Cari Compagni, contrariamente a molti di voi, io ho sempre frequentato gli ambienti sportivi. Nel basket ci ho anche lavorato per anni e a vari livelli e comunque sia il mondo dei canestri sia quello del calcio mi hanno interessato, appassionato e lo fanno ancora. E visto che, volenti o nolenti, lo sport coinvolge e interessa una marea sterminata di gente, credo sia giusto riflettere se non sia il caso di prendere anche noi posizione politica su certi avvenimenti, tenendo presente che qualunque dichiarazione pro Palestina e contro il genocidio perpetrato da Isreale pronunciata da uno sportivo famoso, calciatore o altro atleta che sia, avrebbe molta più risonanza e molta più efficacia sulle masse di quelle di militanti politici come noi. Mai come oggi, il fine giustifica i mezzi.

Il rapporto che intercorre tra il mondo dello sport e i fatti politici e bellici sul piano internazionale è molto antico, complesso e spesso contradditorio o comunque non lineare. La tipica frase dei benpensanti per cui ‘la politica non deve intaccare la purezza degli eventi agonistici’ viene usata, infatti, di volta in volta in maniera diversa, a beneficio del ladro di marmellata di turno. Lontanissimi sono i tempi, talmente lontani che un controllo capillare in merito diventa impossibile, in cui le guerre si fermavano, o almeno si sospendevano, in occasione dei Giochi Olimpici. Ciò accadeva appunto nell’antica Grecia, ma più che un primato ludico rispetto a contese e conflitti, si trattava di un primato della religione e della sacralità sulle questioni umane. E se pensiamo che il rapporto che avevano i nostri progenitori ellenici con il mondo degli Dei, l’Olimpo appunto, non era improntato sulla bontà o sulla grazia quanto sulla paura di giudizi e di punizioni, da procrastinare magari attraverso sacrifici molto concreti e cruenti, si capisce quanto il ‘timor di Dio’ nell’accezione molto poco ieratica e affatto pastorale di allora giocasse un ruolo decisivo e super partes nelle diatribe umane.

Anche nei tempi moderni, facendo un triplo salto mortale in avanti con mille millanta avvitamenti, sono stati e sono tuttora le Olimpiadi, ripristinate nel 1896, a costituire il fulcro degli equilibri, funambolici a dire i vero, tra eventi sportivi e tensioni politiche tra le nazioni. Accanto a loro, e di pari passo, tutte quelle manifestazioni continentali e mondiali che, in modo esponenziale di crescita, hanno attirato l’interesse e la passione dell’umanità nella sua interezza.

Ogni disciplina sportiva è amministrata e governata da una Federazione che è, in scala di autorità crescente, nazionale, continentale e planetaria. Per fare solo un esempio, il calcio è in Italia controllato dalla FIGC, che fa capo in Europa alla UEFA, che fa parte a sua volta della FIFA a livello mondiale. Ogni federazione di quegli sport che sono anche discipline olimpiche fa riferimento appunto al Comitato Olimpico, che in Italia è il CONI e che nel mondo è un organismo che si chiama CIO.

Tutte queste precisazioni un po’ stucchevoli, soprattutto per chi mastica già questi argomenti, sono necessari per capire la storia delle sanzioni, come le sospensioni o le esclusioni, che questi apparati di controllo a livello regolamentare e disciplinare, hanno comminato e comminano tuttora verso le federazioni di paesi che si macchiano di fatti contrari alle regole internazionali e universalmente accettate. Ma, con buona pace dei benpensanti di cui accennavo prima, essi non si limitano a punire chi sgarra le regole sportive, ma invade invece il campo politico propriamente detto, quello sociale e quello etico. Inteso soprattutto come rispetto del Diritto Internazionale.

A nostro personale modo di vedere, in linea di principio, tutto ciò è ammissibile se non addirittura auspicabile, ma il problema sta nella incoerenza dei provvedimenti e nella eccezione clamorosa e incomprensibile che si sta facendo, proprio in questo periodo, nei riguardi dello Stato, soprattutto del Governo, di Israele.

Ma facciamo un passo indietro e procediamo, sia pur per sommi capi, per ordine. Innanzi tutto, c’è da precisare che nell’intreccio complicato tra sport e società, che chiameremo per brevità ‘politica’, non ci sono state solo sanzioni dall’alto, tipo appunto esclusioni o espulsioni, ma anche rinunce volontarie, i famosi boicottaggi. La cronologia di questi ultimi praticamente anima tutta la stessa storia delle Olimpiadi Moderne, ma è giusto limitarsi a ricordare quelli più eclatanti. Il primo, nel 1936 a Berlino, fu in realtà un fallimento: molte federazione erano giustamente scandalizzate per come venivano vessati gli ebrei nella Germania nazista, ma l’allora presidente del CIO, un americano, chiamato a pronunciarsi sulla questione, non trovò ‘niente di anomalo al termine di accurate indagini’. Grandi proteste, qualche dimissione, ma tutti alla fine parteciparono davanti al Fuhrer gongolante. Nel ’56 a Melbourne, fu la Cina a inaugurare i veri e propri boicottaggi perché era stata ammessa Taiwan, mentre Egitto, Cambogia, Iraq e Libano si astennero per l’invasione britannica e di Israele del Canale di Suez e, dal canto loro, Spagna, Olanda e Svizzera non parteciparono per quella sovietica in Ungheria.

È ovvio che ciascuno di questi episodi e delle loro motivazioni meriterebbe un approfondimento che magari darebbe anche più spessore a questa analisi, ma riteniamo sia più funzionale procedere un po’ a volo d’uccello e arrivare allo spinoso ‘dunque’ odierno.

Quindi, proseguendo in questa cronologia olimpica, arriviamo a Tokio ’64, data e luogo importanti anche per cose che vedremo in seguito. Dai Giochi giapponesi venne allontanato infatti il Sudafrica che, avendo ufficialmente introdotto l’apartheid già da qualche anno, si era presentata solo con atleti bianchi. Piccola, importante digressione sull’argomento. Dopo vari tira e molla tra il CIO e la federazione sudafricana verrà espulsa sine die dall’organizzazione olimpica nel 1970 con l’ovvia motivazione del mancato rispetto dei diritti civili e umani nel proprio territorio. Vi dice forse qualcosa questa motivazione?

Nel ’76 a Montreal sono 27 paesi africani a boicottare avendo il CIO accolto la Nuova Zelanda che aveva continuato ad avere rapporti sportivi con il Sudafrica, nonostante fosse da poco avvenuto il massacro di Soweto, un vero sgombero compiuto fregandosene di travolgere case, alberi e vite umane. Una Gaza ante litteram, in sedicesimo. Il CIO si giustificò dicendo che sudafricani (bianchi) e neozelandesi avevano disputato una gara di rugby, che non era gioco olimpico. Tutto vero, anche se molto ipocrita, ma la conseguenza buona fu che anche la Federazione Internazionale di Rugby decise di espellere immediatamente il Sudafrica dal suo consesso.

Le Olimpiadi dell’80 a Mosca e quella di Los Angeles del 1984 furono caratterizzate dai boicottaggi più famosi e numericamente più rilevanti dei contrapposti blocchi imperialistici. Le motivazioni possibili erano migliaia e quelle ufficialmente utilizzate furono, mi pare, l’invasione in Afghanistan per la prima e il comportamento anti sovietico degli USA per la seconda. La cosa curiosa è che proprio a Mosca si videro i primi atleti che gareggiavano senza bandiera, senza appartenenza. Un’evenienza che, come vedremo, è oggi molto frequente.

Un fenomeno che da scelta volontaria, quasi personale, si è trasformata negli anni in un provvedimento impositivo e vagamente cerchiobottista. Come se il Comitato supremo tuonasse: ‘Il tuo paese è fuori dalle regole, le sue Federazioni sportive, tua compresa, pure. Se proprio vuoi gareggiare, lo fai a titolo personale’. Questa evoluzione ci permette di passare dal campo del boicottaggio a quello delle esclusioni ed espulsioni per motivi extra sportivi. Già il Sudafrica, come abbiamo appena ricordato aveva subito questo provvedimento, ma la questione si fa molto più intricata, interessante, in sostanza molto più d’attualità, se passiamo dalla Storia alla Cronaca.

Ma prima di addentrarci nella schizofrenia opportunistica di oggi, è utile ricordare un episodio, glorioso per molti ma molto spiacevole per molti altri, che successe nel 1976 e che riguarda proprio lo sport del nostro Paese, e più precisamente il tennis. Questa disciplina, che era stata considerata fino a pochissimo tempo prima un passatempo per ricchi annoiati anche a livello agonistico, come il golf, la vela e in parte anche lo sci, aveva avuto un successo di pubblico e di praticanti improvviso quanto inspiegabile, o quasi. Forse era stato l’apparire sulla scena di un ‘figlio del popolo’, romano di borgata, come Panatta o quello del suo compagno di doppio Bertolucci, dotato di un fisico dedito più alla tavola e al divano (insomma, uno di noi) più che al campo in terra battuta con la rete in mezzo, sta di fatto che il pubblico italico della tv, che emetteva i primi vagiti a colori, si trovò all’improvviso appassionato di tennis. E nella Coppa Davis di quell’anno, sorta di campionato mondiale per nazioni a eliminazione diretta, l’Italia passava di turno in turno macinando avversari trovandosi addirittura qualificata per la finale. Ad accedere alla sfida decisiva per il trofeo era stato dall’altra parte il Cile. Il Cile? Quello dove tre anni prima il generale Pinochet era assurto al potere con un colpo di stato cruento e fascista? Quello che aveva di fatto ammazzato il compagno Salvador Allende e azzerato un sogno di giustizia sociale e umana che si stava per realizzare? E, al di là di queste considerazioni e denunce politiche, come può essere successo che il Cile, una nullità nel mondo del tennis, sia riuscito ad arrivare in finale?

Fu proprio il rifiuto di diverse nazionali di affrontare gli andini, appunto in ragione della dittatura instaurata a Santiago, quindi boicottandoli, a permettere loro di arrivare in fondo quasi senza colpo ferire, vincendo a tavolino diversi match per diserzione degli avversari. Ora la Nazionale italiana di tennis si trovava di fronte un ostacolo molto facile sul piano sportivo, ma che diventava molto delicato e difficile sul piano etico e politico. Battere il Cile con le racchette era molto semplice, anche giocando a casa loro, alzare in modo insperato un trofeo che di solito era appannaggio di squadroni, come Australia o Usa ben più forti del nostro, appariva come occasione irripetibile, ma andare a giocare in un paese così antidemocratico, con le strade ancora sporche di sangue per il golpe e con le galere piene di dissidenti, lo era obiettivamente molto meno. Le resistenze e le ragioni di chi avrebbe voluto una rinuncia, il boicottaggio appunto, erano molto forti. Andare a legittimare Pinochet e i suoi assassini appariva a moltissime persone, in Italia e non solo, alquanto inopportuno, ma alla fine prevarranno i soliti benpensanti a giorni alterni con il loro mantra per cui la politica non deve mischiarsi ecc. ecc. La bilancia delle ragioni, come sempre, è rotta, quelle delle opinioni riporta piatti in equilibrio e la considerazione che fa ufficialmente pendere l’esito in favore della partecipazione è quella per la quale la rinuncia avrebbe decretato la vittoria al Cile di Pinochet, regalandogli, oltre alla Davis, un prestigio ulteriore, gratuito e immeritato. La squadra quindi alla fine parte, comunque tra mille giustissime perplessità e polemiche, vince ovviamente senza fatica e mostra, come unica forma di distanza verso l’avversario e il territorio in cui si disputa l’incontro il fatto di indossare una divisa rossa in luogo di quella tradizionale bianca, o tutt’al più azzurra, e di esultare per ogni piccolo game conquistato alzando il pugno chiuso. Per inciso, il capitano di quella compagine era Nicola Pietrangeli, pariolino e rampollo della destra romana, ma i due giocatori più rappresentativi, Adriano Panatta e Paolo Bertolucci, erano due giovani vagamente di sinistra.

Per concludere questa lunga digressione, possiamo tranquillamente sostenere che quella della conquista della Davis da parte italiana fu una brutta pagina, tipica ahimè di molti ambienti del cosmo sportivo, nella quale il tornaconto del successo calpesta di fatto la realtà politica, a volte coprendosi gli occhi altre volte, addirittura, spacciando le vittorie come riscatto sociale.

Sperando di essere incappati in poche imprecisioni, ma temendo di aver fatto troppe omissioni, avendo l’inguaribile vizio di fidarci troppo di una memoria in realtà molto logorata dall’età, abbiamo ancora un paio di argomenti spinosi da trattare venendo all’attualità, alla cronaca di questi giorni, appunto.

Uno è quello che concerne gli accordi commerciali tra società sportive, soprattutto calcistiche, e aziende collegate in modo imbarazzante, perfino in termini di sostegno economico diretto, con governi sanguinari, illiberali e genocidi come quello attuale di Israele. Coca-Cola, per esempio, è ‘Global Training Kit Partner’, in pratica il marchio pubblicizzato sulle maglie d’allenamento e sull’abbigliamento sportivo non agonistico, del Napoli, la squadra che ha vinto l’ultimo scudetto. Lo è dal 2022, quindi prima del 7 ottobre 2023, data d’inizio dell’ultima crisi di Gaza (ma solo dell’ultima…), ma solo un paio di mesi fa l’accordo con la bevanda la cui inconfondibile lattina rossa viene immortalata in mano ai soldati israeliani festanti sulle macerie e sui corpi carbonizzati o fatti esplodere dei palestinesi, è stato tranquillamente rinnovato. Anche l’Inter, proprio la squadra che ha conteso ai partenopei il recente successo in campionato, ha annunciato un paio di settimane fa l’avvio di un non meglio imprecisato accordo commerciale con la stessa Coca-Cola. Da quello che ci risulta, la notizia ha suscitato molte proteste da parte dei tifosi nerazzurri che hanno inviato diverse lettere di protesta, tra cui la nostra (link). L’intesa pare per il momento congelata, ma non ci è dato sapere se questo ritardo di annuncio ufficiale sia il frutto di queste rimostranze o, come temiamo, un semplice slittamento tecnico*.

L’altro aspetto con il quale concludiamo questo panorama è l’atteggiamento difforme, dicotomico, incoerente e schizoide che gli organismi sportivi ai massimi livelli, CIO, FIFA E UEFA, stanno avendo nei confronti del governo israeliano. Comportamento spesso raffrontato, forse impropriamente, a quello tenuto nei confronti degli apparati russi. La Russia, ricordiamolo ai pochi che lo ignorano, da quando è scoppiata la guerra con l’Ucraina, è stata immediatamente esclusa da ogni manifestazione sportiva a livello ufficiale, mentre, si sa, nessun provvedimento analogo è stato preso nei confronti di Israele. Questo nonostante il fatto che anche molte organizzazioni del settore si siano espresse proprio in questo senso. In modo secondo noi encomiabile, è intervenuta per esempio la Associazione Italiana Allenatori di Calcio chiedendo recentemente alla Federazione europea di escludere la squadre israeliane dalla competizioni continentali a livello di club e di nazionali. Ovviamente non ha ancora ricevuto alcuna risposta e, anzi, la stessa notizia di questa coraggiosa e giusta presa di posizione è stata ignorata dalla stragrande maggioranza degli organi di informazione, sia stampati che radiotelevisivi. Anche di quelli espressamente sportivi.

Si è comunque, per fortuna, sviluppato un dibattito tra gli appassionati, tra i tifosi, su questi argomenti, cominciando a lacerare quell’odioso sipario di disinteresse e di supponente superficialità dietro cui i padroni del vapore tentano di tenere il mondo dello sport, che deve rimanere veicolo di consenso e lontano da questioni sociali che non siano ad esso strettamente legate. Anzi, scusate la digressione, quando queste eventuali tensioni riguardano lo sport in ogni sua componente, tifosi organizzati, arbitri e altro, esse vengono enfatizzate distogliendo così l’attenzione da questioni ben più importanti. È un vecchio trucco…

Tornando a bomba, lasciando perdere alcuni pareri incredibili, forse alcolemici, come quello di Abodi, Ministro dello Sport del governo italiano, che equipara Israele all’Ucraina e non alla Russia, al paese aggredito, secondo la visione generalmente riconosciuta come vera, e non a quello aggressore, mettendo per un attimo da parte tutto ciò, secondo noi il parallelo in questo senso è mal posto. E anche chi si appella, e sono la maggior parte degli opinionisti, al fatto che non si possa accostare un conflitto, più o meno dichiarato, tra Stati sovrani a una diatriba, seppur gravissima, all’interno di un unico Stato, non coglie appieno il senso di questa sacrosanta richiesta di sanzione. Al di là del fatto che in un conflitto complesso come quello in corso nell’oriente europeo, questo onnipotente Organismo Disciplinare distingue tra i contendenti individuando il colpevole e l’aggredito, nella questione israeliana il parallelo va cercato altrove, dove si troverebbe il più calzante dei paragoni e il più clamoroso dei precedenti.

Come abbiamo già visto, infatti, nella carrellata storica sulle sanzioni sportive per motivi sociali, il provvedimento contro il Sudafrica razzista è quello cui fare riferimento per chiedere al CIO qualcosa di analogo. Allora, negli anni ’70, ’80 e, in parte, ’90 erano le persone di colore, autoctone tra l’altro, a essere vessate e trattate come oggetti da spostare o distruggere come a Soweto, oggi Israele fa la medesima cosa, in modo anche molto più cruento e disumano, contro i palestinesi, ovviamente autoctoni anch’essi.

Venendo alla cronaca sportiva spicciola, che è quella però più mediaticamente rilevante, è utile sapere che le Nazionali di calcio italiana e israeliana hanno in programma due incontri ufficiali, valevoli per i prossimi Mondiali. La prima gara è prevista già il prossimo 8 settembre a Debrecen, in Ungheria, dove Israele disputa, per motivi di sicurezza (…) le gare interne; la seconda si giocherà a Udine il 14 ottobre. Siamo molto curiosi di vedere cosa succederebbe se gli allenatori italiani, in coerenza con il loro recente comunicato, mettessero in discussione la disputa di queste partite e se Gattuso, attuale trainer della Nazionale di fresca nomina e facente parte, a tutti gli effetti, della sua associazione di categoria, dichiarasse di non scendere in campo né in Ungheria né in Friuli. Sarebbe una vera bomba mediatica e sarebbe, a nostro avviso, ciò che ci vorrebbe perché la questione palestinese uscisse definitivamente da quel cono d’ombra in cui, in gran parte, è ancora relegata in Italia.

L’ultima annotazione riguarda il fatto che anche in ambito cestistico è molto probabile che Italia e Israele si debbano affrontare prossimamente, nell’ambito della seconda fase dei Campionati Europei in programma in Grecia. Non so se e come gli allenatori di basket si siano espressi su Gaza e dintorni, ma conosco bene, per conoscenza diretta, come la pensino diversi giocatori della squadra italiana. E la pensano bene…

Mentre scriviamo queste righe conclusive, arriva la notizia che anche il Bologna di calcio, impegnata in una coppa europea, dovrà incontrare il Maccabi Tel Aviv e Renzo Ulivieri, vecchio compagno e Presidente di quella Associazione Allenatori di cui sopra, abita proprio a Bologna…

Giuseppe Raspanti

*Proprio nel momento di licenziare questo articolo, ci giunge notizia che purtroppo l’accordo è stato effettivamente siglato.


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