a cura di Andrea Ferrario
A Taiwan
Le votazioni svoltesi ieri a Taiwan per la revoca del mandato di 24 deputati del Kuomintang (KMT), partito all’opposizione del presidente Lai Ching-te ma che, insieme al suo partner di coalizione, detiene la maggioranza in parlamento e sostiene da tempo posizioni favorevoli agli interessi di Pechino, si sono concluse con una disfatta totale per chi sostiene la linea di Lai. Non è stata raggiunta la soglia di revoca per nemmeno uno dei 24 deputati. Il KMT mantiene quindi, insieme al suo alleato Partito Popolare di Taiwan (TPP), 62 seggi in parlamento contro i 51 del Partito Progressista Democratico (DPP) del presidente Lai. Ad agosto si terrà il voto per la revoca dei mandati di altri sette deputati del KMT, ma la matematica è spietata: perché la situazione in parlamento si capovolga è necessario che almeno sei dei sette deputati vengano revocati, e che poi tutte le elezioni suppletive vedano i candidati KMT perdenti, praticamente una missione impossibile.
Taiwan era divisa e instabile già prima del voto, ora lo sarà molto di più. La Cina, dopo questo esito, detiene una notevole leva politica aggiuntiva e non mancherà di farla sentire per cercare di destabilizzare maggiormente il paese. Gli Usa, già ambigui nei confronti dell’amministrazione Lai, così come l’Ue, che gli ha sempre offerto solo indifferenza, ora disporranno di una nuova scusa per abbandonare di più Taiwan a se stessa. Nell’ultimo paio di settimane il DPP aveva commesso numerose gaffe politiche che lo avevano messo in cattiva luce, ma l’entità della sconfitta del fronte democratico è tale che i suoi motivi hanno sicuramente radici più profonde di eventi dell’ultimo momento. Lai dovrà rivedere attentamente le proprie posizioni. In generale, i prossimi mesi saranno delicatissimi per l’isola.
In Cina
In Cina sono stati approvati nuovi regolamenti disciplinari per le forze armate, che tuttavia non sono stati resi pubblici. Parallelamente, il quotidiano dell’Esercito di Liberazione Nazionale (PLA) ha avviato la pubblicazione di una serie di articoli sul medesimo tema. Il primo di essi, che cita a titolo di esempio un passato “traditore” di Mao, sembra fare intendere che le recenti intense purghe ai massimi vertici militari siano da attribuirsi se non a un vero e proprio tradimento, a un’infedeltà di esponenti militari verso Xi Jinping – si era forse formato un gruppo che puntava a tramare contro di lui? Non è chiaro. Ad ogni modo l’approvazione dei regolamenti e la serie di articoli sono stati interpretati da alcuni osservatori come il segno del fatto che l’operazione di pulizia dei vertici militari sia giunta al suo compimento. Vista la totale cripticità del potere cinese, si tratta di considerazioni da prendere con la dovuta prudenza.
Due appuntamenti politici del prossimo futuro potrebbero, se non chiarire la situazione, almeno dare un’impronta più netta agli sviluppi. Il primo sarà quello della tradizionale riunione annuale di inizio agosto, nella località marittima di Beidaihe, dei massimi vertici del potere cinese – una riunione informale a porte chiuse, che non rilascia dichiarazioni, ma che di norma fa il punto della situazione e imposta gli sviluppi futuri. Il secondo appuntamento sarà quello del Quarto Plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista, con il quale verranno adottate decisioni politiche importanti e che dovrebbe tenersi in autunno o comunque a fine anno (ma quello del 2024 è slittato di mesi in avanti).
Allo stesso tempo vanno tenute d’occhio le relazioni internazionali di Pechino, in particolare quelle con gli Usa. Tira forte aria di disgelo tra i due paesi. E’ probabile un accordo sui dazi (per la Cina la scadenza è il 12 agosto) e gli Usa hanno già fatto concessioni importanti sui chip NVIDIA. Si parla anche di un possibile incontro Xi-Trump entro fine anno, forse già in autunno. Tutto ciò si inserisce in una fase in cui Pechino continua, seppur con una certa prudenza ma in modo sempre più chiaro, a dare appoggio alla Russia. Contemporaneamente, si nota un riavvicinamento tra Cina e Corea del Nord, dopo che quest’ultima si è schierata sempre più, e continua a schierarsi, a fianco della Russia in tutti i campi. La mia impressione personale è che si stia delineando una sorta di coordinazione tra Washington, Pechino, Mosca e Pyongyang, qualcosa come una divisione dei compiti, seppure finora in forma nebulosa.
Usa e Cina, pur in reciproca concorrenza, hanno molti interessi comuni, soprattutto economici ma non solo. La Russia ha bisogno dell’aiuto di Pechino e quest’ultima ha bisogno di Mosca come alleata sul piano internazionale. Pyongyang ha bisogno sia di Mosca sia, a livello soprattutto economico, di Pechino. E potrebbe avere convenienza ad aprire un po’ a Trump. Esagero un po’, ma forse potrebbe essere questo il nuovo “fronte multipolarista”? E’ una domanda provocatoria, certo, ma mi sembra inevitabile porsela. A pagarne il prezzo sarebbero soprattutto Giappone e Corea del Sud, lasciati a gestire da soli l’invadenza cinese. Gli Usa hanno per l’ennesima volta cancellato in questi giorni senza motivazioni credibili un incontro con la Corea del Sud, e ormai manca solo una manciata di giorni alla scadenza dell’ultimatum sui dazi, che peserebbero moltissimo su Seul. E l’accordo firmato con il Giappone, stando a quanto è noto, è molto svantaggioso per Tokyo, che tra l’altro attraversa una fase politica estremamente instabile e delicata dopo le elezioni della settimana scorsa.
Nel SudEst asiatico
Nel momento in cui scrivo, il conflitto tra Thailandia e Cambogia sta registrando un’escalation. Decine di morti, almeno 150.000 sfollati, decine di migliaia di migranti cambogiani che fuggono dalla Thailandia. Si è anche aperto un nuovo fronte sul mare, quindi lontano dalla zona contesa dei templi sul confine, da cui sono partiti gli scontri armati. Ormai sono coinvolte, oltre le truppe di terra e l’artiglieria, anche la marina e l’aviazione. La Thailandia ha un esercito decisamente più forte di quello cambogiano.
Il tutto si intreccia con rapporti politici già tesi che hanno effetti interni, in particolare in Thailandia, dove la premier Paetongtarn Shinawatra poco prima dell’aprisi del conflitto è stata costretta alle dimissioni per una telefonata troppo conciliante, e in alcuni momenti umiliante, con i vertici di Phnom Penh. Una telefonata che doveva essere riservata ed è stata invece resa pubblica proprio da questi ultimi. Dietro al conflitto c’è anche una rottura tra due dinastie politiche un tempo vicine, come quella di Thaksin Shinawatra, padre della premier thailandese dimessasi, e quella del padre-padrone della Cambogia, Hun Sen, di cui l’attuale premier Hun Manet è figlio.
Difficile prevedere come evolverà la situazione, se cioè si giungerà a qualche forma di cessazione delle ostilità o se si andrà verso una guerra vera e propria. Le ultimissime notizie parlano di una proposta di cessate il fuoco da parte di Trump, che si offre quindi direttamente come mediatore. La Cambogia formalmente è disponibile, la Thailandia non dice no a Trump, ma nicchia – e intanto gli scontri armati proseguono intensi. Se un cessate il fuoco mediato da Trump dovesse avere successo e durare nel tempo, sarebbe un duro scacco per la Cina, che per l’ennesima volta farebbe la figura di attore di secondo piano, e questa volta in più nel proprio cortile di casa.
Il contesto più ampio del conflitto è comunque preoccupante. La Thailandia confina con il Myanmar già in guerra, c’è il rischio che si formi un continuum di di conflitti militari su gran parte del territorio indocinese. E si potrebbe andare anche più in là: nei giorni scorsi l’India è intervenuta militarmente nel Myanmar per colpire un gruppo separatista che ha trovato rifugio nel territorio birmano, mentre nell’area si aggiunge anche la situazione di un Bangladesh estremamente instabile. La Cambogia, da parte sua, è diventata una semicolonia della Cina, cui è vicinissima. La Thailandia invece è ampiamente autonoma rispetto a Pechino, alla quale comunque è legata da intensi rapporti economici e politici dai quali non può, e soprattutto non vuole, prescidendere.
Quanto al clima
L’intera regione è colpita da oltre un mese da un’ondata di caldo senza precedenti. Sono stati battuti svariati record storici e nessun paese è stato risparmiato. La Corea del Sud ha alternato caldo record e inondazioni devastanti in seguito a piogge superiori alla media, fenomeni che hanno entrambi causato morti. Anche il Giappone è stato colpito da un’ondata di caldo dai record storici (a giugno i ricoveri per colpi di calore hanno superato ogni dato precedente). Caldo soffocante, con pesanti effetti sulla salute, pure in Cina, dove ci sono state anche inondazioni, e in Corea del Nord, dove le notizie che trapelano parlano di lavoratori agricoli morti per colpi di calore. In breve: anche nell’Asia Orientale i cambiamenti climatici si fanno sentire in modo devastante, impensabile fino a poco tempo fa.
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