di Marco Veruggio
Le polemiche dei giorni scorsi circa lo striscione della FIOM sull’unità tra lavoratori israeliani e palestinesi sono un’occasione per discutere strategia e metodo: nazionalismo, sia pur “democratico”, o internazionalismo?
MARCO VERUGGIO, Newsletter di PuntoCritico. info, 22 settembre 2025
Dopo il successo dello sciopero generale di USB ieri, sia in termini di partecipazione alle manifestazioni di piazza, che, a giudicare dai primi dati, di astensioni dal lavoro, risaliamo indietro di qualche giorno al precedente sciopero della CGIL. Lo striscione portato in piazza dalla FIOM di Genova – “Contro la barbarie dell’imperialismo per l’unità dei lavoratori israeliani e palestinesi” (nel volantino la stessa FIOM scrive: “Contro il genocidio nella Striscia di Gaza. Contro tutte le guerre dell’imperialismo. Contro il riarmo crescente e un clima di guerra ormai dilagante. Per l’unità dei lavoratori palestinesi, israeliani, arabi, europei”) – ha suscitato polemiche nel movimento di solidarietà col popolo palestinese, a sinistra e persino da parte di Francesca Albanese. I lavoratori israeliani, dicono, sono complici della politica del colonialismo israeliano. Inoltre, scrive la relatrice speciale ONU sul profilo fb Acsecnarf Albanese: “La brutale equazione tra occupante e occupato normalizza l’oppressione che i Palestinesi soffrono da decenni…”
Ciò che non mi convince in questi ragionamenti è che la questione di fondo non è dividere i buoni dai cattivi, ma minare l’egemonia politica e culturale che consente alle classi dominanti di Israele di opprimere i palestinesi con la collaborazione o la “neutralità” della maggioranza dei lavoratori israeliani. Egemonia frutto di una scientifica azione di indottrinamento, che in Israele, come mostra un film presentato nel 2022 a Venezia, “Innocence”, inizia quando a dei bambini di cinque anni viene mostrata in classe una mina antiuomo, chiesto di disegnare soldati e carri armati, insegnato che “gli arabi vogliono uccidere te e la tua famiglia, perciò devi difenderti con ogni mezzo”.
Nel 1961 lo psicologo sociale Stanley Milgram realizzò per la prima volta il celebre esperimento in cui alcuni “insegnanti”, arruolati col pretesto di fare delle ricerche sulla memoria, venivano istigati a somministrare scosse fino a 450 volt agli “allievi” che fornivano risposte sbagliate. Le scosse in realtà erano finte, ma loro non lo sapevano, gli “studenti” simulavano reazioni di dolore e il risultato fu impressionante: l’80% del primo campione arrivò a somministrare scosse fino a 150 volt e il 65% addirittura fino a 450. Ma al secondo e al terzo round quelle percentuali scesero rapidamente. Numerose ripetizioni del test confermarono quel risultato, con cui Milgram, ebreo, si proponeva di spiegare il coinvolgimento di milioni di tedeschi negli orrori del nazismo. I dati, in sostanza, dimostrerebbero che chiunque di fronte agli ordini di un’autorità giudicata credibile è disposto a “violare la morale” pur senza coercizione. Alcuni studiosi hanno contestato non solo gli aspetti etici dell’esperimento, ma anche i risultati, affermando che Milgram avrebbe erroneamente sovrastimato l’obbedienza delle “cavie”. Tuttavia, sovrastimata o meno, essa è stata confermata da studi successivi.
Dal laboratorio alla realtà i mezzi di condizionamento si moltiplicano di numero e di intensità, perché a chiederti di fare o solamente di accettare cose che un essere umano normalmente aborre non è uno che si presenta come ricercatore di una ditta privata, che ti ha reclutato tramite un’inserzione di lavoro e ti paga un compenso per partecipare a un esperimento: sono la scuola, l’esercito, le autorità religiose, magari anche familiari e amici, a loro volta precedentemente “arruolati” con gli stessi mezzi.
L’imperialismo italiano chiese ai lavoratori (e ottenne) di prendere parte (o di accettarle), beneficiando di qualche briciola caduta dal tavolo, alle imprese coloniali dal 1911, anno di annessione della Cirenaica e della Tripolitania, fino al 1960, ultimo anno dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia. Bilancio: un milione di libici, etiopi, somali uccisi, 20-30mila nel solo massacro di Addis Abeba (1937), i cui responsabili non furono neppure processati. Il consenso o la neutralità di milioni di proletari italiani, che pure vennero strappati dalle loro famiglie e mandati a morire in Libia e in Etiopia, in Albania, Grecia e Russia, cominciò a vacillare solo quando le sorti della II guerra mondiale volsero a sfavore del fascismo e oppressione sociale e repressione politica, inclusi i rastrellamenti di ebrei e oppositori politici, giunsero all’apice. Ma di quel consenso non ci siamo ancora del tutto sbarazzati se oggi una tredicenne portata dalla scuola a visitare una base NATO scrive: “Grazie per la visita perché ho capito che la NATO non opera per la guerra ma che al contrario ha la missione di intervenire in accordo con altri paesi per mantenere la Pace e la Sicurezza”. E nessuno insorge.
Lo stesso schema è applicabile alla Germania nazista, ma anche a esperienze più recenti. Negli USA il grande movimento sul Vietnam inizia a più di 10 anni dallo scoppio della guerra, quando il numero di vittime, la sempre più evidente improbabilità di una vittoria e il fatto che alcuni giornalisti comincino a rivelare i crimini di guerra americani trascina in piazza centinaia di migliaia di persone, in particolare coetanei dei soldati al fronte.
Possiamo dire che anche il grosso dei proletari italiani, tedeschi, statunitensi fosse in qualche modo complice delle proprie classi dominanti? Sì, una classe dominata materialmente lo è anche ideologicamente. Ma è una constatazione tanto vera quanto inutile, perché le cose non si cambiano coi giudizi morali, ma con strategie efficaci. Nemmeno la più feroce dittatura può governare senza un minimo di consenso. Perciò l’egemonia politica e culturale che essa esercita sulla popolazione e in particolare sui lavoratori è la sua vera forza ed è quella che va colpita, non chi vi è soggetto. Ciò richiede, naturalmente, che maturino alcune condizioni. I tempi di tale maturazione non possiamo deciderli noi, ma noi possiamo prepararci ad aiutare i processi.
Veniamo a oggi. Netanyahu non è del tutto pazzo. Ha una strategia basata sulla polarizzazione – “o con gli ebrei (cioè con me) o contro” – che punta proprio alla crescita di un sentimento anti-israeliano nel mondo. Come ogni nazionalista sa che non c’è miglior modo di compattare i propri concittadini e neutralizzare l’opposizione interna che fomentare una risposta simmetrica alla propria: “Tutti i palestinesi sono terroristi” punta a “Tutti gli israeliani sono criminali di guerra”.
Nei paesi del Medio Oriente vivono milioni persone che per campare vendono la propria forza-lavoro. A Gaza e in Cisgiordania prima della guerra molti erano dipendenti del settore pubblico finanziato dalle donazioni dei paesi arabi; il resto, come capita spesso nella regione, in una dipendenza materiale difficile da inquadrare giuridicamente come “lavoro dipendente”. In Israele, paese con una cronica carenza di manodopera, molti erano palestinesi, costretti ogni giorno ad attraversare check point e subire controlli umilianti per raggiungere il lavoro, e immigrati (nell’edilizia e in agricoltura ma anche nell’IT), come i 10 nepalesi uccisi e quelli rapiti il 7 ottobre. Histadrut, la centrale sindacale da sempre pilastro del sionismo, è stato costretto dalla pressione degli iscritti e dell’opinione pubblica a mutare atteggiamento verso il governo e a giocare un ruolo nelle proteste contro Netanyahu.
In questo quadro continuare a ripetere che gli israeliani sono tutti complici, che le manifestazioni contro le guerra sono tardive e insignificanti perché non hanno come primo punto i crimini israeliani contro i palestinesi (come se la Resistenza fosse nata da un moto di sdegno verso il colonialismo italiano) o persino scrivere, come Francesca Albanese, che evocare l’unità tra lavoratori israeliani e palestinesi significa “stabilire una brutale equidistanza tra occupante e occupato” significa non solo dire una cosa non vera, ma soprattutto bruciare ogni residua speranza. Intanto la Albanese è una giurista e dovrebbe cogliere la differenza tra chi, dopo essere stato indottrinato almeno 15 anni, viene considerato dalla legge soldato a vita e mandato a opprimere i palestinesi (l’alternativa sono carcere, legge marziale e ritorsioni di ogni genere contro sé stessi e i propri familiari) e chi invece gli impone queste cose. Ma soprattutto le posizioni citate colpiscono chi oggi contesta la politica dello Stato di Israele e chiede il cessate il fuoco, gli studenti refusnik e i riservisti che rifiutano di combattere, le famiglie degli ostaggi che chiedono alla centrale sindacale Histadrut di scioperare e i lavoratori che scioperano contro la guerra. E prima o poi li ributtano nelle braccia dello Stato di Israele.
E con quale alternativa poi? L’intervento degli USA o dell’Europa? Cioè di chi è la principale causa del problema? Oppure degli esangui fantasmi della “legalità internazionale”? O ancora dei paesi arabi, che da 70 anni usano i palestinesi come merce di scambio per i propri interessi? O davvero si pensa che la Resistenza palestinese possa sconfiggere sul campo l’IDF (omettendo ogni giudizio politico sulla sua leadership)? Insomma per non essere equidistanti tra occupanti e occupati si finisce per essere equidistanti tra chi spiana Gaza e chi lo contesta.
A me, in definitiva, pare che la cronaca confermi la storia: se non ci fermiamo alla superficie, le guerre tra nazioni sono in realtà anche e piuttosto guerre che le classi dominanti dei paesi belligeranti dichiarano a coloro che inviano al fronte a morire per difendere interessi non loro, in Medio Oriente come in Ucraina. Non serve citare Lenin, basta Trilussa: “Fa la ninna, cocco bello, / finché dura sto macello: / fa la ninna, chè domani / rivedremo li sovrani / che se scambieno la stima / boni amichi come prima”. Boni amichi come prima, appunto, come chi un giorno invia fondi al “nemico” tramite il Qatar e il “nemico” che li riceve e il giorno dopo tutti e due si dichiarano guerra e quello dopo ancora chissà. Dunque no all’equidistanza, benissimo, ma tra chi e chi? Per chi ha una posizione internazionalista la scelta non è tra nazioni, ma tra classi dominanti e classi dominate (e mandate al macello). Chi accusa questa posizione di essere “complice” o, più benevolmente, “astratta”, ha l’onere di spiegare qual è la sua soluzione scevra da complicità e concreta.
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