Aula magna del Mantegna piena, ieri sera, per l’assemblea su “Dove va la Palestina?” indetta dall’Associazione Culturale “Maitan-Berneri” e da Italia-Palestina di Brescia. L’assenza di Moni Ovadia, ammalato, che aveva comunicato solo nel pomeriggio del 29 la sua impossibilità a partecipare (e che ha inviato un video di saluti con un breve intervento) ha probabilmente deluso gran parte dei partecipanti, che comunque hanno ascoltato l’introduzione di Flavio Guidi, dell’AC “Maitan-Berneri” (pubblicata in basso) e gli interventi di Najaf Alrabi (Associazione di amicizia Italia Palestina) e Sandro Moiso (Carmillaonline). Una dozzina gli interventi, che, nella maggioranza dei casi, hanno cercato di sviluppare il dibattito sulle prospettive del futuro, immediato o più a lungo termine, della situazione. Com’era prevedibile, si è parlato soprattutto della situazione attuale a Gaza, con la pseudo tregua continuamente violata dai sionisti. Quasi tutti gli interventi hanno però cercato di non limitarsi, come accaduto nella maggior parte delle iniziative da due anni a questa parte, alla denuncia del genocidio in corso, ma di analizzare i possibili scenari futuri. Quasi unanime è stata la valutazione negativa della soluzione Due popoli, due Stati, tanto cara alle principali potenze mondiali fin dal 1947. Negativa non solo e non tanto per l’indisponibilità dei sionisti dopo il 1948 ad accettarla, quanto per il rifiuto della logica “etnocentrica” escludente implicita. La prospettiva di una Palestina libera e laica, per tutti i popoli che la abitano (arabi, ebrei, drusi, ecc.) pur nel quadro di un profondo pessimismo diffuso, è emersa da molti interventi, pur con sfumature diversificate. Alcuni interventi hanno sottolineato la necessità imprescindibile di un’unità di classe tra i proletari e gli sfruttati palestinesi ed israeliani contro sia la borghesia israeliana che contro le borghesie arabe, in una prospettiva socialista medio-orientale. Altri, più legati ad una logica di “liberazione nazionale anticolonialista” hanno preferito la lettura in chiave più nazionalista e meno classista. Comunque, al di là delle divergenze interne al movimento contro il genocidio sionista, un primo tentativo (o meglio un secondo tentativo, dopo il dibattito con Ofer Cassif organizzato dal PRC) di uscire dalle secche della semplice denuncia dei crimini sionisti per imboccare il difficile cammino della riflessione politica. L’assemblea ha poi deciso di partecipare alle mobilitazioni previste per il 4 e il 9 novembre.

Ecco il testo dell’introduzione al dibattito.

Quest’assemblea, che avviene in piena “tregua farlocca” in cui i sionisti continuano ad uccidere, avrebbe l’ambizione di essere un po’ diversa dalle altre, a cui abbiamo partecipato in questi ultimi due anni. Assemblee di giusta e necessaria denuncia del genocidio in atto a Gaza, intensificatosi a partire dall’8 ottobre di due anni fa.

Assemblee e manifestazioni continue, andate in crescendo, per fortuna, e culminate con le enormi manifestazioni di massa tra il 22 settembre e il 3 ottobre di questo mese, manifestazioni che, almeno dal punto di vista della partecipazione numerica, ricordavano a quelli come me (calvi o coi capelli grigi) quelle contro la guerra del Vietnam di oltre mezzo secolo fa. Ciò che è stato assente, o quasi, dalle innumerevoli riunioni e assemblee più o meno pubbliche (se escludiamo la lodevole iniziativa col compagno Ofer Cassif organizzata dal PRC l’8 settembre) è stata la riflessione più propriamente politica sulla situazione interna della Palestina (in particolare sul movimento anti-sionista, sia arabo-palestinese che israeliano). I pochi accenni che emergevano qua e là sono stati spesso liquidati con l’affermazione, in bilico tra l’ovvio e il demagogico, che “non possiamo dire noi ai palestinesi cosa debbono fare”. Noi, che veniamo da una cultura pienamente internazionalista (che quindi non si limita al semplice, seppur non disprezzabile, solidarismo umanitario), pensiamo che sia invece necessario affrontare i nodi politici che stanno alla base della tragedia palestinese, senza per questo, ovviamente, arrogarci il diritto di “dare la linea” a chi si sta battendo in quella realtà contro il nazionalismo colonialista sionista.

Innanzitutto cerchiamo di chiarire cosa significa per noi Palestina, visto che questa parola è stata usata nei più svariati modi, non solo negli ultimi 58 anni, ma si può dire da sempre. Negli slogan che abbiamo sentito negli ultimi due anni, e soprattutto nell’ultimo mese e mezzo, da quando cioè il movimento di massa contro il genocidio in atto è diventato un fiume in piena, si grida spesso “Dal fiume – sottinteso il Giordano – fino al mare”. Ci aggiungerei dal confine libanese fino al golfo di Aqaba, per maggior precisione.

Si tratta della cosiddetta “Palestina mandataria”, quella controllata dai britannici per 30 anni, tra il 1918 e il 1948. 27 mila kmq, abitati da oltre 15 milioni di persone: circa 7 milioni sono ebrei (un concetto non solo religioso, anzi, non tanto religioso), quasi altrettanti arabi musulmani, il resto arabi cristiani, armeni, drusi, circassi, ecc.

Divisa fino al 1967 in tre stati: Israele (78%, invece del 56% previsto dall’ONU nel 1947), Giordania (20%), Egitto (meno del 2%). Dal 1967 fino ad oggi occupata totalmente (con qualche limitata eccezione, come la striscia di Gaza tra il 2005 e il 2023 o pezzettini di Cisgiordania) dallo stato d’Israele. Dopo i famosi accordi di Oslo, che avrebbero dovuto dar vita al tanto caro (per l’ONU e tutte le principali potenze del pianeta) progetto dei “due popoli, due stati”, le cose si sono ulteriormente complicate.

Anche tralasciando il fatto che i “popoli” sono più di due (visto che armeni, drusi, ecc. non sono né ebrei, né arabi), e che i milioni di arabi palestinesi che vivono al di fuori del previsto “ministato palestinese” (Cisgiordania e Gaza) vedrebbero sostanzialmente negato il sacrosanto diritto al ritorno nelle loro case, nell’ambito dei cosiddetti due stati-nazione che avrebbero dovuto convivere fianco a fianco, abbiamo infatti assistito ad una radicalizzazione in entrambi i contendenti, soprattutto di quelli che hanno il coltello dalla parte del manico.

Da una parte il sionismo si è sempre più spostato a destra, ritirando fuori dall’immondezzaio della storia le posizioni ultranazionaliste (che possiamo quasi definire fascio-sioniste) di Zhabotinsky e di altri sostenitori della Grande Israele, etnicamente “pura”. L’attuale politica genocida di Netanyahu e del suo governo d’estrema destra ne è l’ultima incarnazione.

Dall’altra, anche grazie al gioco del “divide et impera” praticato da tutti i governi sionisti (compresi quelli pseudo progressisti), la direzione palestinese è stata prima indebolita in tutti i modi (guerra in Libano, finanziamenti agli islamisti di Hamas, ecc.), fino a ridurla ad un’autorità fantoccio, corrotta e collaborazionista, creando lo spazio adatto alle componenti reazionarie islamiste che governavano con mano di ferro la striscia di Gaza fino al 7 ottobre di due anni fa e che hanno portato i palestinesi nell’attuale vicolo cieco del martirio di massa.

Oggetto della discussione di questa sera è appunto “dove va la Palestina” intesa nel senso ampio che ho descritto sopra. Abbiamo sentito gridare da centinaia di migliaia di voci, giustamente indignate verso ciò che sta facendo il governo Netanyahu con la complicità di molti governi (compreso quello italiano, ovviamente), non solo “occidentali”, “Palestina libera”!

Cosa vuol dire questo slogan, di per sé condivisibile? Cisgiordania e Gaza libere dall’occupazione sionista (quindi, di nuovo, la manfrina dei “due popoli, due stati”)? Governate dall’ANP? Governate da ANP più Hamas (i protagonisti della mini guerra civile del 2007)? Cisgiordania all’ANP e Gaza ad Hamas? Tutta la Palestina “libera” dal sionismo, ma araba? O islamica? O una Palestina “federale”, con un’entità “ebraica” ed una “araba” (con armeni, drusi, ecc. a scegliere se essere minoranze tollerate nell’una o nell’altra “entità”?

O una Palestina unita, laica, democratica, non etnica, che veda la “desionistizzazione” di Israele e la “deislamizzazione” degli arabo-palestinesi (il che non significa rinunciare alle sinagoghe o alle moschee, ovvio). Con un progetto che metta in discussione gli equilibri di classe, il potere delle classi dominanti, minoritarie (come ovunque) in entrambe le comunità, ma politicamente e culturalmente egemoni? Che sappia parlare ai lavoratori, agli sfruttati, agli oppressi di entrambi le “nazionalità” (e pure delle altre, quelle minoritarie). Che sappia ridare credibilità ad un progetto che noi, ostinatamente e contro venti e maree, continuiamo a chiamare, “socialismo internazionalista”? Utopia? Astrazione? Sogno? Le altre proposte sul tappeto vi sembrano più “realistiche” (oltre all’incubo attuale, questo sì, ahimè “reale”)? Per quanto mi riguarda, preferisco passare per un inguaribile utopista e sognatore, visti i risultati orribili dei tanti “realisti” della politica. E se dobbiamo lottare per realizzare un sogno, lasciateci almeno sognare in grande.


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