La memoria non è ricordo. Non è nemmeno nostalgia o, peggio, mitologia. E’ tensione verso il futuro. La memoria ha un senso se è declinata al presente e al futuro: se serve a mantenere aperta una possibilità di trasformazione radicale della società. A 50 anni dalle ore e dai giorni successivi alla Strage, la memoria fa riemergere le parole, diventate indicazioni e azioni politiche, dei sindacati e partiti del cosiddetto arco costituzionale contro un movimento sociale antifascista che andasse oltre il sistema istituzionale: bisognava circoscriverlo, contenerlo e isolarlo. E questo si vide anche per non pochi anni successivi arrogandosi il monopolio della memoria, però da subito pacificata. A 50 anni dalla Strage ci è toccato ancora una volta sentire da uno storico, in voga nell’attuale ex sinistra istituzionale, sostenere – nell’ennesimo inutile
convegno commemorativo – che non fu una strage di Stato. E a quanto pare, per tale personaggio, la Nato è una categoria dello spirito. La nostra memoria è altro: è materia viva, scomoda, non imbalsamata dalla retorica. A questo proposito pubblichiamo alcuni articoli scritti negli ultimi anni – tratti dai siti Communia e Connessioni Precarie – di Felice Mometti, presente in piazza il 28 maggio ’74 e nelle assemblee
e mobilitazioni dei giorni successivi.
Strage di Brescia: la memoria come anestetico ideologico
di Felice Mometti, 24 maggio 2014
In questo quarantennale della strage di p.zza Loggia non ci si fa mancare nulla. Incontri, convegni, concerti, manifestazioni, happening, mostre, spettacoli teatrali.
Tutto, si dice, all’insegna della verità e della memoria. La verità giudiziaria che potrebbe uscire (quando?) dalle aule dei tribunali non avrà più alcun effetto politico. La verità storica, e cioè quell’intreccio di mandanti ed esecutori tra apparati dello Stato, servizi segreti della Nato e neofascisti, si conosce da anni ma si fa di tutto per dimenticarla.
Cosa resta? Rimane l’ossessione commemorativa, l’uso ideologico di una memoria sterilizzata, le passerel-le di politici e sindacalisti e un po’ di folklore storiografico sui giornali locali. C’è da scommettere che assisteremo anche alla solita ipocrisia dei commenti preoccupati di fronte ai risultati dell’indagine del Censis rivolta agli studenti. La maggioranza relativa (37%) degli studenti bresciani pensa che la strage
sia stata opera della mafia. Il 28% del “terrorismo rosso” e il 26% de “terrorismo nero”. In una medesima indagine del Censis nel 2004 gli studenti bresciani risposero che i responsabili della strage furono nell’ordine: il “terrorismo rosso” per il 28%, il “terrorismo nero” per il 26%, la mafia per il 16%. Tra 15 giorni tutto sarà dimenticato e tutto tornerà come prima. Rimarrà solo l’uso strumentale di una memoria ormai istituzionalizzata al servizio di una casta politica e sindacale.
Nel 1974 la possibilità di affermare la verità politica sulla strage è sfumata nel giro di qualche settimana. L’operazione di depotenziare e incanalare istituzionalmente la mobilitazione popolare e la rabbia sociale e di rilegittimare la parte “migliore” della Democrazia Cristiana è stato il “capolavoro” politico del Partito Comunista e delle organizzazioni sindacali. La rappresentazione plastica di tutto ciò si è potuta vedere
nell’immagine dei funerali delle vittime delle strage alcuni giorni dopo. Un imponente servizio d’ordine “sindacale” che nega l’accesso in p.zza della Loggia, dove si svolgono i funerali, a migliaia di giovani delle organizzazioni e associazioni della sinistra radicale, garantendolo invece alla delegazione della Democrazia Cristiana. Un piccolo episodio certo, ma di grande valenza simbolica che anticipò la strategia dei giorni successivi: disinnescare un movimento popolare che poteva travalicare gli assetti politici e istituzionali. La giustizia e la verità furono sconfitte in quei giorni impedendo che le mobilitazioni si trasformassero in ipotesi concrete di cambiamento.
L’antifascismo venne confinato tra una pratica nostalgica e un’imbalsamazione politica.
Non è un caso che in questi quarant’anni dalla strage il tema meno discusso e analizzato ma allo stesso tempo il più “mitizzato”, sia stato ciò che è accaduto nei quindici giorni dopo la strage. Si arrivò a parlare di autorganizzazione sociale e qualcuno addirittura di ’68 bresciano. Nel migliore dei casi si scambiarono i desideri con la realtà. Quel che avvenne negli anni successivi, dalla mancata costituzione di parte civile del Comune di Brescia fin dal primo processo agli incredibili silenzi del Ministro dell’Interno, Napolitano, alla richiesta di apertura degli archivi dei servizi segreti, durante il primo governo Prodi a metà degli anni 90, si possono interpretare come un contorno, un corollario.
Dire che le verità storiche e la verità processuali non coincidono mai si corre il rischio di affermare una banalità. La memoria si declina sempre al presente e al futuro.
Questa è un tipo di memoria che non è trasmissibile con i racconti, con le udienze giudiziarie, con gli spettacoli retorici. Si può ricostruire e alimentare solo avendo la capacità di essere all’altezza delle mobilitazioni e delle riflessioni di oggi. E’ la capacità di guardare alla storia con gli occhiali della contemporaneità. Proprio quello che manca.
Strage di Brescia: le memorie di carta
di Felice Mometti 3 novembre 2014
Puntuali come orologi svizzeri sono arrivati i libri sulla strage di piazza della Loggia di Brescia in occasione del quarantennale. C’era da aspettarselo. Le ricorrenze e le commemorazioni sono da sempre occasioni che il marketing editoriale non si lascia sfuggire. Ma l’impressione è che più passa il tempo meno si rifletta e sempre più si abbia a che fare con rimasticature e assemblaggi di tesi preconfezionate.
Il nobile intento, dichiarato da tutti, di mantenere ‘viva e attiva’ la memoria del 28 maggio 1974 si tramuta, spesso, nell’ennesima ricostruzione dei fatti sulla base delle carte processuali. La questione di come la memoria del passato si attualizzi nel presente, argomento che non attiene a istruttorie né a processi, non viene mai affrontata. Viene rimossa, dimenticata. Il motivo è semplice: si dovrebbe definire di quale memoria si parla e che cosa sia, oggi, il presente. Meglio stracciarsi le vesti per la mancanza di colpevoli materiali, per gli ostacoli frapposti alla ‘giustizia’ dai cosiddetti poteri occulti, per una ‘verità’ quasi a portata di mano e mai afferrata. Poco o nulla viene detto sulla reale posta in gioco del conflitto sociale di quegli anni, sulla natura dello Stato in quanto detentore del ‘monopolio della violenza legittima’, sull’azione concertata messa in campo – già nelle ore successive la strage – dai grandi
partiti e dalle organizzazioni sindacali per incanalare istituzionalmente la protesta e quindi «circoscrivere la pressione dei contestatori», come ebbe a scrivere un po’ di anni dopo Adelio Terraroli che, al tempo della strage, era parlamentare e dirigente di primo piano del Pci bresciano.
La storia come reality
Il libro di Benedetta Tobagi, Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita, ha il taglio e il tono di un reality. La storia e i conflitti politici sono derubricati a intrecci psicologici di un insieme di vicende personali, pur nella loro tragicità. Una narrazione in cui l’autrice attribuisce ruoli e simula contesti
subordinandoli in gran parte al suo esercizio di stile letterario. Tra l’altro, en passant, non perde occasione di informarci delle sue frequentazioni culturali a Parigi, Londra e New York. La durezza dello scontro sociale di quegli anni è ogni tanto evocata per poi essere subito, implicitamente, incasellata nel solito teorema che postula un’evoluzione lineare dello scontro di classe in terrorismo. Certo Tobagi parla
anche di apparati dello Stato che hanno depistato le indagini, ma con un certo stupore che deriva dal non capacitarsi di come la cosiddetta ragion di Stato sia stata usata come una clava contro i cittadini «di cui lo Stato è fatto». Non si rifugia, come spesso è accaduto e troppi hanno fatto, nell’ immagine dei servizi segreti ‘deviati’, ormai improponibile, ma in quella di «uno Stato tradito da chi avrebbe dovuto servirlo».
Nella «disattenzione interessata» del Servizio Informazioni della Difesa. La Nato più che una struttura politico-militare, dalle cui basi italiane sono uscite grandi quantità di esplosivo, pare una categoria dello spirito che aleggia ogni tanto tra le pagine del libro. E fin qui siamo ancora alle parole già sentite molte volte con lo scopo di non fare i conti fino in fondo e quindi prendere sul serio il termine ‘strage di Stato’. Dove invece si registra una vera e propria caduta di stile, diciamo così, è quando si descrive un’iniziativa politica promossa il 13 luglio del 1974 in piazza della Loggia da alcuni settori della sinistra radicale, denominata «Processo popolare contro gli assassini fascisti e i loro mandanti». Un’iniziativa discutibile fin che si vuole, condivisibile o meno, ma che Tobagi – pur definendola «una curiosa pantomima» in cui «i
manifestanti, per fortuna, si limitano all’invettiva» – usa per dimostrare una sorta di contiguità tra quel ‘processo popolare’ e quelli dal «volto orrendo e deforme» messi in scena dalle Brigate Rosse. Tra le righe si insinua che anche gli oppositori al «compromesso storico» abbiano, in modo inconsapevole, fatto il gioco di chi voleva il «blocco d’ordine». Insomma, per Tobagi, la cornice è quella dell’album di famiglia
della lotta armata. Non ci sono state scelte politiche, analisi dello scontro con lo Stato, dinamiche sociali che hanno operato, in un senso o nell’altro, drastiche soluzioni di continuità. Come se tutto fosse già stato scritto in un lento scivolare verso la ‘barbarie di sinistra’. Una convinzione, se non un’ossessione, anche di Martinazzoli – ultimo segretario della Democrazia Cristiana, più volte ministro e sindaco di Brescia – che in più occasioni ha sostenuto che ai funerali delle vittime della strage erano sicuramente presenti «quelli che diventeranno il cervello delle Brigate Rosse». E quindi, con queste premesse, la memoria che cos’è? Come si trasmette? Tobagi ha pochi dubbi. La memoria per «cementare l’intesa tra le
generazioni» consiste nel «saper sentire il peso dell’ingiustizia che preme sulle pareti del cuore e accet-tare di sostenerlo anziché scrollarlo via» perché «è un marchio di umanità». Troppo poco anche per un reality. Come se l’umanità avesse e avesse avuto dei valori condivisi e il concetto di giustizia non risentisse del posto che si occupa in una gerarchia sociale.
Il polpettone ideologico
Bisogna sempre diffidare dei decostruttori dell’ideologia altrui che in passato è stata anche la loro. Gli strumenti che usano non sono mai neutri, sono più carichi di ideologia delle ideologie che vogliono criticare. È il caso del libro di Pino Casamassima Piazza Loggia. Brescia, 28 maggio 1974. Inchiesta su una strage, attraversato da una ricostruzione ideologica della memoria con l’intento, a dir poco pretenzioso, di consegnarla al futuro «con parole precise. Nero su bianco». In un accavallarsi di citazioni di Gramsci, Arendt, Hegel, Benjamin, la Scuola di Francoforte – che in gran parte contraddicono le tesi dell’autore – ed evocando ogni tanto anche Severino, viene confezionato un vero e proprio polpettone in modo che
risulti complicato risalire agli ingredienti di base. Lasciando da parte l’abusata retorica di Casamassima che dice di svestirsi «di ogni giudizio e pregiudizio» e di porsi come un alieno che chiede «Cos’è successo a Brescia il 28 maggio 1974?», come se negli ultimi quarant’anni fosse vissuto su un altro pianeta, il nocciolo duro della sua ideologia è un altro. Ciò che dà la vera cifra al suo «metodo laico» è il richiamo al
periodo di De Gasperi «con le sue estensioni politiche arrivate alle soglie del nuovo decennio dei Sessanta» in cui «l’equilibrio del sistema era garantito da una democrazia parlamentare di stampo liberale». Infatti la legge-truffa, i morti causati dalla polizia di Scelba, i protocolli segreti sulla Nato firmati da De Gasperi, il feroce autoritarismo sui luoghi lavoro negli anni ’50 a quanto pare, per l’autore,
sono state solo delle costruzioni ideologiche (di altri) dalle quali emanciparsi. E l’emancipazione avviene dando «voce anche a loro, ai fascisti. A quelli che sentivo innocenti, ma anche – soprattutto – a quelli che sapevo colpevoli». Nulla di scandaloso in questo se si mettono i panni dello storico. Banalmente ideologico se viene usato per giustificare una tesi precostituita che accomuna ‘estremisti’ di destra e
sinistra prigionieri, in maniera speculare, dello stesso immaginario politico, elevando a paradigma il proprio microcosmo personale e territoriale, la Salò dei primi anni ’70, a paesaggio politico nazionale. Il tutto viene poi collocato solo all’interno di una ‘scena eversiva’ neofascista, con qualche aggancio con servizi segreti, che aveva come obiettivo abbattere la democrazia parlamentare e instaurare un regime militare. I servizi segreti vengono descritti, a seconda delle situazioni, come entità onnipotenti oppure come luoghi popolati da personaggi da fumetto. E della memoria cosa rimane?
Per Casamassima sembra più coincidere con una «voce sommessa della coscienza» confinata in un’etica astratta, cioè con uno degli elementi costitutivi dell’ideologia che giustifica l’assetto dell’attuale società. Che poi fa il paio con la memoria istituzionalizzata oggetto delle commemorazioni ufficiali.
Il potere incompatibile
Di tutt’altro valore la raccolta degli scritti, che coprono il periodo tra gli anni ’80 e ’90, di Norberto Bobbio La strage di piazza della Loggia. Il filosofo torinese, nei saggi e negli articoli contenuti del libro, ci dà un breve sunto della sua teoria politica applicata alla strage di Brescia. La mano degli esecutori e la mente dei mandanti sono state mosse «dall’indifferenza al male» e la strage tra le possibili forme di violenza è
quella che più si avvicina alla «violenza assoluta». Ma perché ciò è stato possibile? La risposta di Bobbio è piuttosto debole, costringendolo a chiedere soccorso alla teoria degli arcana imperii che risale all’Impero romano, poi ripresa dai fautori dello Stato assoluto. La democrazia italiana è stata caratterizzata per decenni dalla compresenza di tre livelli di governo: il governo politico, il sottogoverno e il cripto-governo.
Quest’ultimo come parte invisibile e segreta del potere ha funzionato come un «principe» che prende «decisioni nella più assoluta segretezza perché il volgo disprezzato» non deve conoscere e avere accesso ai reali strumenti del potere. E la strage in quanto sconfitta della democrazia, intesa da Bobbio come il regime in cui il potere viene controllato e limitato dalla costituzione, è stata possibile per mancanza di trasparenza e, in ultima analisi, per la mancata applicazione integrale della costituzione. Da una situazione del genere, secondo Bobbio, si può uscire dichiarando il potere invisibile del cripto-governo incompatibile con la democrazia. Il ragionamento di Bobbio sembra svolgersi in un vuoto pneumatico in cui non
esistono rapporti di forza tra classi e settori sociali, scontri di potere e lotte per l’egemonia. Infatti non arriva mai ad affrontare realmente la natura di quel potere che descrive su tre livelli e il motivo della sua continua riproduzione. Un pensiero, quello di Bobbio, che viene messo sotto scacco dalla concreta dinamica dei rapporti politici, sociali e di produzione che possono essere molte cose e assumere molte forme ma non possono essere «costituzionalizzati» e ridotti a una procedura definita.
La memoria del futuro
Dopo quarant’anni, cinque istruttorie e una decina di fasi di giudizio bisogna ancora aspettare che la verità emerga da un’aula giudiziaria? La verità storica e politica si conosce da decenni. Non sono stati i complotti o le ‘deviazioni’, che pure ci furono, le cause della strage. È stato il funzionamento ‘normale’ di uno Stato, dei suoi apparati, dei suoi alleati internazionali politici e militari, che di fronte al pericolo
di un conflitto sociale che li metteva radicalmente in discussione hanno reagito con le bombe per stabiliz-zare una situazione, giudicata dal loro punto di vista, fuori controllo. Contano relativamente ormai il ruolo di chi concretamente ha messo la bomba e l’uso strumentale di formazioni neofasciste che non aspetta-vano altro per passare all’azione. Il ciclo di lotte apertosi alla fine degli anni ’60 del secolo scorso andava fermato, bloccato, anche perché poteva assumere forme e dimensioni, come in parte è stato, che andavano oltre la capacità e la possibilità di mediazione dei partiti e dei sindacati della sinistra. In questo senso anche la strage di Brescia è una strage di Stato com’è stata quella di piazza Fontana.
La memoria, quindi, non è il ricordo di un passato congelato e immobile. La memoria vive nel presente e nel futuro altrimenti è solo pratica nostalgica e imbalsamazione liturgica. La memoria non è la ripetizione di un racconto oppure l’indignazione retroattiva, la memoria si declina al presente che ne determina le
modalità, la selezione degli eventi, la loro interpretazione, le loro ‘lezioni’. Per Benjamin è pura illusione considerare «l’accaduto» come una sorta di punto fisso al quale ci si potrebbe avvicinare attraverso una ricostruzione mentale a posteriori.
Ma la memoria si «attiva» anche al futuro. Avere memoria del futuro a prima vista può apparire solo un ossimoro. Se invece la si guarda come possibilità di una nuova soggettivazione politica che fa i conti con le recenti trasformazioni delle classi, dei poteri e degli Stati, anche la strage di Brescia sarà liberata dalle ossessioni commemorative.
Brescia: la strage e la memoria oltre il mito
di Felice Mometti, 7 giugno 2021
La memoria si declina sempre al presente e il mito è una macchina che congela un passato immaginario. A 47 anni dalla strage di piazza della Loggia a Brescia la macchina mitologica ha fagocitato la memoria tanto che mito e memoria sono diventati indistinguibili. I percorsi che mettevano in relazione le esperienze vissute con le esperienze trasmesse si sono interrotti da decenni. È il caso anche dei giorni
successivi alla strage di Brescia che nella memoria-mito vengono definiti quelli «dell’autogestione della piazza». Alcuni vi hanno intravisto anche «l’autogestione della città», altri hanno parlato addirittura di un «Sessantotto bresciano». Oggi cosa rimane oltre il mito coltivato in sempre più ristrette cerchie? Solo le testimonianze che – nella loro inevitabile e legittima parzialità ‒ si sforzano di guardare al passato con gli occhi del presente per mantenere una memoria non sepolta sotto la commemorazione dei ricordi.
28 Maggio 1974
Piazza della Loggia. Lo sciopero di quattro ore indetto dai sindacati non vede una grande partecipazione, anche per la giornata di pioggia. I previsti quattro concentramenti si riducono a tre, è annullato quello di piazzale Arnaldo, due giorni prima. La piazza ha parecchi spazi vuoti, non ci sono più di duemila persone. Alle 10.12 esplode la bomba facendo subito sei vittime. Sono quattro insegnanti, un pensionato e un operaio. Alcune decine di minuti dopo lo scoppio della bomba un gruppo di studenti urla che la strage è fascista e che bisogna andare alla sede del MSI in quanto responsabile politico se non materiale della strage. Il gruppo viene bloccato, all’uscita dalla piazza, da un servizio d’ordine improvvisato di funzionari sindacali, militanti del PCI e della FGCI.
Ore 11. Riunione presso la sede della Provincia dei rappresentanti della Democrazia Cristiana, del Partito Socialista e del Partito Comunista. I contenuti della riunione sono riassunti da Ettore Fermi, esponente di primo piano del PSI e segretario del Comitato Unitario Permanente Antifascista (CUPA): «Arginare ulteriori effetti che andassero nella stessa direzione ma anche la reazione della popolazione e dei comitati che si erano organizzati altrove che potevano recarsi a Brescia e creare situazioni di tensione».
Ore 16. Piazza della Loggia. Sotto il porticato del Palazzo della Loggia gli attivisti del Circolo La Comune espongono dei pannelli con le fotografie della strage, scattate al mattino, accanto ai nomi e alle foto dei fascisti più noti in città. Nascono discussioni accese con funzionari sindacali e di partito sull’opportunità di esporre i corpi straziati dalla bomba e i volti dei fascisti. Nella notte mani anonime faranno sparire alcuni pannelli che verranno rimessi al loro posto il giorno dopo.
Pomeriggio. Dalla Questura partono gli ordini di perquisizione di una serie di abitazioni di militanti della sinistra suscitando molte proteste. Il Questore poi parlerà di un errore inspiegabile.
Ore 17. Camera del Lavoro. Inizia un’assemblea di lavoratori e delegati, aperta agli studenti e alle forze politiche, che deve decidere le iniziative dei giorni successivi. La partecipazione è altissima tanto che molti, la maggioranza, non riescono a entrare nella sala. La proposta di occupare giorno e notte fabbriche e scuole almeno fino ai funerali di tre giorni dopo, avanzata da studenti e giovani lavoratori, viene bocciata.
Un ruolo decisivo lo gioca Giancarlo Pajetta della segreteria nazionale del PCI che, facendo pesare anche i suoi trascorsi di partigiano, interviene dicendo che «non è il momento di scelte non partecipate, che serve unità per difendere le istituzioni democratiche». Per Pajetta l’unità è incarnata, a pochi metri di distanza, da Ciso Gitti, Presidente democristiano della Provincia di Brescia. Le «indicazioni», così sono definite nel testo finale, per il giorno dopo prevedono un’occupazione, nei fatti simbolica, delle fabbriche dal mattino fino alle 18 per svolgere delle assemblee aperte e la continuazione dello sciopero fino alla mezzanotte. Prende forma una strategia di contenimento della temuta radicalità sociale e di controllo delle azioni
politiche. Si pongono le basi di una narrazione che ha al centro «la difesa delle istituzioni democratiche e l’unita dei partiti democratici».
29 maggio
Assemblee nelle fabbriche in occupazione simbolica. L’assemblea più importante, quella che «darà la linea», si svolge all’OM-FIAT. La maggiore fabbrica bresciana con quattromila dipendenti. Partecipano Luigi Bertoldi, ministro del Lavoro in quota PSI, Ugo Pecchioli, ministro dell’Interno-ombra del PCI e il deputato democristiano Michele Capra. Una sorta di quadretto-icona dell’unità dei partiti democratici che
deve prevalere su qualsiasi iniziativa autonoma che potrebbe essere intrapresa dagli operai. L’ordine del giorno, preconfezionato, che viene assunto è piuttosto generico e vago, non dice nulla come proseguire la mobilitazione nei luoghi di lavoro e nella città. Si propone a «tutti i lavoratori e alle forze democratiche iniziative atte a mettere fuorilegge il MSI-DN» riferendosi implicitamente all’applicazione delle leggi in
vigore, in modo particolare alla Legge Scelba del 1952. Stesso schema nell’assemblea pomeridiana dell’OM-FIAT: ordine del giorno generico e quadretto unitario di PCI-PSI-DC, questa volta con Terraroli-Balzamo- Gitti, dirigenti locali dei tre partiti. Di altro tenore la mozione approvata dall’assemblea dell’INNSE-Sant’Eustacchio dove interviene anche Franco Bolis della segreteria nazionale di Lotta Continua. L’assemblea della seconda fabbrica bresciana chiede la chiusura immediata delle sedi fasciste e la destituzione del Questore. Questa mozione non avrà effetti concreti, non varcherà i muri di quella fabbrica. Infatti si trattava, come ebbe a dichiarare Claudio Sabatini, allora segretario della FIOM di Brescia, non di occupare le fabbriche in modo «offensivo» ma di ricompattare i lavoratori e riprenderne la direzione politica.
L’Unità del 29 maggio riporta in prima pagina il comunicato della Direzione del PCI e il Documento dei sindacati. Il PCI fa appello «all’unità delle forze democratiche e allo spirito di lotta e di vigilanza delle masse lavoratrici e popolari, perché si esprima la volontà della Nazione ». Per i sindacati CGIL-CISL-UIL vanno perseguiti «i responsabili di questo disegno antinazionale». In altri termini si fa coincidere l’unità delle forze democratiche con l’unità nazionale. La cosa non sfugge al Ministro della Difesa Andreotti che, come riportano i verbali del Consiglio dei Ministri, rileva il modificato «atteggiamento recente del PCI che consente l’adozione di iniziative ieri impensabili». Andreotti vede la possibilità che la strategia del PCI del
compromesso storico possa concretizzarsi in un governo di unità nazionale, come accadrà due anni dopo. In molte città ci sono manifestazioni imponenti che spesso si concludono con l’assalto e la chiusura di decine di locali frequentati dai fascisti, di sedi del MSI, della CISNAL (il sindacato fascista), del «Candido» (settimanale neofascista). Ciò avviene, per fare solo degli esempi, a Milano, Roma, Napoli, Bologna, Genova, Bergamo, Perugia, ma non a Brescia. L’accordo con la Prefettura e il Ministero degli Interni regge: ai sindacati la gestione della piazza a patto che non accadano azioni o proteste rilevanti. Il servizio d’ordine sindacale con a fianco, non poche volte, poliziotti in borghese – come ammette anche Ettore Fermi, segretario del CUPA ‒ perquisisce e coordina l’ingresso in piazza delle delegazioni dei partiti, dei
consigli di fabbrica delle associazioni. La sera in p.zza della Loggia c’è un episodio, piccolo se si vuole, che però chiarisce il clima che si respira. Gli attivisti del Circolo La Comune arrivano in piazza con un proiettore e un telo di grandi dimensioni per mostrare una serie di diapositive a colori scattate pochi minuti dopo la strage. In un’intervista, Ken Damy, allora attivista de La Comune, racconta i fatti: «L’effetto
[delle diapositive] è micidiale… Si fa subito una ressa tremenda. Alcuni sindacalisti esuberanti si immedesimano in censori e volenti o nolenti, volano schiaffi e pugni, ci obbligano a interrompere la proiezione… Le fotografie [della strage, esposte il giorno prima sotto il porticato di Palazzo della Loggia] vengono spostate sul lato della piazza per poi sparire definitivamente il giorno dei funerali».
30 maggio
Nelle fabbriche si torna al lavoro. L’occupazione è stata brevissima e molto simbolica. Ci sono i funerali di Stato delle vittime della strage da organizzare. Il compromesso che viene raggiunto con Taviani, ministro dell’Interno, prevede che la gestione dei funerali sia affidata ai sindacati con la polizia nelle caserme e nel cortile della Prefettura, situata a un paio di centinaia di metri da Piazza della Loggia, pronta a intervenire. La presenza di Leone, Presidente della Repubblica, e Rumor, Presidente del Consiglio, impone un proto-collo da seguire. In piazza ci saranno solo agenti in borghese e i carabinieri delle scorte di Leone e Rumor. Ma la battaglia «campale» di quel giorno, spacciata come grande conquista dagli organizzatori, è la presenza di Luciano Lama, Segretario Generale della CGIL, tra gli oratori ufficiali. Viene deciso che la cerimonia funebre sarà aperta da una messa celebrata in piazza dal Vescovo di Brescia che, il giorno prima, aveva fatto affiggere manifesti in tutta la città a firma della Chiesa di Brescia in cui si imputava la strage allo «spirito di Caino», ricevendo critiche anche dalle comunità cattoliche di base. Intanto si continua a manifestare in molte città italiane ma non solo. Ci sono manifestazioni a Francoforte, Ginevra,
Zurigo e Parigi. Ed è proprio a Parigi che c’è una manifestazione di alcune migliaia di persone che si conclude al cimitero di Pere Lachaise, con l’intervento di Alain Krivine– uno dei leader del Maggio francese ‒ davanti al Muro dei Federati dove furono fucilati i combattenti della Comune di Parigi.
Ma la strage è solo fascista o anche di Stato? Questa è la domanda che circola da alcuni giorni a Brescia. Ci pensa l’Unità del 30 maggio a dare una risposta che verrà poi fatta propria, per anni, dalla grande maggioranza dei militanti politici e sindacali della sinistra bresciana. Il giornale del PCI riporta, in prima pagina, la dichiarazione del segretario generale Berlinguer in cui chiede al governo «un orientamento preciso che impegni tutti gli organi e i servizi dello Stato a operare in conformità del dovere
costituzionale e delle leggi della Repubblica». Non c’è alcun appello alla mobilitazione. In altri termini il pericolo è solo fascista e il governo non fa abbastanza per coordinare gli apparati dello Stato. In fondo a pagina 5, c’è un piccolo trafiletto dal titolo: «Isolati incidenti in alcune città». Le decine di luoghi di ritrovo e sedi fasciste chiuse da cortei con migliaia di persone diventano «marginali tafferugli in cui sono stati coinvolti gruppetti in genere poco numerosi di giovani extraparlamentari».
31 maggio
Nel giorno dei funerali i sindacati proclamano quattro ore di sciopero per permettere la partecipazione. Brescia è invasa da 500mila persone, più del doppio della sua popolazione. Il servizio d’ordine del sindacato filtra l’ingresso in una piazza che non può contenerne nemmeno un decimo. Protegge l’entrata della delegazione della Democrazia Cristiana con tanto di bandiere e blocca nelle vie laterali un corteo di
migliaia di attivisti della sinistra extraparlamentare, come allora veniva definita.
Quando dal palco viene annunciata la presenza di Leone e Rumor dalla piazza partono una marea di insulti e bordate di fischi. La stessa sorte tocca a Bruno Boni, sindaco di Brescia, durante il suo discorso. Il filtro del servizio d’ordine non è servito. La rabbia e l’indignazione non erano limitate alla sinistra extraparlamentare, erano i sentimenti della maggioranza della piazza. Terminata la cerimonia in piazza, le bare delle vittime vengono portate in corteo al cimitero seguendo la via più breve possibile.
Migliaia di attivisti della sinistra extraparlamentare, provenienti da varie città, seguono un altro percorso: si dirigono verso alcuni locali frequentati dai fascisti e li chiudono. C’è anche il tentativo di assalto alla sede provinciale della Democrazia Cristiana.
1 e 2 giugno
Sono i giorni delle analisi e delle valutazioni. Piazza della Loggia continua ad essere il centro degli incontri e delle discussioni. Per l’«Avanti», il giornale del PSI, è come se il giorno precedente non fosse successo nulla. Nessuna contestazione, nessun corteo fuori dal percorso ufficiale. Per l’Unità solo durante il discorso del Sindaco di Brescia ci sono state delle: «inopportune interruzioni di alcuni gruppetti» coperte però dagli «applausi della maggior parte dei presenti». E poi in fondo a pagina 3 un trafiletto dal titolo: Isolati e senza conseguenze i tentativi di estremisti di provocare il caos in cui si stigmatizza «il tentativo di qualche sparuto e isolatissimo drappello di estremisti di provocare la rissa e seminare la confusione». Le discussioni in piazza sono difficili e complicate. Per molti militanti sindacali e dei due partiti della sinistra
istituzionale valgono molto di più i resoconti dei due giornali rispetto alla loro esperienza vissuta in prima persona. Ma è sulla prima pagina dell’«Avanti» del 2 giugno in cui si mostra, pur avendo intenzioni opposte, che il re è nudo.
Nell’editoriale, a nove colonne, il deputato socialista bresciano Vincenzo Balzamo, che in quei giorni ha svolto un ruolo di primo piano nella gestione negoziata di Piazza della Loggia e dei funerali, scrive che a Brescia il popolo italiano ha difeso la libertà e i diritti senza concedere nulla all’impulso e all’ira: «lo prova la compostezza con la quale cinquemila operai ed ex partigiani hanno contribuito a garantire l’ordine
pubblico dopo la strage. Non una sola sede del Movimento Sociale è stata toccata, non un gesto di minaccia è stato rivolto nelle fabbriche occupate contro i padroni neri, quelli che notoriamente finanziano i gruppi fascisti locali e lombardi».
3 giugno
È il giorno del funerale di Luigi Pinto, settima vittima della strage, deceduto dopo alcuni giorni di agonia. L’ottava vittima, Vittorio Zambarda, morirà il 16 giugno per le ferite riportate. I sindacati proclamano tre ore di sciopero. Al funerale partecipano circa 25mila persone e la sensazione generale è che una fase si sia chiusa già nei due giorni precedenti. Inizia il Comitato Centrale del PCI che proseguirà fino al 5 giugno.
La relazione iniziale e le conclusioni di Berlinguer hanno al centro la proposta di un «governo di svolta democratica» che non è «un’alternativa laica, ma la ricomposizione di una unità reale tra lo grandi componenti popolari e democratiche del Paese». Nella sostanza un’accelerazione del compromesso storico con la DC e il PSI dopo la vittoria nel referendum sul divorzio il 12 maggio e i giorni dopo strage di Brescia, perché questi due eventi «ci dimostrano che in Italia la democrazia è forte, più forte di quanto
lo sia mai stata dalla Liberazione ad oggi». Berlinguer delimita in modo rigido il campo delle responsabilità della strage: sono stati i fascisti vecchi e nuovi e il partito Comunista è ben lontano «dal rivolgere accuse o critiche indiscriminate all’insieme degli organi e degli apparati dello Stato». La risoluzione finale è votata all’unanimità.
8 giugno
In piazza della Loggia c’è Adriano Sofri, segretario di Lotta Continua. Per la prima volta in quella piazza si sente dire in un discorso pubblico che l’intreccio tra apparati dello Stato, neofascismo e MSI sta alla base della strage. Non ci sono «deviazioni» dei servizi segreti, quello è il loro modo di funzionare. Nel suo discorso, Sofri pone la questione della relazione tra lotta antifascista e lotta anticapitalista riprendendo la
mozione approvata dall’assemblea del INNSE-Sant’Eustacchio. Ma al tempo stesso si rende conto che nel giro di pochissimi giorni la situazione è cambiata e la finestra delle possibilità del conflitto sociale, aperta tra il 29 e il 30 maggio, si è rapidamente chiusa. C’è quasi un senso tragico nelle parole di Sofri. Di fronte a una strage come quella di Brescia che colpisce una manifestazione sindacale e alla potenzialità espressa nei giorni successivi non si è stati all’altezza della necessaria risposta politica e sociale.
La memoria è una materia viva
Le autogestioni delle città o parti di esse, se le parole hanno anche un significato, dovrebbero basarsi su un contropotere riconoscibile e alternativo a quello istituzionale, dovrebbero essere espressione di organismi di democrazia diretta.
Questo a Brescia, nei giorni successivi alla strage non c’è stato. C’è stata una gestione di tre giorni di Piazza della Loggia e dei funerali negoziata con il Governo e il ministro dell’Interno. Certo, ci sono stati momenti di tensione nella suddivisione dei compiti nella gestione di quelle giornate, che però non hanno mai, nemmeno lontanamente, messo in discussione l’assetto dei poteri politico-istituzionali a livello locale e men che meno a livello nazionale. La memoria è una materia viva che resiste alle eclissi prodotte dall’appannamento dei ricordi e dalle commemorazioni che progressivamente diventano la tradizione.

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