Gianni Sartori

Già qualche anno fa mi ero occupato del cosiddetto “urban sprawl. Un fenomeno che negli Stati Uniti assurgeva ormai a “pilastro dell’organizzazione sociale, elemento sostanziale e ineliminabile dell’american way of life“, la rappresentazione generalizzata e diffusa del “sogno americano”. Ossia “una villetta suburbana con una staccionata (bianca, di rigore) due – anzi tre – auto e una vacanza più o meno esotica all’anno”. In pratica: una casa, un prato (diserbanti e tosaerba inclusi), un cane alla moda (acquistato in qualche allevamento), talvolta un albero per “credere di vivere in campagna”. Modello poi ampiamente adottato nella metastasi di “villettopoli” che – insieme a quella dei capannoni – negli ultimi 30 anni ha devastato la campagna veneta, per esempio. Reso possibile tutto ciò dall’uso quotidiano, indiscriminato dell’auto (sempre più spesso un funebre e ingombrante suv, in genere nero, pare costi meno) da parte dei pendolari del ceto medio (piccola borghesia e residue “aristocrazie operaie” incluse). In corriera e in bicicletta più che altro badanti, facchini, immigrati…
Effetti collaterali: aumento di strade, autostrade, incidenti e inquinamento. Secondo calcoli effettuati negli Stati Uniti (per la pianura padana non dispongo di dati aggiornati, ma potrebbe essere ancora peggio) la casa unifamiliare (la “villetta”) suburbana richiede in media l’asfaltatura di almeno dieci metri di strada ogni due famiglie. Ovviamente si moltiplicano anche i chilometri di linee telefoniche, fognature, condotte idriche, a spese di boschi, foreste, terreni agricoli. Negli Usa le aree urbane delle metropoli aumentano ad un ritmo che è doppio rispetto all’aumento della popolazione e lo sprawl fagocita ogni anno circa 4mila Kmq di terra destinandoli a scopo urbano (strade, case, parcheggi, centri commerciali…).
Possiamo quindi dedurne che l’ostentato amore per la campagna, per la natura (sentimento perlomeno ambiguo, scarsamente consapevole e sicuramente non ricambiato) alla fine risulta devastante per entrambe. Analogamente, già parecchi anni fa – in un articolo pubblicato su “Le Monde diplomatique” – il geografo e orientalista Augustin Berque si era scagliato contro les rurbains, quei cittadini dei paesi ricchi che scelgono per la loro residenza un “habitat de type campagnard”.  Una tendenza che, mentre si auto-rappresenta come desiderio di “vivere a contatto della natura”, si rivela un modello molto più vorace di risorse naturali rispetto a quello della “ville compatte”.
Secondo Berque, l’urbanizzazione diffusa, aumentando la pressione umana sull’ambiente, sta diventando una delle maggiori cause di distruzione dell’ oggetto stesso di questo desiderio, la “natura”.

AMORE TOSSICO PER LA “NATURA”

Berque parlava soprattutto della Francia, ma non mancavano certo i precedenti in diversi angoli della “vecchia Europa”. Pensiamo a Londra con la sua serie infinita di case a due piani con vetrata frontale e giardinetto sul retro (nelle due versioni, per benestanti e popolare). Un pezzetto di erba privata garantito per buona parte dei nove o dieci milioni di abitanti, un paesaggio urbano magari più suggestivo di quello offerto dai casermoni popolari, ma anche una città che si è estesa a macchia d’olio, inglobando paesi e territori che fino a non molto tempo fa costituivano la caratteristica  e amata “campagna inglese”.
Tornando alla penisola italica e al veneto in particolare, già nel 1979, in “Semiologia del paesaggio italiano“, Eugenio Turri, di fronte alle profonde e rapide trasformazioni in atto nelle nostre campagne e colline (v. la Lessinia), si chiedeva se si trattasse di “trasformazione o distruzione?”.
Confrontando la crescita demografica del nostro paese con l’espansione urbanistica si nota una certa sproporzione.  Dal 1951 al 2006 la popolazione è cresciuta soltanto di circa undici milioni. Invece la cementificazione del territorio nel medesimo arco di tempo è aumentata a dismisura, sconvolgendo l’assetto agricolo e il paesaggio. Città cresciute in modo incontrollato (altro che la “via Gluck”) e campagne urbanizzate, mentre prevaleva sempre di più l’idea di uno “spazio privato” e provvisto di cancelli per ingabbiare un misero brandello di verde (con tanto di aggressivo messaggio: un cartello di “attenti al cane e al padrone” e l’immagine di una o più armi da fuoco).
Lo ricordava anche l’urbanista Georg Josef Frisch: “In Italia, fino alla metà degli anni Settanta, la crescita delle città significava insieme crescita demografica e crescita fisica. Da allora l’andamento demografico ed economico è sostanzialmente fermo. Il consumo di suolo, invece, non conosce inversioni di tendenza“. La causa principale sarebbe “uno stile di vita sempre meno sostenibile” con il territorio concepito soltanto come “oggetto di consumo o mero supporto alle attività economiche”. Il giro di affari delle imprese edili e del settore immobiliare è cresciuto in proporzione, anche se migliaia di case restano invendute e altrettante rimangono sfitte. E poi naturalmente ci sono la miriade di seconde (anche terze) case al mare e in montagna (queste attualmente in pauroso aumento, una moda).

VECCHIE E NUOVE COLONIZZAZIONI: IL CAPITALISMO NON CONCEDE TREGUA

Un processo di “occupazione” del territorio e dell’ambiente naturale che talvolta assume i caratteri di una vera e propria colonizzazione, da manuale.
Molte delle terre ancestrali degli indiani, ora segregati nelle riserve, sono state ricoperte dall’edificazione urbana. Sui territori palestinesi, gli israeliani hanno costruito un paese tecnologicamente moderno, con insediamenti costituiti da nuclei abitativi compatti, impenetrabili, quasi avamposti militari. Per realizzarli sono stati abbattuti migliaia di ulivi secolari e la maggior parte degli abitanti va tutti i giorni a lavorare in Israele percorrendo autostrade destinate esclusivamente ai coloni.
Qualcosa del genere starebbe avvenendo in Bakur (il Kurdistan sotto amministrazione-occupazione turca).
Possiamo quindi sottoscrivere quanto scriveva, in epoca non sospetta, il già citato Augustin Berque: “ Insieme all’automobile, l’abitazione individuale è diventata il leitmotiv di un genere di vita la cui smisurata impronta ecologica implica un consumo eccessivo delle risorse naturali”. Insostenibile sul lungo – anche medio ormai – periodo. Insieme all’automobile, l’abitazione individuale è diventata “il leitmotiv di un genere di vita la cui smisurata impronta ecologica implica un consumo eccessivo delle risorse naturali“, insostenibile sul lungo periodo. Quasi quasi verrebbe da pensare con rimpianto ai progetti di Le Corbusier e alla sua maison radieuse.
In ogni caso, i termini della questioni sono chiari: “L’impronta ecologica, l’impatto ambientale sono sicuramente minori con abitazioni di genere collettivo e con trasporti pubblici. Al contrario l’urbanizzazione diffusa dilapida il patrimonio ecologico dell’umanità”.
In sintesi potremmo definirlo un beato suicidio collettivo.

IERI LA PESTE, OGGI IL COVID 19…

E oggi, complice l’epidemia del Covid 19, tocca alla Montagna. Tra benestanti che si rifugiano nelle confortevoli, finto rustiche, seconde case e soidisant “nuovi montanari” che – coadiuvati dalla moderna tecnologia – vanno a infestare le residue aree, se non proprio incontaminate, perlomeno pervase ancora da qualche suggestione di “selvaggio”.
Con la scusa che “la vita in città diventa insostenibile” vanno a intasare quei territori rimasti fortunosamente ai margini, non certamente “integri”, ma con qualche residuo elemento di biodiversità. Volendo cercare dei precedenti, possiamo ripescare nella Storia veneta.
Quando imperversava il Yersinia pesti, il consiglio dei medici – l’unico veramente efficace in luogo degli inutili amuleti, salassi, spezie e preghiere – era il classico “fuga cito, vade longe, redi tarde”. Tra coloro che lo seppero ben interpretare, troviamo gli esponenti sia della nobiltà che della ricca borghesia veneziana. Mercanti e armatori in particolare. Ossia i maggiori responsabili della pestilenza che sbarcava in laguna comodamente trasportata dalle loro loro navi infestate da topi.
Anche se la Morte Nera si alimentava – selettivamente – soprattutto a spese dei poveri (già afflitti da scarsa e cattiva alimentazione e da diarrea, ulteriore veicolo per il contagio), per maggior sicurezza i ricchi si rifugiavano in campagna, nelle loro ville. 
“Nel 1456 – spiegava il canadese Andrew Nikiforuk in The Fourth Horseman – durante un’epidemia, furono talmente tanti i nobili e i “buoni cittadini” in fuga da Venezia che la città noleggiò sedici imbarcazioni con un equipaggio di guardie armate, per proteggere da ladri e malintenzionati le case lasciate incustodite”. 
Le case da ricchi ovviamente, non certo qualche catapecchia.
A conti fatti, le pestilenze incrementarono il mercato immobiliare dell’epoca, in particolare delle bucoliche ville in campagna (una miriade tra le attuali province di Padova, Treviso, Vicenza, Rovigo…). Non tanto, come si racconta, per sfuggire alla calura estiva, ma piuttosto ai miasmi forieri di morte prematura. E intanto Venezia, così come le altre città, veniva spopolandosi, soprattutto di mendicanti, poveri, emarginati e anziani. In vista del ritorno, gli alloggi cittadini venivano abbondantemente affumicati con lo zolfo (in quantità tale da uccidere le vittime sacrificabili, dei canarini o passeri in gabbia) e poi affidati per qualche tempo a una donna povera, in genere una vedova bisognosa. Se la disgraziata moriva, segno che l’ambiente non era ancora completamente risanato, il riccastro si concedeva qualche altra settimana – o mese – di vacanza agreste. 

I RICCHI ESPROPRIANO I POVERI ANCHE DEL DIRITTO ALLA BELLEZZA

Un vecchio articolo su “The Nation” di Barbara Ehrenreich (forse leggermente datato, ma comunque ancora fonte di ispirazione) analizzava un fenomeno analogo all’odierno “fuggi-fuggi in montagna dalla metropoli”.
Lapidariamente affermava che i ricchi possono togliere ai poveri anche il diritto alla bellezza della natura”. Per la giornalista (autrice del libro “Una paga da fame: come (non) si arriva a fine mese nel paese più ricco del mondo”) dagli anni novanta in poi si sarebbe imposta una regola generale: “Se un posto è veramente splendido chiediti se te lo puoi permettere”. Con qualche rara eccezione “la maggior parte dei punti panoramici sta sparendo molto rapidamente inghiottiti dalle grandi proprietà“. Cita luoghi ben precisi (Driggs nell’Idaho, Key West in Florida…) da lei conosciuti prima che “arrivassero quelli con i soldi” e ormai trasformati in maniera irreversibile. Gli stessi che si arricchiscono inquinando i luoghi dove non hanno le loro seconde, terze o quarte case arrivano e costruiscono i loro residence (provocando tra l’altro un aumento dei prezzi sia delle case che dei terreni).
A tale proposito ho sotto il naso l’esempio di alcune zone del Vicentino, dove i proprietari di capannoni, fabbriche di plastica, mega-distributori di benzina, miniere, allevamenti intensivi di pollame etc. etc…si guardano bene dal costruirsi la villa nei paraggi dell’azienda. La prima casa, come minimo, sta sui colli, in posizione dominante (esteticamente parlando, uno sfregio paesaggistico). Quanto alla seconda e alla terza, in genere si trova in Altopiano o – adesso va forte – in Trentino. Quindi, dopo aver trasformato Asiago (nonostante le imprecazioni del compianto Mario Rigoni Stern) in una “piccola Cortina de noantri”, il cemento ha invaso anche Lavarone e ora sembrerebbe minacciare perfino le ultime enclave cimbre (dove, per dirne una, si sarebbero trasferiti alcuni amministratori noti per aver concesso “scorciatoie burocratiche” in campo edilizio).

Per concludere.
 Edward O. Wilson parlava di “biofilia come di un innato bisogno umano di interagire con la natura”Lasciare che i ricchi “si impadroniscano di tutti i posti più belli della terra potrebbe avere serie conseguenze anche sulla salute mentale” di larghi strati della popolazione, man mano che diventa sempre più difficile “poter spaziare con lo sguardo su ampie distese d’acqua, orizzonti liberi e montagne che svettano nel cielo“. Almeno “per una o due settimane all’anno”, si accontenterebbe la Ehrenreich. Se, come sostiene la psicologa Nancy Etcoff “il bisogno di bellezza naturale è codificato nel nostro patrimonio genetico” (in quello di ogni essere umano, non  di pochi privilegiati) c’è il rischio che un gran numero di persone possa cadere “vittima di una claustrofobia cronica e crescente“.

Direi quindi di lasciare ai piccolo-borghesi le velleitarie fughe in Montagna. 
Ben che vada si rischierebbe di ricalcare l’esperienza di trapper, mountain men e pionieri, magari – talvolta – in fuga dalla civiltà, dalla guerra, dal “sistema” (alla Jeremiah Johnson, ricordate?). Ma che poi tra le foreste delle Montagne Rocciose e le immense praterie – oltre ai nativi – sterminarono castori, orsi e bisonti e aprirono la strada allo sfruttamento, alla colonizzazione e al degrado (magari spacciandolo per “necessità storica”).

Quanto alla spompata retorica – alla Mauro Corona- sulla vita autentica degli abitanti delle vette, mi sembra solo merce spettacolare (e fuorviante) a uso e consumo dei rurbains d’alta quota.
Meglio dedicarsi – qui e ora – alla salvaguardia dell’ambiente in genere (acqua, suolo, piante, animali…) e del paesaggio, inteso come “bene comune”.
Rimane “solo” quel fastidioso, antipatico ostacolo da rimuovere…(il capitalismo, caso mai non si fosse capito).

Gianni Sartori

Flavio GuidiDa uno cresciuto in un quartiere dormitorio di casette bifamiliari (invenzione di un prete, Marcolini, negli anni ’50), il Violino, che odia i SUV, ama le metropoli (e comunque le città ben separate dalla campagna, come le meravigliose città murate medievali) e vede la pianura padana con profonda antipatia, non posso che condividere la riflessione del compagno Gianni.