di Franco Turigliatto
Non è stato un bel congresso quello della CGIL, soprattutto non è stato un bel congresso per le prospettive future delle lavoratrici e dei lavoratori, molto più simile a una convention, a una rappresentazione che non a un’assise in cui si discute e ci si confronta tra militanti e dirigenti dell’organizzazione su cosa si debba fare per fronteggiare una situazione sociale drammatica per il mondo del lavoro e per la maggioranza della popolazione.
Non so quanti hanno avuto modo di vedere il programma dei lavori del congresso, dove i momenti di discussione sono strati drasticamente ridotti, interrotti ed intervallati da interviste ai personaggi più diversi e a confronti con forze politiche e sociali senza nessuna continuità nel dibattito tra le/i delegate/i. La giustificazione avanzata “tanto si sa che la linea è già stata decisa dai congressi di base” non è certo valida; in un congresso, anche se già sono definite le linee di fondo, la discussione è utile perché permette alle/ai partecipanti di socializzare i problemi, di comprendere meglio le difficoltà incontrate, soprattutto, in questa occasione, di discutere su come trasformare in azione i contenuti rivendicativi indicati nei testi. Dovrebbe essere facile comprendere che, nell’attuale crisi politica e sociale, per il più grande dei sindacati l’interrogativo non è tanto cosa dire, ma cosa fare.
Va da sé che il nodo politico del congresso (e al centro dell’attenzione dei media) è stato l’invito a intervenire dal palco alla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni che guida non solo il governo più di destra della storia repubblicana, ma un governo i cui tratti e intenzioni richiamano per molti versi elementi di riferimento al fascismo stesso.
Un governo e un movimento delle destre che fanno parte di un contesto internazionale caratterizzato da una inquietante ascesa di forze reazionarie e fasciste nei più diversi paesi, compresa l’Europa.
L’argomento avanzato da Landini per compiere una simile scelta è stato “Dobbiamo ascoltare che cosa propone e vuole dirci la Presidente del Consiglio”. Siamo di fronte a un basso e truffaldino sofisma, direi quasi una presa in giro delle lavoratrici e dei lavoratori che purtroppo è in continuità con un assurdo posizionamento politico che dura ormai da molti mesi rappresentato dallo slogan, “andiamo a veder che cosa propone il nuovo governo”. Quasi che potessero esserci dei dubbi fin dal primo giorno e dalla relazione programmatica della Meloni al Parlamento su cosa volesse fare il governo. Trascorsi 5 mesi, dopo aver assistito alle politiche scellerate del governo contro i migranti, i poveri, dopo il susseguirsi delle sue misure economiche e sociali reazionarie già realizzate o in avanzata fase di realizzazione, proseguire su questo orientamento di attesa facendo venire la Meloni al Congresso della maggiore organizzazione del movimento operaio, di cui è nemica giurata, non è solo sbagliato, ma è diabolico. L’ultimo Consiglio dei ministri poi con il disegno di legge delega sul fisco che offende completamente il carattere progressivo della imposizione fiscale voluto dalla Costituzione, che coccola gli evasori, favorisce i ricchi e prepara nuovi tagli alla sanità, alla scuola, ai servizi che distrugge ogni intervento serio verso chi è in difficoltà, che ritira fuori la folle costruzione del Ponte di Messina esprime pienamente la natura di estrema destra liberista di questo governo. Sono politiche liberiste estreme, del tutto interne alle logiche capitaliste di questa fase, condite e confezione con concezioni ideologiche e culturali di estrema destra che negano i diritti, una vera propria disgrazia e un pericolo gravissimo per le classi lavoratrici, che si vogliono divise, frantumate, del tutto assoggettate alla centralità delle imprese e del loro sfruttamento. Tutto questo con estrema durezza e chiarezza ha sciorinato la Meloni davanti al congresso.
A chi mai poteva giovare questa operazione, se non alla disinvolta Presidente del Consiglio, (tanto più in una situazione di forte difficoltà politica davanti all’opinione pubblica dopo la vergogna delle scelte inumane e razziste di Cutro), che sa combinare le scelte tattiche con una ben precisa volontà di conseguire fino in fondo il suo progetto politico? La direzione della CGIL nel suo sonno della ragione, o possiamo dire nel suo opportunismo, ha solo dato credibilità e autorevolezza al principale nemico politico e storico della classe lavoratrice, confondendo ancor di più la coscienza di classe, già molto bassa, e le idee di milioni di lavoratrici e lavoratori.
Il contrario di quel che andava fatto in un congresso sindacale, indicare chiaramente i contenuti, ma anche gli avversari (padroni e loro governi) contro cui combattere.
Il congresso non può essere concepito come una specie di talk show di discussione televisiva. Doveva essere usato per denunciare il carattere antioperaio e antipopolare di questo governo, al servizio dei capitalisti e di organizzare la lotta contro le sue politiche e quelle dei padroni, doveva cioè attivare la lotta di classe fino in fondo da parte operaia.
Certo alla fine del congresso a fare da contraltare politico alla Meloni è arrivato l’intervento del segretario, volto a motivare e a rilanciare l’azione dei militanti e dell’apparato della Confederazione. Ci mancherebbe!
Solo che le conclusioni di Landini, in cui ha riaffermato ovviamente la profonda distanza delle posizioni della CGIL da quelle del governo e l’ennesima proposta di aprire un periodo di mobilitazione (quante volte l’ha fatto in questi anni senza che seguissero i fatti) se possono aver rianimato l’attonita platea congressuale, costretta ad ascoltare il nemico in un gelido silenzio che in realtà testimonia dello stand bye del sindacato, non possono modificare il successo ottenuto dalla Presidenza del Consiglio che ha potuto gestire una situazione in cui, fischiata o non fischiata, sempre sarebbe risultata vincente. Vedasi anche in proposito il bell’articolo di Marco Revelli “Quei 30 che hanno salvato l’anima alla CGIL”
Per non parlare dei 40 minuti di faccia a faccia tra la Meloni e Landini che non possono che inquietarci ancor di più, perché indicano per quale fasulla via, qualcuno speri di ottenere qualche concessione dalle destre al potere. La Meloni ha di certo usato quell’incontro per capire quali ostacoli sindacali potrebbe incontrare in futuro, sapendo che il pericolo maggiore per il suo governo non verrà tanto dalla variegata opposizione parlamentare quanto da una possibile lotta sociale della classe, avendo presente quanto succede in Francia ed Inghilterra.
La direzione della CGIL, ma purtroppo a cascata anche la CGIL in quanto tale, date le modalità ultraverticistiche dell’attuale segretario, sembra essere incapace, o forse non voglia, comprendere il salto qualitativo del quadro politico ed istituzionale determinatosi con l’arrivo al potere della destra estrema e fascista.
La Meloni non è un normale governo borghese di destra; è un qualcosa di più e di diverso anche se opera in continuità con l’agenda Draghi della borghesia; questa viene spinta, passo dopo passo, sempre più avanti, alla Milton Friedman, confezionandola con concezioni reazionarie, populiste, nazionaliste fascisteggianti (si veda la scuola) e imprimendo un ulteriore salto di qualità alla offensiva contro il movimento dei lavoratori. Che poi la Meloni sappia farlo abilmente e progressivamente, partecipando anche al congresso CGIL, dovrebbe essere un elemento di preoccupazione in più per un orientamento di classe.
Il Manifesto, ha perso la possibilità di dimostrare un suo ruolo indipendente e critico anche verso l’apparato sindacale evitando di dare rilievo e tanto meno valorizzare la contestazione della area di sinistra della CGIL sostenendo, pur con qualche difficoltà, il Landini “moderato” che chiama alla lotta.
In realtà la direzione della CGIL, al di là dei proclami finali del segretario, ha reso ancor più difficile alle lavoratrici e ai lavoratori comprendere chi sono i loro nemici e la vera posta in gioco nella prossima fase; e questa consapevolezza è decisiva nello scontro politico e nella lotta di classe. Valgano le parole sferzanti di Sanguineti: “Bisogna restaurare l’odio di classe. Perché loro ci odiano, dobbiamo ricambiare. Loro sono i capitalisti, noi siamo i proletari del mondo d’oggi: non più gli operai di Marx o i contadini di Mao, ma “tutti coloro che lavorano per un capitalista, chi in qualche modo sta dove c’è un capitalista che sfrutta il suo lavoro”.
E l’odio dei padroni e del governo lo possiamo vedere ogni giorno nelle coste del Mediterraneo, nelle condizioni di lavoro dentro le fabbriche, con la strage continua degli omicidi bianchi, nello sfruttamento dei migranti nelle campagne, nel togliere il sostentamento a milioni di famiglie e nel privatizzare la sanità. E le destre più ancora di tutte le altre forze politiche e sociali della borghesia odiano il movimento dei lavoratori perché sanno che questo è l’avversario decisivo dei loro progetti politici.
Una brutta giornata a Rimini, rischiarata solo dall’azione politica della minoranza della CGIL, espressione di un sentimento e di una politica di classe a cui speriamo le contraddizioni sociali possano dare più forza insieme a tutte le altre componenti del sindacalismo di classe. Landini e soci non potranno sempre congelare queste contraddizioni nello stand bye che è stata l’assise muta davanti alla Meloni. Siamo davanti infatti a una grande e difficile contraddizione, tra la forza obiettiva e potenziale di una grande organizzazione sindacale, che anche nelle ultime mobilitazioni sociali, ha mostrato di essere decisiva per dar loro dimensione di massa e i suoi orientamenti politici e sindacali subordinati in questi anni alle logiche capitaliste, che hanno indebolito le possibilità e le disponibilità a una mobilitazione di classe, la più ampia possibile, quella che deve essere costruita contro il governo delle destre e dei capitalisti. Vedremo nei prossimi mesi come si dispiegherà e come le forze di classe riusciranno a dire la loro.
Troppo delicato, Franco. È stato un pessimo congresso, come ormai succede fa troppo tempo. La burocrazia Cgil è da tempo nemica dei lavoratori. Purtroppo le mini burocrazie dei vari sindacati di base, col loro settarismo autoreferenziale, le permettono di non pagare (o di pagare meno del dovuto) il prezzo del loro collaborazionismo.
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