione, con diverse prospettive e rapporti di forza (conferenza di programma e avvio del congresso). Su questioni diverse, con un diverso profilo e in fondo anche un diversa forza, mi sembra comunque il tentativo di ripercorrere il percorso di qualche mese fa, quando si sperava in una vittoria referendaria anche per un possibile voto sull’autonomia differenziata.

Nella CGIL mi sembra si delineino però anche altre prospettive. Alcuni settori del gruppo dirigente sono rimasti immersi nell’orizzonte concertativo che ha segnato la linea CGIL dopo gli anni Novanta. Certo, la Grande Crisi e la doppia recessione del 2009/2012 hanno reso inconcludente qualunque compromesso capitale-lavoro, in quanto da una parte si sono frammentate le classi dirigenti e le strategie di accumulazione del capitale, dall’altra nell’acutizzazione della competizione internazionale è aumentata la pressione sul salario diretto, indiretto e sociale. Però, la segreteria Camusso e la stessa ascesa di Landini sono state comunque segnate dalla prospettiva di un rinnovato patto tra produttori, dal Patto di fabbrica, dalle ipotesi di codeterminazione e dalla proposta di un’unità sindacale organica (questi, in fondo, erano gli elementi cardine del documento approvato al congresso del 2018/2019). La precipitazione della competizione in una contrapposizione internazionale, una fase di imperialismo di attrito segnato da guerre e conflitti commerciali, l’ascesa della destra reazionaria di Meloni al governo, il coinvolgimento della CISL in una logica sindacale pienamente sussidiaria alle imprese e al governo ha messo decisamente in crisi questa impostazione. Però, ancora, questa impostazione rimane salda in alcuni settori dell’organizzazione. Non è solo inerzia ideologica. Nella frammentazione dell’apparato produttivo e del lavoro, alcune strutture sindacali organizzano soprattutto strati particolarmente consolidati o al contrario particolarmente disorganizzati della classe lavoratrice, adottando in entrambi i casi pratiche e modelli sindacali sussidiari (enti bilaterali, servizi, ecc.). Queste strutture sono quindi oggi portate a chiedere un pluralismo di modelli sindacali, in cui nelle divergenze delle pratiche contrattuali degli ultimi quindici anni hanno nei propri settori la possibilità di agire forme di continuità concertativa. Nella discussione, si è sentito anche qualcuno ipotizzare forme di compartecipazione diretta al capitale, con l’uso dei fondi contrattuali come strumento di investimento per difendere settori strategici dell’economia. Questi settori della CGIL oggi rivendicano i successi delle loro pratiche contrattuali (difesa del salario sull’inflazione tra i chimici o i bancari, i 19 accordi rinnovati nei servizi e nel commercio) e delineano una prospettiva di contrasto alle politiche governative e alle sue ipotesi autoritarie proprio attraverso le pratiche contrattuali e quindi la costruzione di un’alleanza con i settori del capitale. Nel contempo, guardano in generale con estrema preoccupazione alla politica referendaria dell’organizzazione, all’agitazionismo sociale e all’erosione dell’iniziativa categoriale, e proprio in questi mesi hanno trovato eccessiva la politicizzazione dello scontro con il governo, grave la rottura con la UIL e l’isolamento confederale, inopportuna la comunità di percorsi e appuntamenti con sindacati di base e movimenti sociali. Oggi, allora, questi settori guardano al confronto con Confindustria e con Confcommercio (con il cuore del padronato italiano) per ricostruire pratiche condivise e generali di contrattazione, in cui poter consolidare l’unità sindacale categoriale e ricostruire un rapporto con la UIL, anche dialettizzandosi con la proposta di compartecipazione della CISL. A questi settori si aggiungono oggi dirigenti di strutture, territori e categorie che hanno storicamente rappresentato il cuore dell’organizzazione, esplicitamente preoccupati della polarizzazione del dibattito interno, della difficoltà nella costruzione della sintesi, della necessità di ricostruire l’unità dei gruppi dirigenti nella progressività dei percorsi, ma che anche sottolineano la centralità dei contratti, del conflitto capitale e lavoro (pur declinandolo in forme riformiste e moderate), in fondo delle categorie nell’azione della CGIL. 

Allora, la discussione sul 12 dicembre non è stata solo una discussione sulle date o sul metodo, ma anche in qualche modo ha risentito anche di implicazioni strategiche. Nel senso che la data dello sciopero ha assunto valenze e funzioni diverse. Per quei settori e gruppi dirigenti che oggi guardano alla centralità della contrattazione, al rapporto con il padronato, al tema della ricostruzione di un unità sindacale con la Uil e persino con la Cisl, scioperare il 12 dicembre è soprattutto segnare una discontinuità con gli scioperi di settembre ottobre. Da qui la sottolineatura del profilo vertenziale, anche quando questo è insussistente, e da qui la sottolineatura della distanza dal sindacalismo conflittuale e di base, con l’impossibilità di una data comune. Impossibile oggi, proprio a valle del 22 settembre e del 3 ottobre, perché invece un anno fa nessuno sollevò il problema in occasione dello sciopero generale del 29 novembre 2024: allora si proclamò lo sciopero lo stesso giorno in cui era stato già indetto da CUB, SGB ed USI, e si accettò senza un plissé la proclamazione convergente di Cobas, ADL e CLAP, con l’intreccio di cortei e manifestazioni in diversi territori. Allora non era un problema proprio perché alle spalle non c’era un comune movimento di massa e proprio perché, allora, non si era consumata la rottura con la UIL. Oggi invece, un’eventuale sciopero convergente, su proclamazione e piattaforme diverse ma lo stesso giorno, avrebbe un senso diverso: anche in assenza di un attuale mobilitazione di massa, avrebbe guardato a quella prospettiva e alla costruzione di un movimento politico di massa contro il governo. Per le componenti e i settori della CGIL che guardano al territorio e all’agitazione sociale, alla prospettiva referendaria e alla ricostruzione di un sindacato di strada, non c’è invece alcun pregiudizio particolare sul 28 novembre o su eventuali percorsi unitari di mobilitazione. Nessun pregiudizio, ma neanche nessuna centralità, perché oggi la prospettiva non viene affidata allo sviluppo del conflitto sociale e del conflitto nei rapporti di produzione, quanto all’azione sociale della CGIL e all’azione referendaria. L’indicazione di uno sciopero generale CGIL il 12 dicembre, nel riflusso della marea, è allora tutto sommato funzionale sia a ridurre la tensione nell’organizzazione, sia a riaffermare la centralità dell’organizzazione nei prossimi mesi. In questo quadro, si è arrivati ai due scioperi, entrambi in qualche modo segnati da dinamiche organizzative e difficoltà nella convergenza. Questo comune difficoltà, in ogni caso, non cancella la responsabilità che la CGIL si è assunta nell’indicare in questa fase una seconda data di sciopero, oggettivamente alternativa e concorrente alla prima (come fu il 19 nei confronti del 22 settembre). Nel momento in cui ci sono due scioperi e questa disarticolazione opererà comunque nello sviluppo dell’opposizione alla legge di bilancio, credo sia importante comunque la migliore riuscita di entrambi, impegnandosi al massimo come CGIL per il 12 dicembre, consapevoli che ci sarà anche chi sciopererà il 28 novembre come fu lo scorso settembre.

La necessità di un terzo punto di vista: un punto di vista di classe. In ogni caso, proprio la dinamica e la discussione che ha attraversato in questi mesi la CGIL, conferma fino in fondo l’utilità di un’area collettiva e organizzata, con un’impostazione e una prospettiva diversa da quelle che stanno emergendo nella discussione e nelle scelte dell’organizzazione. La presentazione di una risoluzione alternativa sulla data di sciopero, in questo quadro, è stata allora una posizione di merito che guardava anche a questo sottostante dibattito strategico. Nella CGIL, in un sindacato generale e di massa, sono sempre vissute sensibilità diverse ed accanto a pratiche e interpretazioni moderate o burocratiche, sono sempre vissuti settori e prassi che hanno fatto del conflitto tra capitale e lavoro il centro del proprio agire. La frammentazione della classe lavoratrice, il diffuso ripiegamento di una coscienza politica, la destrutturazione del tessuto storico dei delegati hanno reso oggi questa sinistra sindacale più fragile e scomposta. Serve allora ritessere, sviluppare e dispiegare un punto di vista fondato sull’autonomia della classe nel conflitto tra capitale e lavoro, quindi sulla centralità dell’organizzazione del sindacato nei rapporti di produzione e la rappresentanza dell’insieme del lavoro, in grado di porre l’accento sulla strutturazione del sindacato nella produzione (le sezioni sindacali nei luoghi di lavoro), la ricostruzione di pratiche contrattuali generali e la prospettiva di convergenza delle diverse soggettività del lavoro. Questo punto di vista ha la necessità oggi di esser sviluppato collettivamente, sul piano della riflessione e della proposta, nella discussione che la CGIL affronterà nei prossimi mesi, dalla conferenza di programma al congresso. Questo punto di vista, in ogni caso, dovrà soprattutto provare a vivere nei conflitti sociali e nel tentativo di ritessere percorsi di convergenza dopo gli scioperi generali separati. Lo richiede la dinamica degli eventi: la contrapposizione internazionale in corso con i conseguenti orizzonti di guerra; l’organizzazione nazionalista dell’economia e della società in funzione di questa contrapposizione; il riarmo e la pressione continuativa del capitale sul salario diretto, indiretto e sociale; la curvatura autoritaria impressa dalle destre reazionarie, nello Stato e nei suoi apparati sociali (a partire da scuola e università). Il contrasto a queste politiche istituzionali, economiche e sociali, nella prospettiva di un possibile secondo mandato della Meloni e di una loro conseguente radicalizzazione, deve proprio imparare dall’esperienza di questo autunno: una svolta politica e sociale potrà costruirsi solo sullo sviluppo di un’opposizione di massa moltitudinaria, capace oggi di attivare nuove maree ben oltre i confini e i percorsi di ogni singola soggettività, anche di una significativa e di massa come la CGIL. Le diverse parti e le diverse soggettività, proprio nel curare questa dinamica e contribuire allo sviluppo di nuove maree, dovranno anche capire come strutturare spazi di confronto e sintesi nelle mobilitazioni, per trasformare le maree in movimenti di massa. Questo, io credo, il compito e l’impegno principale dei prossimi mesi, che dovrebbe dare senso e prospettiva ad una sinistra CGIL.

Luca Scacchi


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