Pubblichiamo questo interessante articolo dell’ISPI di geopolitica, sulla rimozione degli avvenimenti rivoluzionari di Tiananmen. La nostra impostazione è molto diversa, ma ciò non toglie che articoli come questo siano utili alla comprensione della realtà.
31 anni dalle manifestazioni represse con i carri armati in piazza Tiananmen un filo rosso unisce la repressione di operai e studenti ribelli, a quella dei cittadini di Hong Kong del 2020.
Sono passati 31 anni dalla strage di piazza Tiananmen. Un massacro, il cui bilancio resta oscuro, la cui commemorazione è stata bandita per la prima volta anche a Hong Kong, dove fino ad ora Pechino aveva ‘tollerato’ ogni anno una veglia per l’anniversario. Ufficialmente il divieto è stato motivato dalle regole di distanziamento sociale imposte dal Covid, ma sono in pochi a crederci. L’obiettivo vero, è opinione comune, era mettere la sordina dopo un anno di scontri e violenze, ai movimenti di protesta di Hong Kong scaturiti dalla proposta di legge sull’estradizione e finiti con l’approvazione della legge sulla sicurezzache segnerà, secondo gli attivisti, la fine dell’equilibrio ‘un paese due sistemi’ e con esso dell’autonomia dell’isola con un trentennio di anticipo sul previsto. Ma nonostante i divieti della polizia, le norme sul distanziamento sociale e le transenne, un centinaio di attivisti pro-democrazia ha raggiunto il Victoria Park di Hong Kong per la veglia dedicata alle vittime del 4 giugno 1989. Numerosi anche gli appuntamenti virtuali, il cui hashtag ufficiale delle è #6431truth. Tre decenni dopo i fatti di Tiananmen, dunque, la Cina è ancora al centro delle critiche internazionali e nel pieno di uno scontro ideologico, politico e commerciale con gli Stati Uniti. Ma se in questi giorni è l’America di Donald Trump dare il peggio di sé, con la brutale repressione delle manifestazioni di piazza, neanche Pechino sembra aver imparato la lezione. E mentre a Hong Kong soffoca la protesta popolare, già guarda a Taiwan, prossimo obiettivo della “riunificazione nazionale”.
Usa-Cina: scontro ad alta quota
Come spesso accade, la tempistica non è mai un dettaglio. E proprio oggi, nel giorno dell’anniversario di Piazza Tiananmen, il parlamento di Hong Kong ha dato il via libera alla legge che criminalizza ogni forma di disprezzo verso l’inno nazionale cinese, la Marcia dei Volontari. L’approvazione è maturata in una seduta ad alta tensione tra il fronte pro-Pechino e quello pro-democrazia. Chi sarà giudicato colpevole di avere violato la nuova legge, che criminalizza ogni forma di insulto nei confronti dell’inno, rischia fino a tre anni di carcere e multe fino a 50mila dollari di Hong Kong. Si tratta dell’ultimo atto, in ordine temporale, di una serie di coercizioni volte a soffocare ogni forma di dissenso nei confronti della ‘madrepatria’, dopo le contestatissime leggi sull’estradizione e sulla sicurezza nazionale. Ma soprattutto di una nuova stoccata nel braccio di ferro con Washington che ormai si combatte anche nei cieli: a partire dal 16 giugno, infatti, gli Stati Uniti hanno annunciato il blocco dei voli, in ingresso e in uscita, di quattro compagnie aeree cinesi. È la risposta americana al veto che ancora pesa sulla United Airlines e sulla Delta Air Lines, i cui voli per la Cina sono fermi da settimane, in attesa del via libera di Pechino.
Soft power britannico?
E mentre lo scontro tra le due superpotenze si infiamma, in occasione di un anniversario mai così teso, a provocare nuove tensioni su Hong Kong è il premier britannico Boris Johnson. In un articolo pubblicato ieri dal South China Morning Post il primo ministro ha annunciato che il Regno Unito è pronto ad aprire le porte a circa 3 milioni di cittadini di Hong Kong, se la nuova legge sulla sicurezza entrerà in vigore. Johnson ha sostenuto che se la Cina approverà la legge entrerà in conflitto con la dichiarazione congiunta del 1984, un trattato legalmente vincolante e alla base della Mini-Costituzione di Hong Kong, non lasciando altra scelta al governo di Londra se non quella “di rispettare il profondo legame di storia e amicizia con il popolo di Hong Kong”. Il premier ha aggiunto di volere “una relazione moderna e matura” con la Cina. “Ed è proprio perché accogliamo Pechino come un membro prominente della comunità internazionale – ha sottolineato – che ci aspettiamo che rispetti i suoi accordi internazionali”.
Prossima sfida: Taiwan?
A osservare inqueta, da una distanza ravvicinata, ciò che accade nel Porto profumato è Taiwan, la ‘provincia ribelle’ di Pechino con cui i rapporti sono tesi da decenni. Nel 1949 a Taiwan si rifugiarono i cinesi sconfitti nella guerra civile da Mao Zedong, e ancora oggi il governo cinese considera Taipei un proprio territorio e si rifiuta di avviare relazioni con paesi che abbiano con essa rapporti formali. I rapporti con la Cina sono il motivo per cui dal 1971 Taiwan non è più membro dell’Onu: ogni richiesta avanzata finora dal governo taiwanese di essere riammesso nell’organizzazione è stata bloccata dal veto di Pechino.

Sulla sua pagina Facebook, la presidente Tsai Ing-wen ha condiviso una foto di un calendario del 4 giugno e ha affermato che “in Cina ci sono solo 364 giorni l’anno, poiché un giorno è stato dimenticato”. Tsai spiega che anche nel passato di Taiwan “c’erano molti giorni scomparsi dal calendario, ma il nostro paese li ha reclamati. Poiché non dobbiamo più nascondere la nostra storia, possiamo ora pensare al nostro futuro”. A febbraio, nel suo discorso di insediamento per un nuovo mandato, la presidente aveva ribadito che Taipei non accetterà mai l’offerta della Cina di “un Paese, due sistemi” in stile Hong Kong. E le proteste e gli scontri anti-governativi e pro-democrazia iniziati a giugno 2019 nell’ex colonia hanno rafforzato a Taipei la convinzione dell’inaccettabilità del piano cinese. “Se la Cina avrà successo a Hong Kong e non sarà fermata non sappiamo quello che potrà succedere dopo” ha spiegato il ministro degli Esteri di Taiwan Joseph Hu in una recente intervista. Oggi La stretta del governo cinese è su Hong Kong, ma domani potrebbe essere su Taiwan.
Da ispionline.it