Lo andiamo dicendo fino allo sfinimento, da queste pagine, e lo ripetiamo a scanso di equivoci: il dato elettorale è sempre stato uno specchio deformato dei reali rapporti di forza tra le classi (e gli schieramenti politici). Cionondimeno è un indicatore interessante dell’orientamento politico, culturale, ideologico di decine di milioni di persone, almeno in Italia. In mancanza di questo strumento ci si può rivolgere solo, con i noti limiti di affidabilità, ai sondaggi d’opinione così di moda in questi ultimi anni. Oppure agli informatori-spie sparsi per il paese, come durante il ventennio fascista. O alle “impressioni”, per definizione ben poco scientifiche ed “oggettive”, raccolte in un bar piuttosto che su un luogo di lavoro o di studio.  Strumento importantissimo lo è stato soprattutto quando, grazie alla presenza di una legge elettorale notevolmente democratica, e, last but not least, al radicamento sociale dei partiti politici di allora, tra il 1946 e il 1992, oltre il 90% degli elettori mediamente si recava a deporre la propria scheda nell’urna, sperando di poter cambiare le cose (almeno a sinistra). Da allora la partecipazione è andata scemando, fino a raggiungere in alcuni casi quasi la metà dei potenziali elettori (tornando a percentuali simili a quelle del 1919-21), grazie a quella che molti osservatori hanno definito “americanizzazione” della politica italiana. Un mix micidiale banalizzazione e di superficializzazione dei messaggi, ridotti sempre più a slogan con nullo o pochissimo spessore politico e culturale, veicolati sempre meno dal confronto diretto tra le persone (comizi, manifestazioni, dibattiti pubblici, volantinaggi, ecc.) e sempre più affidati ai media (TV in primis, ma sempre più anche Internet). L’indebolimento poi di ogni prospettiva generale, dovuto innanzitutto al predominio quasi incontrastato dell’ideologia liberal-liberista e allo scioglimento di fatto dell’impianto di radicamento sociale dei partiti (soprattutto quelli che interessano qui, quelli di sinistra) hanno permesso l’emersione di mostri, mostriciattoli, imbonitori, dilettanti allo sbaraglio e chi più ne ha più ne metta. La proliferazione dei partitini i cui militanti stanno tutti in un taxi (per parafrasare l’ironica autorappresentazione di un esponente dei liberali spagnoli nel 1977), con un programma che definire da one issue party sarebbe già troppo generoso, gonfiati ad arte da un battage pubblicitario rinnovato, mutatis mutandis, ad ogni scadenza elettorale, ha dato il suo contributo alla disastrosa decadenza della politica italiana degli ultimi decenni. Se pensiamo a come hanno “venduto” agli italiani la “riforma” antidemocratica maggioritaria del 1993 (“riduciamo il numero dei partitini!”) non possiamo che restare stupiti della vera e propria insipienza di massa a cui abbiamo e stiamo tuttora assistendo: si è passati da una media di 7/8 partiti presenti in Parlamento durante la cosiddetta Prima Repubblica alle decine di gruppi e gruppuscoli parlamentari dell’ultimo quarto di secolo (oltre alle decine esclusi dalla rappresentanza parlamentare perché non “allineati” con i due/tre poli maggioritari). Probabilmente questa crisi della rappresentanza, a tutte le latitudini, è l’altra faccia della pseudo-democratizzazione (che preferirei chiamare “plebeizzazione”) generata dalle contraddizioni profonde in cui si dibatte sia la leadership borghese sia, nel nostro piccolo, quella dello scalcinato movimento operaio italiano.

Premesso questo, ho tentato, in questo lavoro che mi auguro trovi l’interesse di qualche lettore, di analizzare l’andamento del voto di sinistra in un secolo di storia italiana. Cosa intendo per voto “di sinistra”? Innanzitutto quello ai due storici “giganti” del movimento operaio italiano, il Partito Socialista e quello Comunista . In secondo luogo quello delle varie scissioni e rotture dei due giganti (soprattutto del primo) finché hanno mantenuto un legame con la storia e la tradizione del movimento dei lavoratori del nostro paese.  E in terzo luogo quelle forze minoritarie che, pur esterne, in tutto o in parte, all’origine socialista e marxista del grosso della sinistra (penso al Partito d’Azione nel 1946, ai Verdi a partire dagli anni ’80 o al Partito Repubblicano nel 1919-21, per fare qualche esempio) hanno mantenuto con “quella” sinistra un rapporto di vicinanza e di alleanza (non senza conflitti e contraddizioni) non episodico. Ho diviso il mio lavoro in tre periodi. Innanzitutto il primo dopoguerra, con i due appuntamenti del 1919 e del 1921. In secondo luogo il periodo dal 1946 al 1992. E in terzo luogo il periodo, diciamo così, della crisi e decadenza della sinistra, iniziato con la sconfitta elettorale del 1994 ad opera del piazzista per antonomasia, l’ineffabile Berlusconi, circondato dalla sua corte di nani, ballerine, fascisti e razzisti. Questa affermazione faticosa, a cui è seguito il progressivo declino, della sinistra (di classe o meno) è stata accompagnata da un processo, non esclusivo del nostro paese, ma che da noi ha assunto caratteristiche particolarmente acute, di erosione progressiva e di “digestione”, da parte delle forze borghesi dominanti, di spezzoni sempre più consistenti dello schieramento opposto. Iniziato con la guerra di Libia del 1911-12 (nascita del Partito Socialista Riformista di Bissolati, Bonomi, Podrecca, ecc.), proseguito, dopo la parentesi della dittatura fascista, con l’assorbimento del progetto del Partito Socialista dei Lavoratori-Unità Socialista a egemonia saragattiana tra il 1947 e il 1949, ripreso con successo col PSI craxiano durante gli anni ’80 e primissimi anni ’90, concluso con un vero e proprio colpo da maestri con la progressiva liquidazione dell’identità prima “comunista” e poi “socialista o social-democratica” del PCI-PDS-DS conclusasi con la nascita di un partito sostanzialmente liberal-progressista (a voler essere molto generosi, soprattutto durante la gestione renziana) nel 2007, il capolavoro delle classi dominanti italiane, il Partito Democratico. E, nel suo piccolo, nemmeno l’ala sinistra dello schieramento è stata immune dalle sirene dell’establishment borghese, a cominciare non solo dal famosissimo rinnegato n. 1, l’ex massimalista Benito Mussolini, ed al codazzo di sindacalisti “rivoluzionari” e persino anarchici scopertisi patrioti ed interventisti, ma anche nei più recenti approdi, post anni ’70, nei più variegati partiti che sarebbe difficile definire di sinistra (basti pensare alla parabola del movimento di Di Pietro, per fare solo un esempio). Ma bando alle nostalgiche malinconie sui passati allori. Ecco la prima serie di dati. Un’avvertenza: ho scelto i dati della Camera dei Deputati, sia perché rappresenta un corpo elettorale più ampio, sia per la trasparenza del sistema elettorale proporzionale.

Il primo dopoguerra (1919-1921)

Le elezioni del novembre 1919, le famose “elezioni rosse” di cui parlano i libri di Storia, furono le prime indette non solo a suffragio universale maschile (le donne votavano solo in pochi paesi, innanzitutto nella Russia dei Soviet), ma con scrutinio proporzionale di lista (simile a quello che prevarrà dopo il 1945). Avvennero in pieno “biennio rosso”, sull’onda della Rivoluzione Russa, con il Partito Socialista e i sindacati (soprattutto la CGdL, legata al PSI, ma anche l’USI, anarco-sindacalista) in crescita impetuosa. Pare che i proletari italiani volessero fare come in Russia, ma per il momento si limitarono a votare massicciamente per la falce e il martello dei socialisti. Per lo meno nel Centro-Nord, perché il Mezzogiorno, esclusa qualche zona isolata (come nel Foggiano) rimase ampiamente fedele ai vecchi notabili “liberali”. Il PSI ottenne oltre 1,8 milioni di voti, il 32,3%, con percentuali oltre il 50 % in molte zone del centro-nord. Se a questi voti aggiungiamo i circa 200 mila voti raccolti dai social-riformisti del PSRI, da vari candidati “socialisti indipendenti”,  dai Repubblicani in Romagna, Marche e Toscana, si arriva al 36,5% dei voti, una percentuale più che doppia a quella cui erano abituati i socialisti d’anteguerra. Nei seguenti collegi elettorali la sinistra ottenne la maggioranza assoluta dei seggi. Nell’ordine:  1) Bologna, 87,5%   2) Romagna, 87,5%   3) Mantova, 80% 4) Fer-rara, 75%   5) Novara-Vercelli, 75%    6) Pavia, 75%    7) Cremona, 60%    8) Umbria-Reatino, 60%   9) Emilia occidentale, 57,9%    10) Torino, 57,9%     11) Firenze-Pistoia, 57,1%    12) Pisa-Livorno, 57,1%    13) Verona, 57,1%    14) Alessandria-Asti, 55,7%   15) Ancona-Pesaro, 55,6%    16) Milano, 53,9%     17) Siena-Arezzo-Grosseto, 50%    18) Foggia, 50%    19) Venezia, 50%  20) Siracusa-Ragusa (ma qui PSRI, 50%). Altri 4 collegi ottengono oltre il 40% dei seggi: Padova, Udine-Belluno, Genova (con tutta la Liguria) e Trapani. Como-Varese-Sondrio e Roma (che vuol dire tutto il Lazio meno Rieti, allora umbra), ottengono un terzo dei seggi. L’Aquila, Vicenza, Brescia, Macerata e Lucca  ottengono circa un quarto dei seggi. La vera e propria “Vandea” è quasi tutta al Sud, escluse le due vandee “nordiste”, Bergamo e Treviso, con zone che superano a malapena (come Napoli) il 15% dei voti per la sinistra, e altre che addirittura non arrivano al 10% o addirittura non eleggono alcun deputato di sinistra (Palermo e il resto della Sicilia settentrionale ed orientale, la Campania fuori da Napoli, il Molise, la Sardegna, la Calabria, la Basilicata, la Puglia meridionale.

Come si nota agevolmente, troviamo molte conferme (come l’Emilia-Romagna, il grosso della Toscana e l’Umbria “rosse” o il grosso del Sud, privo di un movimento operaio e contadino organizzato e quindi ancorato alla destra, oppure come le zone “bianche” del Nord, vedi il cuneese, la bergamasca o il trevigiano) ma anche notevoli sorprese (soprattutto per chi si è abituato agli ultimi 25-30 anni). Ci si stupisce un po’ nel vedere tingersi di rosso non tanto la Liguria o le Marche settentrionali (che anzi accentueranno questo colore nel secondo dopoguerra) ma anche il grosso della Lombardia (Milano in testa e non solo le zone tradizionalmente rosse della Bassa sudorientale) e quasi tutto il Piemonte (con l’eccezione del cuneese). E, per quanto riguarda il “bianco” (oggi!) Veneto, se non ci si stupisce troppo del colore di Venezia (storicamente “isola di sinistra” nella regione) che dire del 57% ai “rossi” di una delle province più reazionarie e bianche (ed oggi leghiste) d’Europa come Verona o del 43% di Padova?

Per rendere più facile un rapido sguardo, ho messo i risultati del solo PSI su scala regionale.

  1. Emilia-Romagna (con il PRI)                     60,1
  2. Piemonte  (col PSRI)                                    50,0
  3. Umbria-Reatino                                            46,9
  4. Lombardia                                                     46,2
  5. Toscana                                                           43,9
  6. Friuli e Bellunese                                          41,7
  7. Marche (col PRI)                                            33,6
  8. Veneto                                                              33,5
  9. Liguria                                                              31,5
  10. Lazio                                                                 24,7
  11. Puglia                                                                18,3
  12. Abruzzo                                                            10,3
  13. Sardegna                                                            8,3
  14. Calabria                                                              7,3
  15. Sicilia    (col PSRI e altri indip.)                     6,5
  16. Campania                                                           6,0
  17. Basilicata                                                            5,2

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[continua….]

Flavio Guidi