Trump annuncia uno “storico” accordo di pace tra Congo e Ruanda, ma dietro la coreografia diplomatica, l’ostilità tra i due paesi africani resta intatta e nell’est del Congo si continua a combattere.
Per un accordo di pace che salta (quello in Ucraina) un altro va in porto. Almeno così sembra credere il presidente americano Donald Trump, che ieri ha enfaticamente annunciato di aver mediato il raggiungimento di un’intesa in uno dei conflitti più sanguinosi e longevi al mondo: quello tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda. “Stiamo avendo successo dove tanti altri hanno fallito e questa è l’ottava guerra che concludiamo in meno di un anno”, ha dichiarato il presidente dal ‘Donald J. Trump US Institute of Peace’ di Washington, recentemente rinominato in suo onore. Al suo fianco erano presenti i leader dei due paesi africani – Félix Tshisekedi, e il suo omologo ruandese, Paul Kagame – che poco prima avevano firmato la seconda fase di un accordo raggiunto a giugno scorso. Dichiarazioni roboanti a parte, però, le cose non sono così semplici e nonostante l’intesa siglata a giugno i combattimenti tra i due pesi nella regione del Kivu, nel Congo orientale, sono continuati, causando migliaia di vittime. I cronisti, poi, non hanno mancato di notare che alla cerimonia – a cui hanno partecipato anche altri leader africani, tra cui quelli di Kenya, Angola, Burundi e Togo, nonché il vicepresidente dell’Uganda – non c’è stata alcuna stretta di mano pubblica tra i due firmatari, che hanno evitato anche di incrociare lo sguardo. Durante l’evento, Kagame ha elogiato Trump definendolo un leader “imparziale”. Allo stesso modo Tshisekedi ha espresso “profonda gratitudine e speranza” affermando al contempo di sperare che il Ruanda “rispetterà la lettera e lo spirito dell’accordo”. Alla firma, che Trump ha ribattezzato ‘Accordi di Washington’, erano presenti anche i ministri degli Esteri del Qatar e degli Emirati Arabi Uniti e il Segretario di Stato americano Marco Rubio.

Guerra di narrazioni?
Quella in atto da oltre 30 anni tra Kinshasa e Kigali è innanzitutto una guerra di narrazioni: il Ruanda, pur negando ogni sostegno a gruppi armati attivi nella regione, afferma di aver adottato “misure difensive” nella Repubblica Democratica del Congo orientale a causa della minaccia rappresentata dai miliziani Forze Democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), che comprendono i combattenti responsabili del genocidio ruandese del 1994. Mentre Kagame insiste sul fatto che le Fdlr devono essere disarmate, Kinshasa chiede il ritiro delle truppe ruandesi dal suo territorio. Entrambe queste condizioni sono incluse nell’accordo di pace. Tuttavia, diverse intese risalenti agli anni ’90 sono fallite dopo che il Ruanda ha accusato il precedente governo congolese di non aver disarmato le milizie, e questo rimane uno dei principali ostacoli per porre fine al conflitto. All’inizio di quest’anno, il gruppo ribelle Movimento 23 Marzo (M23), il cui nome si riferisce a un precedente accordo di pace fallito, ha ripreso le armi, ufficialmente per difendere i diritti discriminati della comunità Tutsi congolese. Tuttavia, gli esperti delle Nazioni Unite sulla RDC hanno presto identificato, nei loro rapporti semestrali, il coinvolgimento delle forze armate ruandesi a fianco dei ribelli, all’interno del territorio congolese.
Un tesoro che fa gola a molti?
A complicare le cose c’è il fatto che la regione teatro del conflitto ospita giacimenti di minerali e metalli preziosi tra i più ricchi al mondo, stimati in 25mila miliardi di dollari e sui cui tutte le parti in lotta vogliono mettere le mani. Tra questi cobalto, rame, litio, manganese e tantalio, ingredienti essenziali per realizzare i componenti elettronici utilizzati nei computer, nei veicoli elettrici, nei telefoni cellulari, nelle turbine eoliche e nell’hardware militare. E dunque alla base del progetto di Trump c’è un accordo economico che vedere la Repubblica Democratica del Congo e il Ruanda collaborare nei settori dell’energia idroelettrica, dell’attività mineraria e dello sviluppo delle infrastrutture. La logica è che lo sfruttamento del territorio possa fornire il dividendo della pace. Ma analisti e osservatori sono scettici sul fatto che l’accordo possa portare a una stabilità duratura. L’intesa si basa infatti sulla rinuncia del potere da parte dell’M23, che attualmente controlla il territorio attraverso un governo parallelo con cui controlla l’intero processo di estrazione dei minerali rari, dalle catene di approvvigionamento alla raccolta dei rifiuti. Il punto è che i ribelli non hanno mostrato alcuna intenzione di smobilitare e anzi, a poche ore dalla firma dell’intesa a Washington, hanno ripreso la loro avanzata verso sud. I colloqui di pace a Doha tra Congo e M23 non hanno prodotto alcun consenso su questioni come la restituzione delle aree controllate dall’M23 al controllo del governo congolese, il disarmo dei gruppi armati e la giustizia per le vittime.
Trump e la diplomazia delle tre P?
Trump non fa mistero, mentre annuncia la pace, di pensare anche al profitto. L’accordo – osservano funzionari di Washington – aprirà le riserve minerarie della regione alle aziende americane, in particolare le riserve di rame e cobalto, utilizzate per produrre batterie per prodotti come telefoni cellulari e veicoli elettrici. Gli accordi economici rientrano in un’iniziativa volta ad aiutare gli Stati Uniti a competere con la Cina per l’approvvigionamento di minerali essenziali. “C’è un’enorme ricchezza in questa, in quella splendida terra. Ma è stata macchiata di sangue. Un’enorme quantità di sangue” ha detto Trump, protagonista in passato di insulti contro vari paesi africani. “D’ora in poi saremo coinvolti nell’invio di alcune delle nostre aziende più grandi e prestigiose nei due Paesi”, ha aggiunto. “E prenderemo parte delle terre rare, estrarremo parte delle risorse, pagheremo e tutti guadagneranno un sacco di soldi”. Secondo l’imprenditore libanese-americano Massad Boulos, Consigliere speciale per l’Africa e consuocero di Trump, l’intesa rappresenta bene il nuovo approccio della diplomazia americana in Africa: “La nostra politica per l’Africa si basa sulle tre P. La prima è la pace – ha spiegato – la seconda è la partnership. La politica del Presidente Trump è quella di stabilire partnership vantaggiose per tutte le parti. L’idea è di attrarre investitori e aziende statunitensi per investire nei paesi africani, con il pieno supporto del governo statunitense e delle sue istituzioni. Numerosi progetti sono già stati firmati, nonostante l’amministrazione Trump sia in carica da soli otto mesi. Infine, la terza P è la prosperità, che deriva dalla pace e dalle partnership”.
Il commento
Di Giovanni Carbone, Head, ISPI Africa Programme
“Lo scontro in corso da anni tra Rwanda e Congo non diretto ma mediato: si interviene, ma per lo più con la mano nascosta. Nonostante l’aumento delle pressioni internazionali e, ora, il nuovo patto stipulato a Washington, Kigali, i cui interessi sono invariati, verosimilmente proseguirà il suo sostegno all’M23 perché è nella posizione di poter continuare a farlo e a negare di farlo. Le smentite di un proprio coinvolgimento genereranno sì qualche ulteriore bacchettata, ma probabilmente non si andrà molto oltre. L’approccio che l’Amministrazione americana segue in Africa e nel mondo, in particolare, non è tale da portarla a sanzionare paesi con i quali ha appena stipulato accordi strategici in un’area molto competitiva. Per la stabilità regionale e le popolazioni locali purtroppo cambierà poco.”
Da: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/congo-ruanda-trump-e-la-pace-senza-pace-225127
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