Chaïma Najjar*

Una legge storica fondamentale della rivoluzione è questa: ancor prima che inizi, è già combattuta dai reazionari e dai conservatori, e temuta dai liberali; essi cercano di evitarla facendo balenare la via delle riforma e e avvertendo le masse (e i capi) del suo costo. Ma una volta che trionfa, tutti diventano rivoluzionari, mentre loro rimangono reazionari. Il loro compito comune è allora quello di trovare la via più breve per riportare le masse insorte alla sottomissione, e lasciare l’opportunità alle élite e ai quadri politici e repressivi della classe dominante di ripristinare l’ordine e la normalità. Il colpo di stato di Kaïs Saïed può essere compreso solo nel contesto dei tentativi dei vertici dell’apparato statale borghese di fermare le cicliche esplosioni delle masse che hanno seguito la rivoluzione del dicembre 2010. La Tunisia non è un caso unico nel Maghreb e nella regione araba.

La rivoluzione tunisina ha seguito una traiettoria dal rovesciamento di Ben Ali nel gennaio 2011, che l’ha portata dai primi governi provvisori segnati dai sit-in della Kasbah, attraverso il campo aperto del salafismo religioso reazionario che ha saputo terrorizzare le masse attraverso assassinii (Choukri Belaïd, Mohamed Brahmi), l’oppressione delle donne e gli attacchi alla sede dell’Unione generale del lavoro tunisino (UGTT), il mantenimento dell’apparato statale di polizia – di cui solo l’aspetto politico e di partito, il Raggruppamento Costituzionale Democratico (RCD), è stata sciolta – e la telenovela del consenso nazionale che ha portato a un’assemblea costituente, a una costituzione e a un governo di coalizione comprendente il polo controrivoluzionario (Ennahdha e Nidaa Tounes) nel 2014… fino al colpo di stato di Kaïs Saïed nel luglio 2021… questa è la marcia trionfale della controrivoluzione.

L’accordo tra i partiti Ennahdha e Nidaa Tounes era l’espressione locale della controrivoluzione che ha inghiottito la regione dal 2013, con il contrattacco di Bashar al-Assad in Siria e il golpe di Sissi in Egitto. Questi due poli, invece di scontrarsi per il potere, scelsero l’accordo, sostenuto dall’imperialismo e, localmente, sia dalla borghesia che cercava di ristabilire rapidamente la stabilità, sia dalla burocrazia dell’UGTT, che cercava di ristabilire la pace sociale e controllare una base operaia che era diventata troppo emancipata a causa della rivoluzione.

Questo accordo però ha prodotto un edificio politico fragile, con un conflitto permanente tra le sue componenti: la presidenza della Repubblica, la presidenza del governo, la presidenza del Parlamento, per non parlare delle guerre di fazione. Al centro di questo conflitto c’è sempre la stessa domanda: ci deve essere un sistema esecutivo presidenziale o si deve consacrare la dimensione parlamentare?

Questo conflitto nel suo insieme è solo una conseguenza indiretta della permanenza della rivoluzione tra il 2011 e il 2014, e la paura della sua ricomparsa, dal 2014 ad oggi. La società funziona con scontri e lotte continue; i rapporti di forza reali dettano il risultato. L’accordo tra partiti sposta solo il conflitto all’interno della coalizione di governo e delle coalizioni di partito. Ecco perché le tensioni politiche che la Tunisia ha vissuto e continua a vivere dal 2011 si spiegano solo con l’aggravarsi della crisi economica e sociale permanente, aggravata dalla crisi sanitaria (Covid-19), e l’incapacità di rispondere alle richieste popolari, lasciando acceso il focolaio della contestazione, con il fuoco che si propaga alla situazione politica, periodicamente messa a dura prova.

Salute e crisi economica nel contesto dei recenti sviluppi


L’economia tunisina è stata colpita, come l’economia globale, dalla pandemia di Covid-19. Il prodotto interno lordo (PIL) è sceso del 21,4% nel secondo trimestre del 2020. Le lotte sociali per l’acqua, il lavoro e i salari sono raddoppiate, e le autorità sanitarie hanno perso il controllo della pandemia, che si è diffusa in tutto il paese (1), portando ad un quasi collasso del sistema sanitario. Il Ministero della Salute ha dichiarato: “La nave sta affondando”.

Il paese sta affrontando un grave problema di debito dopo dieci anni di collasso finanziario. Il debito è passato dal 45% del PIL nel 2010 a circa il 100% oggi. Il paese sta negoziando un quarto prestito dal Fondo Monetario Internazionale (FMI). L’8 luglio, l’agenzia di rating Fitch ha declassato il rating in valuta estera della Tunisia, mettendola sul gradino più basso della scala verso il default (2). Questo renderà difficile il finanziamento internazionale e aprirà la porta all’esacerbazione della crisi, e a condizioni più dure da parte dei prestatori internazionali se verrà contratto un nuovo debito.

Forti manifestazioni popolari, culminate nella Festa della Repubblica del 25 luglio 2021, hanno chiesto il rovesciamento del governo guidato da Hichem Mechichi e hanno visto slogan diretti contro Ennahdha e il suo presidente Rached Ghannouchi, e in alcune regioni sono sfociate in violenze o nell’incendio di sedi e simboli di Ennahdha.

Si tratta della più profonda crisi economica in Tunisia dalla rivoluzione, le cui conseguenze economiche, sociali e politiche intrecciate potrebbero portare a nuove proteste popolari, anche se in un contesto sfavorevole: il fallimento quasi totale del Fronte Popolare, gli ostacoli posti dalla burocrazia dell’UGTT alla combattività della classe operaia colpita duramente dalla crisi, e l’assenza di strutture organizzative permanenti di protesta popolare dopo lo smantellamento del sit-in della Kasbah nel 2011.

Una crisi politica al vertice, innescata dalla crisi economica e sociale e alimentata dalla periodica recrudescenza delle manifestazioni

La crisi politica è in corso dall’accrdo del 2014. Il conflitto tra le componenti dello Stato fondato dalla Costituzione del 2014 persiste. Lo shock sanitario e finanziario ha rafforzato il conflitto aperto tra il presidente Kaïs Saïed da un lato e la maggioranza parlamentare, costituita principalmente dal partito Ennahdha (entrambi presieduti da Rached Ghannouchi) e il primo ministro, dall’altro. Da gennaio, Kaïs Saïed ha cercato di ottenere la presidenza dell’esecutivo.

Questa crisi è solo un’espressione istituzionale dell’impasse di un “accordo”, che non ha portato a soluzioni, e non può farlo dal momento che la rivoluzione incompiuta non ha potuto, per la sua temporanea incapacità a superare il sistema di dominazione di classe. L’elezione di Kaïs Saïed nel 2019 è stata la traduzione politica di questa impasse: risultati elettorali che riflettono la frustrazione delle masse e l’evaporazione delle loro antiche speranze di una situazione migliore dopo la rivoluzione, così come una perdita di fiducia in tutte le espressioni politiche esistenti. I risultati riflettono questa frustrazione politica: Kaïs Saïed “non aveva una legittimazione popolare straordinaria, è stato eletto presidente con meno del 40% dell’elettorato al secondo turno delle elezioni presidenziali di due anni fa (72,7% del 55% che ha votato) e con meno del 9% dell’elettorato al primo turno (18,4% del 49% che ha votato)” (3).

Le masse sono tornate a un fenomeno che fa parte della storia politica della Tunisia: la ricerca dell’eroe/padre della nazione. È un fenomeno coltivato da Bourguiba, rafforzato da Béji Caïd Essebsi e sul quale Kaïs Saïed cavalca caricaturalmente .

Una brutta copia della tragi-commedia


Nel suo libro “Morbid Symptoms, the Relapse of the Arab Uprising”, Gilbert Achcar prende in prestito l’espressione da Marx, che l’aveva a sua volta presa in prestito da Hegel, per descrivere il colpo di stato di Luigi Bonaparte in Francia nel 1851: “Hegel osserva da qualche parte che tutti i grandi fatti e personaggi della storia universale accadono, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”. (4) Achcar ha ricordato la frase in risposta a coloro che tracciano una connessione tra il colpo di stato di Abdel Fattah al-Sissi del 2013 e quello di Gamal Abdel Nasser del 1952, dicendo: “Quello che Marx ha dimenticato è che la ‘farsa’ può essere tragica”.

Se Abdel Fattah al-Sissi è una tragica farsa del golpe di Gamal Abdel Nasser, Kais Said è una rozza copia della personalità e del golpe di Sissi. Egli non proviene da una formazione militare, ma da costituzionalisti tradizionali e avvocati di vecchia scuola che non hanno avuto voce in capitolo nella redazione della Costituzione del 2014 (5), tranne poi, che il comitato di esperti (di cui Kaïs Saïed era membro) sia stato invitato a commentare il progetto di Costituzione.

Kaïs Saïed è stato segretario generale della Società tunisina di diritto costituzionale tra il 1990 e il 1995, e ne è stato il vicepresidente dal 1995, sotto la dittatura di Zine El Abidine Ben Ali, il cui ricorso strumentale agli articoli costituzionali è noto (6).

L’interpretazione dell’articolo 80 della Costituzione tunisina non è la base del colpo di stato di Kaïs Saïed, ma uno dei suoi mezzi. Kaïs Saïed contava sull’appoggio delle “forze armate tunisine per le sue decisioni, e la foto della riunione che lui e i capi delle forze armate tunisine hanno tenuto quando ha annunciato la sua decisione è tale da assicurare a coloro che ne dubitano che ciò che è successo in Tunisia domenica (27 luglio) è stato un assalto alla democrazia che abbiamo conosciuto nella nostra regione ogni volta che la situazione in un paese è peggiorata” (7). Le posizioni delle potenze imperialiste sono state simili a quelle adottate durante il colpo di stato di Sissi nel 2013: si va dalle espressioni di preoccupazione agli appelli per il ritorno delle istituzioni il più presto possibile (USA e Francia). Una posizione prudente, che non denuncia le azioni di Kaïs Saïed e si limita a chiedere che le istituzioni riprendano al più presto la loro attività normale e rimane compatibile con la misura presa da Kaïs Saïed: la sospensione del Parlamento per trenta giorni. Gli stati imperialisti e le loro istituzioni non avevano presentato il regime di Ben Ali come un modello del successo delle loro raccomandazioni neoliberali e come il pioniere dello sviluppo economico in Africa, come un segno di successo negli indicatori di sviluppo della regione?

Il colpo di stato è stato dunque un mezzo per un fine che mette Kaïs Saïed in sintonia con tutte le espressioni politiche borghesi (reazionarie, progressiste o liberali): attaccare la rivoluzione e ripristinare la stabilità politica, anticipando ciò che si preparava “dal basso” in risposta all’esacerbazione della crisi economica e sociale, in particolare con le recenti manifestazioni di luglio. Invece di aspettare che le proteste spazzassero via il governo Ennahdha, cosa che avrebbe aperto la porta a un’ulteriore radicalizzazione popolare, come è successo nel 2011, è stato meglio per lo stato (l’esercito e il nucleo duro dello stato ereditato da Ben Ali), la burocrazia dell’UGTT preoccupata per la pace sociale e la stabilità politica e le forze imperialiste, quindi per tutte le classi dominanti, per spazzare via questo governo e imporre lo stato di emergenza sostenendo che la situazione è eccezionale a causa della recente epidemia e l’incapacità del governo di far fronte alla situazione.

Pertanto, qualsiasi sostegno alle misure di Kaïs Saïed – giustificandole come prese per continuare i compiti della rivoluzione (come se la controrivoluzione non esistesse) o per combattere i corrotti e i ladri di denaro pubblico (come se il presidente potesse assumersi un compito che la rivoluzione non è ancora in grado di portare a termine!) – sarebbe simile alle illusioni del polo egiziano di sinistra, liberale e sindacalista quando ha sostenuto il golpe di Sissi. Il prezzo è stato catastrofico. Kaïs Saïed non sarà l’Al Sissi della Tunisia, se il suo colpo di stato non dovesse riuscire, ma potrebbe spianare la strada a chiunque prenda il potere, dopo di lui.

Aspettarsi che Kaïs Saïed porti a termine i compiti della rivoluzione (!) disarmerebbe la disponibilità a mobilitarsi delle masse del popolo tunisino, così come “la scelta di affidare il compito della trasformazione politica e sociale ad una costituzione elaborata da un’Assemblea ha avuto l’effetto di convogliare le energie politiche verso la preparazione delle elezioni e di congelare così il movimento rivoluzionario” (8).

Kaïs Saïed ha espresso il suo punto di vista sulla rivoluzione durante l’incontro con gli ex capi di governo il 15 giugno: “Il senso del mio mandato è di continuare l’esplosione rivoluzionaria nel rigoroso rispetto delle istituzioni” (9), una posizione simile a quella dell’ex presidente Béji Caïd Essebsi per il quale, come ha scritto Hélé Béji, “la rivoluzione non è una rottura con lo Stato nazionale in quanto tale, non è un fenomeno fuori dal tempo, di un’alterità radicale rispetto alla storia precedente” (10). Tradurre queste affermazioni nel linguaggio della politica significa eliminare la rivoluzione per ricostruire lo stato borghese.

Questa non è l’unica area di accordo tra Kaïs Saïed e Béji Essebsi; il loro scrupoloso rispetto per le istituzioni statali li porta a superare i partiti. Dopo il secondo sit-in alla Kasbah, Béji Essebsi ha ritenuto che fossero necessarie rapide elezioni presidenziali, in modo che i partiti avessero meno influenza nella redazione della costituzione e fossero più soggetti all’autorità dello stato. Durante tutta la sua campagna di candidatura, Kaïs Saïed amava ripetere di essere “senza appartenenza politica” e di non prendere posizioni sulle questioni secondo i criteri dei politici, rifiutando ciò che si chiama programma politico: “Il popolo agisce al di fuori dei quadri tradizionali e non ha più bisogno di programmi ma di strumenti per esprimere la sua volontà” (11). La depoliticizzazione delle questioni sociali ed economiche è una caratteristica della controrivoluzione, che lega le masse atomizzate al leader carismatico della nazione, trascendendo le appartenenze, direttamente e senza corpi intermedi, specialmente i partiti. Questo è quello che hanno fatto Luigi Bonaparte, Hitler e Khomeini.

Kaïs Saïed sta completando un percorso iniziato da altri

La ricerca di un’autorità personale e carismatica che metta fine all’accordo politico della Costituzione del 2014 e ripristini la centralità del processo decisionale politico e amministrativo, rovesciato dalla rivoluzione del 2011, precede il colpo di stato di Kaïs Saïed. Ha le sue radici, non nelle disposizioni della Costituzione, ma nelle convulsioni nella società e nella politica risultanti dalla controrivoluzione – essa stessa divisa tra un polo liberale/modernista e un polo reazionario religioso – e le scosse causate dal processo rivoluzionario di lungo periodo che periodicamente si manifesta nelle lotte operaie e contadine.

“Nel dicembre 2014, ecco [Béji Essebsi] eletto sotto un regime parlamentare che non voleva, definito da una Costituzione sulla quale i quadri della tradizione destouriana, i giuristi della vecchia scuola, non hanno avuto voce in capitolo. Dai primi mesi del 2015, le voci si moltiplicano per chiedere di nuovo una repubblica presidenziale . Béji Caïd Essebsi sarà il loro portavoce. Né il ruolo di un primo ministro sostenuto da una maggioranza, né i controlli e gli equilibri parlamentari, né il decentramento, né gli organismi indipendenti fanno parte della cultura istituzionale di questa famiglia politica che aspira a tornare agli affari. Se oggi la Corte Costituzionale non c’è ancora, è perché i suoi rappresentanti nell’Assemblea si rifiutano di legarsi le mani insieme a membri troppo indipendenti in organismi che non controllano. (12)

I conflitti interpartitici e le posizioni dei partiti, ereditati dal periodo pre-rivoluzionario, hanno alimentato le difficoltà della costruzione istituzionale della Costituzione del 2014. Nidaa Tounes si è dissolta dopo che il figlio di Béji Essebsi ci ha messo le mani, il Fronte Popolare si è disintegrato dopo essere sprofondato nella monotonia dell’attività parlamentare e in un conflitto ideologico con gli islamisti che li ha fatti arrivare al limite dell’alleanza con gli eredi di Ben Ali (Nidaa Tounes), insomma, tutti (liberali e sinistra) temono Ennahdha. Ennahdha risponde con alleanze elettorali senza principi (in particolare con Qalb Tounes) per cercare di bloccare la strada al presidenzialismo, che vuole monopolizzare il potere esecutivo, prima ancora Ennahdha aveva sostenuto la candidatura di Kaïs Saïed alla presidenza. Questo conflitto tra i partiti non ha permesso un governo forte voluto dalla borghesia e dagli stati imperialisti in cerca di stabilità, e che il colpo di stato di Kaïs Saïed nel luglio 2021 ha cercato di ottenere.

Le radici del problema


Quello che è successo in Tunisia non può essere spiegato senza ricordare l’atmosfera di risentimento degli anni della controrivoluzione. “La speranza che suscita una rivoluzione è sempre esagerata”, scriveva Trotsky a questo proposito. Un elemento decisivo per comprendere il rafforzamento delle forze controrivoluzionarie nel periodo post-rivoluzionario è la speranza riposta nella rivoluzione dalle masse lavoratrici meno coscienti, risvegliate all’attività politica rivoluzionaria durante il processo di rovesciamento del vecchio ordine. Così, “la speranza suscitata da una rivoluzione è sempre esagerata. Ciò è dovuto alla meccanica della società di classe, alla terribile situazione della grande maggioranza delle masse popolari, alla necessità oggettiva di suscitare le più grandi speranze e di esigere i più grandi sforzi per assicurare anche il più modesto risultato, etc. (…) Le conquiste strappate nella lotta non corrispondono, e per forza di cose non possono corrispondere direttamente alle aspettative delle grandi masse arretrate risvegliatesi per la prima volta durante la rivoluzione. La disillusione di queste masse, il loro ritorno alla routine e all’inutilità politica, fa parte del periodo post-rivoluzionario tanto quanto il passaggio nel campo della “legge e dell’ordine” degli strati di queste classi “soddisfatte” che hanno partecipato alla rivoluzione” (13).

Come se facesse eco a queste tesi, il giornalista Thierry Brésillon scrive: “Dieci anni dopo, l’opinione pubblica e i commentatori tracciano un bilancio disincantato di questa rivoluzione, e lo spettro di una restaurazione del vecchio ordine perseguita la Tunisia, anche se le è stata risparmiata la feroce repressione altri paesi arabi” (14).

La formula del “ritorno del vecchio regime” non riflette pienamente la realtà della Tunisia. Il vecchio regime non è caduto: quello che è caduto è la sua testa, mentre i funzionari, gli impiegati pubblici e i ministri del vecchio regime hanno mantenuto le loro posizioni nei circoli di potere, e i membri del RCD (al potere ai tempi di Ben Ali e sciolto nel 2011) si sono uniti a nuovi partiti politici. Le istituzioni di sicurezza ereditate dalla dittatura di Ben Ali non sono state smantellate o sanzionate, soprattutto quelle coinvolte nella repressione prima, durante e dopo la rivoluzione, e hanno rafforzato la loro posizione sollevando costantemente lo spettro della minaccia terroristica. I leader del “vecchio regime” (sempre sospettosi di Ennahdha) approfittano dell’incompetenza delle nuove istituzioni per tornare in nome della difesa dello stato. Non è questa la giustificazione del colpo di stato di Kaïs Saïed?

Kaïs Saïed, è una rozza caricatura di Abdel Fattah al-Sissi, certamente, ma le sue caratteristiche personali non possono limitare ciò che il suo colpo di stato porterà, che è il dominio delle forze della classe dominante e dei gruppi che operano alle spalle delle masse. Luigi Bonaparte era insignificante, ma ha seppellito la Repubblica costruita dalla rivoluzione del 1848. Kaïs Saïed è noto per il suo discorso populista che inganna chi è pronto a farsi ingannare, è spinto da un blocco eterogeneo, ma unito da un obiettivo: la restaurazione dell’ordine e l’eliminazione definitiva della rivoluzione. Questo blocco è composto dai quadri dell’esercito, dall’apparato di sicurezza e dal personale burocratico ereditato dall’era di Ben Ali, senza dimenticare ovviamente il capitale, nazionale e straniero, che ha sempre favorito uno stato forte per garantire la conduzione del capitalismo e lo sfruttamento delle masse.

La maggior parte di giudizi espressi per valutare il colpo di stato di Kaïs Saïed fanno riferimento alla costituzione, il Partito del Lavoro evoca una violazione della costituzione, come se fossero la costituzione e la legge a muovere la società e non la situazione socio-economica e le relazioni delle classi a esprimerla.

L’UGTT ha chiesto al presidente di accompagnare “le misure eccezionali con una serie di garanzie costituzionali, tra cui la necessità di determinare gli obiettivi delle misure eccezionali e la durata della loro attuazione, in modo che non si trasformino in una procedura permanente, e di tornare in poco tempo a un corso normale delle istituzioni dello Stato”. Questa posizione è un’illusione che ingannerà la classe operaia e l’opinione pubblica in generale, perchè senza prospettive alternative.

Il ruolo vergognoso della burocrazia dell’UGTT

Lo scoppio della rivoluzione nel dicembre 2010 ha scosso la burocrazia sindacale. Sotto la pressione dei delegati e della sinistra sindacale, fu costretto a dichiarare uno sciopero generale mobile. Ben Ali è fuggito quando lo sciopero ha colpito la capitale.

Da allora, la burocrazia ha ripreso il sopravvento sulla base, avviando – e persino sponsorizzando – l’accordo politico tra i poli della controrivoluzione, che è stato raggiunto nel 2014, e ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 2015. Questo è successo in un momento in cui un’organizzazione operaia avrebbe dovuto mobilitare le masse della rivoluzione a fare pressione sull’Assemblea per redigere una costituzione che rispondesse alle loro richieste, o per sostituirla con un vero ed efficace organo popolare.

La burocrazia dell’UGTT è pienamente e coscientemente impegnata nel processo politico che porta alla liquidazione della rivoluzione dal basso, e ha il suo compenso nei ruoli costituzionali riconosciuti dall’alto. Sostiene il colpo di stato di Kaïs Saïed, che l’ufficio esecutivo dell’UGTT ha descritto come “misure eccezionali… prese per prevenire un pericolo imminente e per ristabilire il normale funzionamento della macchina statale, in vista dell’epidemia di Covid-19” (15).

La classe operaia è al centro della rivoluzione e della controrivoluzione. Anche se la rivoluzione non ha toccato le fondamenta del sistema capitalista, ha scosso le basi della riproduzione e della circolazione del capitale, soprattutto la disciplina della classe operaia e il libero scambio a causa degli scioperi e dell’occupazione delle piazze. L’appoggio della direzione dell’UGTT al colpo di stato di Kaïs Saïed equivale ad accettare la liquidazione delle conquiste politiche della classe operaia dalla rivoluzione del 2011.

L’obiettivo del colpo di stato di Kaïs Saïed è lo stesso della controrivoluzione in tutte le sue forme: imporre la stabilizzazione del dominio di classe e concentrare il potere decisionale, costringere le masse lavoratrici e popolari a pagare il conto, liberare la borghesia dipendente da una crisi multidimensionale soffocante: smantellando le mobilitazioni per l’occupazione e contro l’emarginazione delle periferie urbane e delle zone interne, costringendo la classe operaia ad accettare condizioni regressive e a ridurre il suo potere d’acquisto, aumentando i prezzi e le imposte dirette, congelando il pubblico impiego secondo gli impegni presi con i creditori. Tutto questo non è possibile con la libertà di sciopero, di organizzazione e di espressione.

Se Kaïs Saïed o il suo colpo di stato falliscono per mancanza di una forza popolare organizzata, sarà l’ala più organizzata dello Stato, l’esercito, a svolgere questo compito, voltando la pagina del quadro giuridico e istituzionale transitorio risultante dall’equilibrio dei poteri post-2011.

I compiti dei rivoluzionari
C’è una tendenza consapevole e deliberata a imporre una bipolarizzazione politica – simile a quella che l’Egitto ha vissuto dopo il colpo di stato di Sissi contro Morsi e i Fratelli Musulmani – tra i sostenitori della legittimità e della Costituzione da una parte e i sostenitori del colpo di stato di Kaïs Saïed dall’altra.

Sarebbe un grave errore per gli attivisti di sinistra cadere nella trappola di questa polarizzazione e considerare le misure di Kaïs Saïed come “decisioni audaci e allegre” solo perché prendono di mira un nemico politico (Ennahdha). Kaïs Saïed è il capo dell’esecutivo, sul quale le ali della borghesia tunisina si sono accordate nell’ambito di un percorso politico tutto dedicato a liquidare la rivoluzione tunisina proveniente dal profondo della società. Ciò che ha intrapreso non è che la continuazione logica di questo accordo politico dall’alto, tra queste ali della borghesia, e a scapito di una di esse. Non è in alcun modo una continuazione o una vittoria della rivoluzione.

Dobbiamo difendere una terza linea: una linea rivoluzionaria e democratica che sia coerente fino in fondo. Non difendiamo la legittimità costituzionale, perché la Costituzione del 2014 è quella del consenso tra i poli della borghesia. Dobbiamo difendere le libertà democratiche e politiche della classe operaia e delle masse del popolo lavoratore: libertà di espressione, di opinione, di manifestazione in strada e di sciopero nei luoghi di lavoro, il rifiuto di qualsiasi misura che colpisca questi diritti, giustificata da una situazione eccezionale e dallo stato di emergenza. Dobbiamo chiamare a rispondere tutti coloro che sono coinvolti nella repressione ed esigere lo smantellamento dei suoi organi. E dobbiamo presentare un programma di rivendicazioni sociali ed economiche che tenga conto nella ricostruzione dell’economia la soddisfazione dei bisogni urgenti e vitali delle masse di uomini e donne che lavorano, dei piccoli agricoltori e dei disoccupati:

  • Servizi pubblici gratuiti e di qualità (salute, educazione, alloggio),
  • Una politica globale del lavoro pubblico,
  • Sostegno pubblico permanente ai piccoli agricoltori, ponendo fine all’approccio dell’agricoltura estrattiva per garantire la sovranità alimentare,
  • Una fine definitiva del rimborso del debito esterno e interno,
  • Il recupero dei fondi e delle ricchezze depredate,
  • La socializzazione dei settori bancario, energetico e dei trasporti.
  • Chaïma Najjar è una giornalista del giornale marocchino Al Mounadil-a. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su almounadila.info e poi tradotto dall’arabo da Luiza Toscane e pubblicato dal sito della Gauche anticapitaliste (sezione belga della Quarta Internazionale). https://www.gaucheanticapitaliste.org/le-coup-detat-de-kais-saied-cherche-a-restaurer-le-ben-alisme-que-la-revolution-de-2011-avait-decapite/.

Note

  1. Thierry Brésillon, giornalista e corrispondente in Tunisia (24 settembre 2020), “Tunisia, i rischi della tentazione populista”, tradotto da Sarra Grira. https://orientxxi.info/magazine/article4157
  2. Thierry Brésillon (27 luglio 2021), “Tunisia. Un momento “cesarista” senza Cesare”. Traduzione di Messaoud Romdhani. https://orientxxi.info/magazine/article4938
  3. Gilbert Achcar (27 luglio 2021), “Kaïs Saïed si ispira ad Abdelfattah Sissi”, sito Al Quds Al Arabi
  4. Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, (1851).
  5. Thierry Brésillon (30 luglio 2019) “Tunisia. Béji Caïd Essebsi o la riscrittura della storia”, traduzione di Nada Yafi. https://orientxxi.info/magazine/tunisie-beji-caid-essebsi-ou-la-reecriture-de-l-histoire,3226
  6. Gilbert Achcar, op. cit. nota 3.
  7. Ibidem
  8. Thierry Brésillon, “Tunisia. Béji Caïd Essebsi o”, op. cit.
  9. Thierry Brésillon, “Tunisia, un momento “cesarista”…”, op. cit.
  10. Thierry Brésillon, “Tunisia. Béji Caïd Essebsi o”, op. cit.
  11. 1 giugno 2019. https://www.aljazeera.net/news/politics/2019/6/1
  12. Thierry Brésillon, “Tunisia. Béji Caïd Essebsi o”, op. cit.
  13. Leon Trotsky, 1926, “Tesi sulla rivoluzione e controrivoluzione”: https://www.marxists.org/francais/trotsky/oeuvres/1926/11/lt19261126.htm
  14. Thierry Brésillon (14 gennaio 2021) “Tunisia; Lo spettro del ritorno del vecchio regime” tradotto da Sarra Grira, https://orientxxi.info/magazine/article4437
  15. Comunicato dell’Ufficio esecutivo nazionale sugli ultimi sviluppi nel paese, 26 luglio 2021, (http://www.ugtt.org.tn/).

Tradotto dal francese da BSA

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