Quando fra un centinaio di anni uno storico proverà a raccontare “l’eroica resistenza” del popolo di Gaza e ne cercherà le tracce nelle foto, nei filmati, nei documenti, nella cronaca delle azioni militari, non troverà nulla, perché non c’è nulla da trovare.

E se cercherà i segni della solidarietà verso quella lotta, a parte minoranze di intellettuali nell’Occidente colpevole che, come sempre accade nella storia, svolgono il ruolo di coscienza critica, non troverà nient’altro.

Né uno sciopero atto a fermare l’invio di armi verso Israele, né il blocco di un’ambasciata, e nemmeno una raccolta di fondi come si fece col Cile per inviare armi ai resistenti del Mir.

Si meraviglierà del fatto che nessuno dei paesi un tempo amici dei palestinesi abbia rotto le relazioni diplomatiche e gli accordi economici con Israele.

E che nessuno fra le forze politiche democratiche lo abbia chiesto.

Scoprirà che Gaza è rimasta sola, non è stata “la scintilla capace di incendiare la prateria” e che anzi quella prateria, appena un po’ oltre quel muro che la divide dal mondo degli umani, se ne è bellamente fottuta.

Se cercherà attorno a Gaza i segni di una resistenza di popolo, lì nei campi profughi della Giordania, della Siria, del Libano dove la maggioranza dei palestinesi conducono la loro vita stentata, dove vivono coloro che non hanno proprio più nulla da perdere sostenuti dalla carità dei paesi arabi ricchi, nemmeno li troverà segni tangibili di una partecipazione attiva alla guerra di Gaza.

Nessuna rivolta, nessuna intifada, nessuno che si arruolava come succedeva in passato per andare a combattere accanto ai propri fratelli.

Nemmeno in Cisgiordania dove la guerra ce l’hanno portata i coloni israeliani e dove a tirare sassi erano solo quattro ragazzini.

Anche perché a tirare sassi si finiva per essere arrestati al posto di quelli che venivano liberati vittime della contabilità da ragioneria del terrore: 1 ne libero e 10 ne arresto.

Di università occupate nel mondo arabo non se ne sono viste, di manifestazioni di popolo che imponevano ai loro governi di “salvare Gaza” nemmeno l’ombra, tranne nelle zone controllate dalle milizie islamiste.

Nemmeno quel 20% di cittadini israeliani arabi (musulmani, cristiani, drusi), che vivono la condizione dei neri d’America degli anni ’50 e che rappresentano il grosso del proletariato israeliano, si sono mobilitati a sostegno di Gaza.

Lo sciopero generale lo ha fatto un sindacato israeliano per chiedere al governo di fare la pace e trattare la liberazione degli ostaggi.

E se cercasse di orientarsi da fonti e da dichiarazioni ufficiali difficilmente troverebbe una dichiarazione di uno degli undici membri arabi della Knesset.

Il nostro storico che conosce la Guerra del Kippur del 1973, con l’embargo petrolifero dell’OPEC, il prezzo del petrolio che si quadruplicava e la prima crisi energetica di entità mondiale, inutilmente cercherà le foto delle cittadelle imperialiste deserte con le macchine ferme e le tv che smettono di trasmettere alle 10 di sera.

Registrerà che nulla è cambiato nel mondo e che la guerra di Gaza non ha influito minimamente nei rapporti politici e commerciali fra il mondo arabo e Israele e i suoi alleati.

Vedrà scorrere davanti agli occhi le immagini del 7 ottobre, in cui uomini armati sparano a uomini donne e bambini disarmati e catturano chiunque possano catturare e se ne tornano vittoriosi nei loro cunicoli.

Anche li le tracce di una azione militare significativa si perdono nel nulla. Un carro armato, o forse due, messo fuori uso, una caserma di polizia occupata per qualche ora, il dormitorio femminile di una caserma conquistato.

L’immagine di un eroe vestito di nero che accudisce una mezza dozzina di lattanti presi in ostaggio.

Da bravo storico a quelle immagini in cui si documenta la “caccia all’ebreo” darà un peso maggiore di quello che gli diamo noi.

Perché le hanno girate, non i nemici israeliani, ma gli stessi autori del 7 ottobre.

Era il loro messaggio politico, il loro proclama, il loro biglietto da visita. L’averlo ignorato e nascosto sotto il tappeto sarà forse l’elemento che più lo stupirà e che lo farà dubitare della capacità critica dei suoi lontani progenitori.

Poi ci parlerà della lunga trattativa in cui i capi dei guerriglieri di Dio, che si guardavano lo svolgersi degli eventi comodamente accoccolati sui loro tappeti, e che secondo certe fonti giudiziarie prendevano soldi dagli stessi che finanziavano l’odiato nemico, trattavano il prezzo del rilascio dei prigionieri.

Mentre l’odiato nemico che quel momento lo aveva aspettato da anni, e che aveva pure fretta per far dimenticare che era un ladro e un corruttore sul punto di finire in galera, si portava avanti col lavoro.

Lo storico del futuro studierà anche i filmati della liberazione degli ostaggi ma essendo abituato a discernere fra la realtà e l’apparenza li derubricherà come “prove false”, rappresentazioni teatrali per nascondere il nulla di una setta di dementi il cui unico scopo nella vita era di raggiungere il proprio Dio eroicamente portandosi dietro quanti più sventurati possibile. Che nel loro aldilà se ci arrivi accompagnato accumuli più punti premio.

Perfino la parata dei missili iraniani “contro gli infedeli”, tutti intercettati prima di toccare lo spazio aereo israeliano, e le punture di spillo di Hezbollah gli appariranno, nella prospettiva storica, pure espressioni di isterica impotenza.

Di Gaza studierà la geografia e non potrà non vedere quel muro che la chiudeva da tutti i lati.

Da tutti i lati. Pure uno storico alle prime armi comprende benissimo i motivi per cui gli israeliani volevano tenere lontani e separati i palestinesi di Gaza. Erano nemici.

Ma a sud perché costruire un muro?

Un muro per impedire agli amici di raggiungerti nel bisogno, mentre ti stanno massacrando, mentre ti stanno affamando?

Ma il nostro storico non è un principiante e sa bene che, nei rapporti fra gli Stati l’amicizia non esiste. Esiste l’interesse e non si meraviglierà se l’interesse di Egitto e Israele, ieri nemici mortali, oggi diventano, se non proprio amici, conniventi.

Un lager. Un lager costruito per l’annientamento di chi ci stava dentro. Un lager per perpetrare un genocidio.

Ma forse su questo termine avrà qualche dubbio, troppo debole e perfino inflazionato.

Occorrerà trovare un termine capace di definire la “macelleria israeliana” perpetrata a Gaza.

Qualcosa di così orribile da renderlo più intollerabile dei genocidi del passato.

Lo storico sa bene che prima dello scatenarsi di un genocidio c’è sempre un momento in cui una componente piccola o grande di quel popolo può salvarsi scappando.

Tanti ebrei lo fecero in tempo e riuscirono a rimanere vivi.

Ma ai 2 milioni di abitanti di Gaza non è stato permesso il diritto alla fuga. Non gli è stata garantita nemmeno la possibilità di salvare i loro bambini. Nemmeno quella di metterli su un barcone e abbandonarli alla clemenza del mare.

Non gli è stato permesso il diritto di arrendersi.

Un lager. E nei lager ci stavano i kapò. Ebrei che facevano i carcerieri di altri ebrei.

E a uno storico attento che conosce la storia di Gaza, di Vik ammazzato perché “corruttore delle coscienze”, delle donne di Gaza a cui è stato tolto il fucile e messo il velo, della guerra fratricida che aveva portato alla conquista di quella striscia di terra, della dittatura settaria di Hamas mascherata da “Stato sociale”, di certo almeno il dubbio che erano proprio gli islamisti i kapò di quel lager sorgerà.

Qualche traccia delle chiacchiere sui social e qualche vecchio volantino ingiallito sicuramente arriverà sul suo tavolo di lavoro.

Sostenere la “resistenza fino alla vittoria” “Palestina libera dal fiume al mare”.

Su quel tavolo ci sono cataste di foto.

E’ la resistenza che quelle foto narrano non è quella scritta sui volantini.

Una folla disperata che vaga fra le macerie, su cui piovono le bombe. Una folla di affamati e assetati. Una folla di malati massacrati sui letti degli spedali.

Una folla di scudi umani destinati al martirio.

Una folla di vittime chiuse in una trappola mortale.

E la bandiera bianca della resa.

Almeno fin quando agitarla serviva a qualcosa, che nemmeno più le ambulanze sono un posto sicuro.

Poi, solo i sacchi bianchi che si accumulano uno accanto all’altro fin quando non ci sarà più nemmeno lo spazio dove metterli.

Folla di profughi disperati che ci implorano di far finire questa lunga e interminabile agonia.

E oltre il muro, nel ghetto costruito per i carcerieri da un mondo che ha trovato comodo risolvere la “questione ebraica” dandogli uno Stato dove potessero fare quello che gli pareva senza rompere i cabasisi nei loro paesi di origine, i parenti e gli amici di chi è stato preso come ostaggio.

Ostaggi per caso. Gente comune, di nessun valore, gente che Netanyahu poteva sacrificare senza troppi contraccolpi.

Invano il nostro storico ne cercherà uno che avesse un ruolo appena appena significativo.

Nemmeno un sindaco, nemmeno un ufficiale, un funzionario statale, un politico di quelli che organizzano i coloni, un obiettivo politicamente rilevante.

Si domanderà che razza di coglioni erano quelli che volevano piegare al ricatto una potenza militare che ha metà della popolazione perennemente sotto le armi.

Che gode dell’appoggio incondizionato delle potenze occidentali e della benevola condiscendenza delle altre.

Cercherà una ratio, Una spiegazione.

Poi, siccome per gli storici la coglionaggine non è una spiegazione soddisfacente, proverà a scavare nella natura di chi ha provocato questo disastro.

A analizzare la storia e il ruolo della “direzione politica” che ha creato l’occasione di questa guerra e permesso la “definitiva soluzione” del problema palestinese.

E si domanderà come mai nessuno lo abbia fatto, nessuno abbia provato a guardare i fatti che si svolgevano sotto i suoi occhi.

Come mai questa corsa a nascondere la realtà, a negarla, a coprire di insulti sempre più infamanti coloro che provavano a raccontarla la storia di Gaza per come appare da quelle foto.

Gli unici documenti che la storia la narrano nella loro oggettività, per quello che è e non per come la si immagina.

Se Dio acceca coloro che vuole perdere, il vostro dio sta proprio lavorando alla grande.

Guardatele quelle foto, cazzo!, guardate le facce di quei “resistenti”, guardate la realtà per come è e non per come pensate dovrebbe essere.

Scendete dal cavallo sul quale siete saliti convinti di dirigerne la corsa.

Non era un cavallo era un mulo buono solo a tirare calci a destra e a manca. Un bastardo nutrito di erba velenosa.

Mario Gangarossa


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