Dal 7 ottobre 2023, 46.700 palestinesi sono stati uccisi e più di 110.000 feriti, molti dei quali con danni permanenti.
11.000 bambini. 612 operatori sanitari. 190 giornalisti e operatori dei media.
Gaza è stata rasa al suolo.
Le strutture civili di oltre due terzi del territorio, che ospitava circa 2 milioni e centomila persone, sono state distrutte o danneggiate.
Le infrastrutture essenziali, tra cui ospedali, scuole e sistemi idrici, demolite.
Quasi tutti gli edifici scolastici sono stati colpiti, lasciando 660.000 bambini senza istruzione formale da oltre un anno.
Attualmente, il 90% della popolazione di Gaza è sfollata, con molti costretti a vivere in tende.
La fame e le malattie falcidiano i sopravvissuti all’olocausto.
Questo è il bilancio militare, provvisorio, di 15 mesi di guerra.
Cifre in difetto perché è difficile sotto le bombe che cadono quotidianamente anche contarli i morti.
Sul fronte opposto sono stati uccisi 1.546 israeliani e cittadini stranieri, inclusi 346 soldati caduti a Gaza.
Dei 251 ostaggi presi da Hamas il 7 ottobre la metà sono morti.
60 sono ritenuti ancora in vita e sono l’ultima carta in mano ai “guerrieri di dio” per continuare a svolgere un ruolo di protagonisti in una guerra in cui sono stati solo degli utili idioti.
In fondo al calice amaro di una sconfitta annunciata il “premio di consolazione” pagato a carissimo prezzo.
Un migliaio di palestinesi liberati che dovranno sbrigarsi a scappare dalla loro terra se non vorranno diventare il bersaglio dei prossimi assassinii mirati dello Shin Bet.
Netanyahu, del resto, si è portato avanti col lavoro e dei 10.400 palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane, la metà sono stati catturati dopo il 7 ottobre.
Uno scambio che servirà solo a zittire l’opinione pubblica israeliana e, una volta concluso, senza più i familiari dei rapiti che rivendicano la liberazione dei loro congiunti, darà mano libera a Netanyahu per saldare i conti in Cisgiordania e chiudere definitivamente la partita.
Perché dopo Gaza toccherà a loro.
Coi coloni sponsorizzati e sostenuti da Trump pronti a prendere possesso della West Bank.
È il bilancio di un DISASTRO MILITARE senza precedenti, chiuso con una tregua che è solo una resa senza condizioni che aprirà la strada a nuovi disastri e a nuovi genocidi.
Il ministro degli Esteri della repubblica degli ayatollah, che questa guerra l’hanno voluta e sostenuta, Abbas Araghchi, ha dichiarato che “la resistenza palestinese” ha costretto Israele ad accettare l’accordo, definendolo una “vittoria della resistenza e del popolo palestinese” contro Israele nella guerra a Gaza.
Se non ci trovassimo di fronte a un immane massacro lo subisseremmo di pernacchie, ma non si ride sui morti anche di fronte alla demenza criminale di una canaglia reazionaria che, come tutte le canaglie fasciste (Netanyahu compreso), ha trovato nella guerra l’unica possibilità di sopravvivenza.
La sorte del popolo palestinese è segnata.
I pochi sopravvissuti al genocidio faranno la fine degli indiani d’America. La nazione palestinese quella della nazione Dakota.
Chiusi in qualche riserva sotto tutela di qualche interessato protettore, “minoranza nazionale” in via di rapida estinzione.
Lo abbiamo detto e ripetuto, la guerra fra popoli costituiti in nazione che lottano per la conquista dello stesso territorio non prevede nessuna soluzione di compromesso.
C’è chi vince e chi subisce una catastrofica disfatta.
E vince sempre il più forte.
Chi, nelle particolari condizioni storiche, è in grado di imporre la propria volontà.
Qualsiasi osservatore si sarebbe accorto, già 15 mesi fa, che, mentre non c’erano le condizioni per la creazione di una Palestina “dal fiume al mare”, c’erano TUTTE le condizioni per la costruzione della “Grande Israele” che avrebbe spazzato via ogni velleità nazionale e la stessa presenza araba in quella regione.
Le forze materiali che fanno la storia se ne fottono degli schemini ideologici in cui i santoni delle rivoluzioni, sempre annunciate e mai praticate, vogliono rinchiudere il movimento reale.
Non c’è stata nessuna rivoluzione nazionale, nessuna resistenza, nessuna intifada.
C’è stata la guerra fra l’integralismo islamista e l’integralismo sionista.
Una guerra dentro la quale i palestinesi hanno svolto il ruolo che gli era stato assegnato dalle sue direzioni politiche.
Il ruolo di vittime sacrificabili, di “martiri”.
Una guerra iniziata con una azione di propaganda armata di un gruppo settario che ha agito dichiaratamente in nome di interessi che nulla avevano a che vedere coi reali interessi del popolo palestinese.
Una azione suicida di massa, folle agli occhi di un politico razionale, sia pure nazionalista, ma perfettamente lucida e consequenziale nella logica dei suoi registi.
Oggi del “fronte della resistenza” guidato dai preti neri di Teheran non è rimasto nulla.
Hamas e Hezbollah decimate e decapitate.
Persa la Siria, perso il Libano.
L’Iran attanagliano da una crisi economica senza precedenti con una opposizione interna soffocata nel sangue ma non domata.
La Russia che lascia i suoi alleati in balia degli eventi, troppo impegnata a mettere ordine nel suo cortile di casa.
Sconfitta militare di cui gli arabi della Palestina hanno pagato il prezzo più alto.
Ma ancora più alto sarà il prezzo politico che pagheranno nei prossimi anni.
L’aver legato il proprio destino alle sorti della “rivoluzione islamista” li ha condannati all’isolamento proprio rispetto alle masse popolari e alle forze progressiste della regione che, contro i regimi reazionari frutto dell’integralismo islamico conducono la loro lotta per la sopravvivenza.
Chi, in Italia, aveva scommesso sulla rivoluzione islamista, sull’insurrezione delle masse arabe, chi aveva scritto sui documenti del suo partito: … col popolo palestinese “INDIPENDENTEMENTE DALLA NATURA POLITICA DELLE SUE DIREZIONI”, di fronte al disastro epocale in cui quelle direzioni hanno condotto quel popolo, oggi tace.
Mentre le quarte file che in questi mesi si sono agitate a caccia di “agenti del sionismo” e “amici degli imperialisti” riesumano la vecchia favoletta, sempre buona quando si tratta di scaricare sugli altri la propria miopia e il proprio codismo, della “resistenza tradita”.
C’é sempre un “traditore” quando le farneticazioni, spacciate per analisi, ti conducono a un vicolo cieco.
Una sinistra di classe capace di partire dagli interessi reali del proletariato mediorientale non c’è stata.
Non ce ne erano le condizioni, certo.
La Palestina “laica e socialista” non ha gambe su cui marciare. E non potevano certamente dargliele i tagliagole al servizio delle monarchie reazionarie e le borghesie locali al soldo delle potenze imperialiste e dei loro interessi.
Occorre che il proletariato si nutra fino alla nausea delle illusioni nazionaliste prima che prenda coscienza che un altro approccio è possibile.
Che paghi col sangue e con le sconfitte il miraggio di essere classe nazionale, diviso dagli altri proletari e al servizio dalle proprie borghesie che lo usano come carne da macello.
Nessuno fa il “maestro” e pretende di indicare la strada a ciò che rimane del popolo palestinese.
Sarà l’esperienza, quella che hanno fatto e quella che faranno, a insegnare loro il percorso da seguire.
Come è sempre stato nel corso della lunga storia delle classi dominate.
In quanto alle mosche cocchiere che hanno cavalcato un pogrom reazionario, che è stato l’alibi per la SOLUZIONE FINALE della questione palestinese, spacciandolo per rivoluzione popolare e nazionale, è già troppo quello che abbiamo detto in questi lunghi mesi.
Il cavallo alla cui coda si erano aggrappati li ha disarcionati e li ha fatti finire nella cacca. Ci rimangano.
E se ne sono capaci continuino a dormire il sonno degli inutili idioti.
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