La leader giapponese Sanae Takaichi cerca di allentare le tensioni con la Cina sullo Stretto di Taiwan.
La crisi che attraversa l’Asia nordorientale non è più un insieme di episodi isolati, ma un’unica struttura di tensione che si estende dal Mar Cinese Orientale allo Stretto di Taiwan. Il ministro della Difesa di Taiwan ha avvertito che lo scontro politico e militare tra Cina e Giappone durerà almeno un anno. Una previsione che non si basa su analisi astratte, ma sulla constatazione che la deterrenza ha sostituito la diplomazia come strumento principale nelle relazioni regionali.
Negli ultimi due anni Tokyo ha aumentato la spesa militare come non succedeva dal dopoguerra, mentre la Cina accelera nell’ammodernamento navale, sviluppa nuovi sistemi aerei e integra capacità cyber e droni autonomi in un’unica dottrina operativa. Per Taipei tutto questo non è un dettaglio: l’isola sente che il triangolo Pechino-Tokyo-Taipei è ormai un circuito unico, in cui ogni scintilla si propaga immediatamente sugli altri due poli.
Il timore taiwanese è che la progressiva erosione dei rapporti tra Cina e Giappone riduca drasticamente gli spazi diplomatici disponibili. Meno equilibrio tra le due grandi potenze del Pacifico vuol dire più pressione su Taiwan, più voli militari all’interno della sua zona di identificazione, più attività navali nelle acque contese e una probabilità crescente che un incidente tecnico, un contatto tra scafi o una violazione di spazio aereo trasformino una crisi controllata in un’escalation difficilmente gestibile. Tokyo, dal canto suo, percepisce che le linee rosse di Pechino si stanno moltiplicando e si avvicinano sempre più ai propri interessi vitali. Non si tratta solo delle Diaoyu, né solo di Taiwan. La posta in gioco riguarda anche le rotte commerciali che sostengono l’economia giapponese, l’energia, la libertà di movimento nel Mar Cinese Orientale e il ruolo del Giappone nell’architettura strategica dell’Oceano Pacifico.
A questa dinamica di lungo periodo si somma un cambiamento politico che riguarda direttamente la posizione giapponese su Taiwan. Il New York Times ha interpretato le recenti dichiarazioni del governo come un allarme globale. Tokyo, tradizionalmente prudente, non considera più la questione taiwanese un dossier esterno. La sicurezza dell’isola, secondo la nuova linea politica, fa parte integrante della sicurezza nazionale giapponese. Si tratta di un cambiamento radicale che solo pochi anni fa sarebbe stato giudicato impossibile. La classe dirigente giapponese sta infatti costruendo un consenso interno attorno all’idea che un eventuale conflitto nello Stretto avrebbe conseguenze dirette sulle isole giapponesi, sulle infrastrutture energetiche, sulle rotte commerciali e sulle alleanze con gli Stati Uniti.
Il significato geopolitico è evidente. Il Pacifico è il teatro principale della competizione tra superpotenze e Taiwan ne è il punto di snodo. Gli Stati Uniti spingono da tempo per un Giappone più assertivo, mentre la Cina legge questa assertività come un tassello della strategia americana di accerchiamento. Tokyo non cerca formalmente uno scontro, ma vuole evitare la marginalizzazione in un nuovo ordine regionale che rischia di essere scritto da altri. Il risultato è un rafforzamento del Quad, una cooperazione più intensa con Australia e India e una rete di accordi logistici con Washington che integra la presenza militare statunitense con quella giapponese.
Un chiarimento che aiuterà?
Le pressioni devono essere state comunque troppe e troppo forti; abbiamo assistito finalmente al chiarimento pubblico di Sanae Takaichi sulla posizione ufficiale del Giappone.
Come riporta il SCMP, dopo settimane di turbolenze nei rapporti con la Cina, il primo ministro giapponese Sanae Takaichi ha cercato di allentare le tensioni con Pechino riguardo a un ipotetico conflitto nello Stretto di Taiwan.
Rispondendo mercoledì alla domanda di un deputato, Takaichi ha dichiarato al parlamento giapponese che la posizione di Tokyo sull’isola è rimasta invariata e ha fatto riferimento a un impegno del 1972 che ha portato alla normalizzazione dei rapporti tra Pechino e Tokyo.
“La posizione di base del governo giapponese nei confronti di Taiwan rimane quella dichiarata nel comunicato congiunto Giappone-Cina del 1972 e non vi è stato alcun cambiamento in questa posizione”, ha affermato Takaichi.
Secondo il comunicato del 1972, “il governo della Repubblica Popolare Cinese ribadisce che Taiwan è una parte inalienabile del territorio della Repubblica Popolare Cinese” e il governo giapponese “comprende e rispetta pienamente questa posizione”.
Il comunicato afferma inoltre che il Giappone “mantiene fermamente la sua posizione ai sensi dell’articolo 8 della Dichiarazione di Potsdam”. Insieme alla Dichiarazione del Cairo del novembre 1943, che stabilisce che il Giappone restituisca i territori sottratti alla Cina durante la guerra, i due documenti sono spesso citati da Pechino come trattati legali a sostegno di Taiwan come parte della Cina.
Le ultime dichiarazioni di Takaichi riecheggiano anche la dichiarazione rilasciata venerdì scorso dal ministro degli Esteri giapponese Toshimitsu Motegi, secondo cui la posizione di base del governo giapponese era “esattamente quella dichiarata nel comunicato congiunto del 1972, e non è né più né meno di questo”.
Ciononostante, il Ministero degli Esteri cinese ha ritenuto la dichiarazione di Motegi evasiva e superficiale.
“Non riescono nemmeno a ribadire pienamente la posizione della parte giapponese”, ha affermato lunedì il portavoce del ministero degli Esteri cinese Lin Jian.
“Il Giappone si limita a fare proclami, mentre agisce in modo unilaterale e arbitrario, il che è del tutto inaccettabile per la Cina. Su questioni di principio fondamentale, il Giappone non deve illudersi di poterla fare franca con inganni o ambiguità.”
I commenti di Takaichi di mercoledì giungono quasi un mese dopo che aveva dichiarato al parlamento che un attacco a Taiwan da parte dell’Esercito Popolare di Liberazione potrebbe costituire una “situazione che minaccia la sopravvivenza” , tale da consentire a Tokyo di intraprendere un’azione militare.
Sulla vicenda è intervenuto anche il presidente statunitense Donald Trump. Nel corso di una telefonata con Takaichi, Trump avrebbe esortato il primo ministro giapponese a ridimensionare le sue dichiarazioni su Taiwan, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, citando funzionari informati sulla questione. Sebbene non le abbia chiesto di ritrattare i suoi commenti, la sua richiesta di “abbassare il volume” ha preoccupato i funzionari giapponesi, che l’hanno interpretata come un segnale che le tensioni legate a Taiwan avrebbero potuto mettere a repentaglio la distensione commerciale tra Stati Uniti e Cina recentemente raggiunta. In una dichiarazione al Wall Street Journal, Trump ha elogiato i rapporti con la Cina e ha sottolineato i vantaggi per l’agricoltura statunitense.
Il capo di gabinetto giapponese Minoru Kihara ha respinto la notizia definendola “non vera”. Ha aggiunto che Tokyo ha presentato una richiesta al Wall Street Journal in merito all’articolo. Anche il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Guo Jiakun, ha affermato che la telefonata era una questione tra Stati Uniti e Giappone, ribadendo che “la questione di Taiwan è un affare interno della Cina e non tollera interferenze esterne”.
La Cina ribadisce quindi che qualsiasi allusione giapponese a interventi militari in difesa di Taiwan verrà interpretata come una minaccia diretta alla propria sovranità.
Il deterioramento della situazione si è manifestato nelle ultime ore con il nuovo scontro tra le guardie costiere cinesi e giapponesi nelle acque delle Diaoyu, chiamate Senkaku da Tokyo.
Le due unità navali si sono affrontate con manovre aggressive e scambi di avvertimenti radio. La guardia costiera è diventata uno strumento chiave della geopolitica a bassa intensità: non sono eserciti in senso stretto, ma ne imitano la postura. Le navi non lanciano missili, ma stabiliscono precedenti. Non occupano territori, ma definiscono spazi di influenza. L’ultimo episodio non sorprende per la sua dinamica, ormai frequente, ma per il linguaggio adottato da entrambe le parti. Il tono è più rigido, più teso, segno che nessuno dei due governi vuole cedere neppure a livello simbolico.
Le Diaoyu non hanno risorse naturali significative, non ospitano popolazioni e non rappresentano un obiettivo economico in sé. Il valore delle isole è la loro posizione e il loro significato politico. Chi le controlla dimostra di poter influenzare le rotte marittime dell’Asia orientale e di affermare la propria sovranità in una zona dove la geografia è diventata materia di potere. Le frizioni su queste rocce disabitate rivelano infatti la vera natura del confronto sino-giapponese: non si contendono chilometri quadrati, ma il diritto di definire il futuro equilibrio del Pacifico.
Il rischio maggiore è quello dell’automatizzazione del conflitto. Più navi, più pattugliamenti, più sorvoli, più contatti ravvicinati creano un ambiente in cui l’errore umano non è un’eccezione ma una possibilità strutturale. Un singolo incidente, interpretato male o gestito peggio, può spezzare un equilibrio che dura da decenni. E in un contesto in cui ogni attore reagisce ai movimenti degli altri, basta un dettaglio fuori posto per dare inizio a una catena di eventi impossibile da fermare.
da: https://dazibao.substack.com/p/sanae-takaichi-taiwan-fa-parte-della
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