di Massimo Caterini (Comitati Internazionalisti contro la guerra, per la guerra di classe)

C’è una linea rossa che unisce le notizie di questi giorni: da un lato, la Russia che annuncia il successo del test del Poseidon, un drone sottomarino a propulsione nucleare di cento tonnellate, capace secondo Vladimir Putin di percorrere distanze illimitate e generare onde radioattive in grado di cancellare intere coste; dall’altro, l’Italia che si prepara a spendere quasi trentacinque miliardi di euro nel 2026 per la difesa, con un aumento di circa un miliardo rispetto al 2025 e una crescita del sessanta per cento negli investimenti in armamenti rispetto al 2022. Due eventi apparentemente lontani ma che rivelano un’unica tendenza: la guerra come condizione permanente del capitalismo nella sua fase imperialista.

Secondo l’osservatorio Mil€X, la spesa militare “pura” dell’Italia, cioè quella riferita direttamente alle forze armate, continua ad aumentare, trainata dagli impegni NATO e dal nuovo obiettivo del 3,5 per cento del PIL per la difesa stretta e del 5 per cento per la sicurezza nazionale. Solo per i programmi di armamento nel 2026 sono previsti oltre tredici miliardi di euro, un record storico. L’aumento delle spese militari non è una deviazione temporanea, ma una risposta strutturale alle contraddizioni del capitalismo contemporaneo. Quando i mercati si saturano, quando la concorrenza si intensifica e il profitto si riduce, la guerra e la sua preparazione diventano strumenti di riproduzione economica e politica.

In questo quadro il test del Poseidon, confermato da fonti internazionali, non rappresenta un’anomalia ma l’altra faccia della stessa logica. L’annuncio di Putin è stato chiaro: il drone sottomarino, mosso da un reattore nucleare miniaturizzato, ha completato con successo una missione di prova lanciata da un sottomarino, dimostrando capacità inarrestabili e una potenza distruttiva superiore al missile intercontinentale Sarmat. Dietro queste parole non c’è solo propaganda o orgoglio nazionale, ma l’affermazione della deterrenza come logica di sopravvivenza del potere imperialista. Il Poseidon non serve tanto a combattere una guerra quanto a comunicare la disponibilità a sostenerla. È un messaggio politico, economico e strategico, e come tale risponde alla stessa razionalità che spinge l’Occidente ad accumulare armi e a far crescere i propri bilanci militari.

Né l’una né l’altra parte possono rivendicare superiorità morale. L’Occidente che si nasconde dietro la retorica della “difesa della democrazia” e la Russia che parla di “equilibrio multipolare” condividono la stessa logica: la sopravvivenza del modo di produzione capitalistico. Entrambi i blocchi rappresentano espressioni diverse di un sistema fondato sulla competizione per il profitto, sullo sfruttamento del lavoro e sull’accumulazione attraverso la guerra o la minaccia di essa. Da una prospettiva marxista, non si tratta di campi contrapposti, ma di imperialismi concorrenti. L’idea di dover scegliere tra uno dei due è una trappola politica che divide e trascina dentro conflitti che non appartengono alla classe lavoratrice.

Lenin lo aveva previsto: l’imperialismo è la fase in cui il capitalismo, giunto a un alto livello di concentrazione e monopolio, non può più espandersi pacificamente. Deve conquistare, spartire, distruggere per sopravvivere. Ogni guerra imperialista, dalla Prima guerra mondiale fino ai conflitti contemporanei, nasce da questa necessità economica travestita da interesse nazionale o da causa morale. Così, mentre in Italia si tagliano fondi alla sanità e all’istruzione, lo Stato destina miliardi a caccia, fregate e missili. In Russia, mentre la stagnazione economica riduce il potere d’acquisto, si investono risorse immense in armi che nessuno potrà usare davvero. È la barbarie della concorrenza armata, che si presenta come difesa ma è solo un’altra forma di accumulazione e controllo.

L’alternativa non può essere il campismo, cioè la scelta di schierarsi con un blocco imperialista contro un altro. Serve un movimento internazionalista e di classe, capace di opporsi alla guerra in tutte le sue forme e di riconoscere che ogni esercito, ogni arsenale e ogni spesa militare rappresentano una sconfitta sociale. Bisogna denunciare la spesa militare come furto di risorse collettive, pretendere la riconversione dell’industria bellica verso produzioni civili e sostenibili, ricostruire un orizzonte politico fondato sulla cooperazione e non sulla competizione. La pace non è una tregua tra potenze, ma il risultato di un cambiamento radicale nei rapporti economici e sociali.

La guerra non è un’anomalia del capitalismo, ma la sua conseguenza più coerente. Finché la produzione sarà orientata al profitto e non ai bisogni, finché l’economia sarà fondata sulla competizione e non sulla pianificazione democratica, la guerra resterà la forma estrema della politica capitalista. Superare questo sistema non è un’utopia, ma una necessità storica.


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