di Gianni Sartori

Si, lo so. L’avevo già detto (e anche ripetuto se è per questo). Ma ogni volta che ci penso non posso fare a meno di rammaricarmi. E anche di voler condividere con altri questa amara contraddizione. Come la compianta Rossana Rossanda quando – parlando d’altro, ma l’analogia non manca – diceva: “E perché dovrei starci male solo io?” (vado a memoria, ma il concetto era questo).

Nel nostro caso, constatare come due popoli ugualmente oppressi, perseguitati, massacrati etc… siano stati, loro malgrado penso, spinti su sponde opposte del fiume della Storia. O almeno apparentemente opposte. In realtà se ragioniamo in termini di oppressi e oppressori mi sembrano accatastati sulla stessa barca, alla deriva.

Lo spunto viene stavolta dall’apprendere che tra le agenzie “caritatevoli” che finanziano l’installazione di famiglie di jihadisti nei territori del cantone di Afrin (invaso, occupato dalla Turchia e dalle sue bande mercenarie ormai da cinque anni), in sostituzione della popolazione indigena (per lo più curda) ci sono anche quelle dell’Autorità palestinese.

Andiamo con ordine.

Risale ai primi mesi del 2018 l’invasione di Afrin da parte dell’esercito turco supportato pesantemente dalle milizie jihadiste. Il processo di sostituzione etnica era cominciato già allora. Con la costruzione di insediamenti (colonie in stile israeliano si direbbe) per i mercenari jihadisti (ascari?) e i loro familiari, provenienti in genere dai territori riconquistati da Damasco. I complessi residenziali (o meglio: gli insediamenti) vengono realizzati con il sostanzioso contributo di organizzazioni cosiddette “caritatevoli” del Qatar, del Kuwait e appunto anche dell’Autorità palestinese. Tra le principali “Sakhaa” che proprio recentemente, con finanziamenti del Kuwait, ha realizzato un nuovo insediamento nel nord-est di Aleppo. Tra i villaggi di Kafaromah e di Qartqlak Sagher (distretto di Shera) gli ulivi secolari sono stati sradicati per far posto alle abitazioni di altre famiglie di jihadisti.

Invece a Tarnada (ancora nell’area di Afrin) è sorto un intero villaggio denominato “Al-Amal 2”  (il che lascia intuire la preesistenza di un Al-Amal 1), realizzato con i contributi congiunti di Qatar e Autorità palestinese. In questo caso parliamo di ben 500 unità residenziali fornite di due scuole, uno stadio, una clinica e ovviamente una moschea con annesso un istituto per l’apprendimento del Corano.

Si calcola che oltre un terzo degli autoctoni di Afrin se ne siano già andati (diventando sfollati interni) mentre chi è rimasto viene sottoposto alle angherie, alle violenze dei mercenari di Ankara. Con decine di vittime e centinaia di persone rapite, anche negli ultimi mesi.

Come non stabilire analogie con le vicende del popolo palestinese che in questi giorni, in particolare nel campo profughi di Jenin, viene attaccato dall’esercito israeliano? Il 3 luglio era iniziato l’assalto a Jenin da parte di un migliaio di soldati con l’appoggio dell’aviazione (lanciati diversi missili). Solo nelle prime ore venivano uccisi una decina di palestinesi e feriti circa un centinaio (di cui una ventina molto gravemente).

Come da prassi abituale, distrutte con i bulldozer decine di abitazioni e infrastrutture, danneggiando in particolare le forniture di acqua e di elettricità. Gli sfollati si contano a centinaia.

L’operazione ha provocato manifestazioni di protesta sia a Gerico (almeno un ferito) che a Betlemme (dove le forze israeliane hanno ampiamente usato gas lacrimogeni contro una marcia pacifica), Al-Bireh e Ramallah. Altre proteste nei villaggi di Nabi Saleh e Aboud e nei campi profughi di Al-Jalazoun e diAl-Fawwar. Dove, oltre ai lacrimogeni, le forze israeliane hanno fatto largo uso di proiettili di plastica.

Gianni Sartori