Fra 3 giorni il mondo ricorderà i 9 milioni di esseri umani “passati per il camino” ad Auschwitz, Dachau, Buchenwald, ecc. Ebrei, “zingari”, antifascisti, omosessuali, testimoni di Geova, ecc., massacrati nei campi di sterminio dai nazifascisti durante la seconda guerra mondiale. Ripubblichiamo, dal sito di Popoff Quotidiano, questo articolo per ricordare questo orrendo macello.
Shoah e Porrajmos. La storia del violinista Romano Held e il bisogno di una memoria a più voci
Piazza Unità di Italia, Trieste 18 settembre 1938. E ancora Trieste, piazza della Libertà, 18 gennaio 2023, un km fra queste due piazze cittadine e un filo rosso che metaforicamente le unisce.
La prima si ricorda (anche) per l’abominio della proclamazione delle leggi razziali che hanno portato alla Shoah italiana, la seconda da oggi può essere ricordata per una piccola (10 cm.!) ma importante pietra che segna il cammino verso il riconoscimento di chi è stato vittima dell’abominio nazifascista. Una vittima simbolo di una intera categoria di vittime dimenticate, taciute, non note: i Rom.
Dal 18 gennaio, grazie a una nuova Stolperstein (Gunter Demning è venuto a Trieste per la sesta volta e ne ha posizionate 15) si può inciampare nel Porrajmos (chiamato anche Samudaripen), il genocidio dei Rom e Sinti perpetrato dalla Germania nazista e dai suoi alleati, che ha visto inghiottire 500.000 mila persone.
“La soluzione finale del problema zingaro”.
Sebbene nelle leggi razziali del 1938 non ci sia alcuna menzione esplicita agli “zingari”, una politica antizigana fascista è presente a partire dagli anni Venti e si è progressivamente radicalizzata: dai respingimenti e l’allontanamento, dagli ordini di arresto alla creazione di specifici campi, di fino alla deportazione verso i campi di concentramento nazisti a partire dal ’43, ad opera della Repubblica Sociale Italiana.
La storia che vogliamo raccontare oggi è ambientata fra l’Isonzo e Trieste, che, all’epoca dei fatti, facevano parte della Operationszone Adriatisches Küstenland, sotto il diretto controllo -dopo l’armistizio- della Germania nazista.
Da qui le deportazioni diventano sistematiche: ne sono vittima dissidenti politici, ebrei e rom, che abitavano numerosi quelle zone di frontiera, da cui più volte erano stati respinti.
La nostra storia inizia nel 1927 quando Romano Held, il nostro protagonista, nasce a San Pier d’Isonzo da Alberto Held, un sinto italiano e Maria Hudorovic, una rom istriana.
La sua è una famiglia è di musicisti, che suonano a Trieste e dintorni. Ma, nel 1944, per paura delle retate naziste, si rifugia sulle montagne sopra Udine. Però ciò non basta a salvarsi. La delazione di un collaborazionista nazista, l’arresto, la deportazione. È il 1° maggio 1944, quando Romano viene preso con la sua carovana. Ha solo 17 anni e una passione: suonare il violino. Viene portato in carcere a Udine dal quale esce il 31 maggio 1944 per essere caricato sul convoglio n. 48 proveniente da Trieste, fermate intermedie a Udine e Gorizia, destinazione Asbach-Bäumenheim, uno dei 169 campi satelliti di Dachau. Qui arriva il 2 giugno 1944 e viene registrato con il numero 69525. Da qui esce vivo, ma profondamente minato anche nel fisico, nell’aprile del 1945, quando il campo viene liberato dall’armata americana. Torna a Trieste e riprende il suo violino in mano. Lo suona, per vivere, nelle piazze della città, e anche in piazza della Libertà dove da oggi è ricordato. Romano è morto a Trieste pochi anni dopo, nel 1948, a 21 anni, a seguito delle angherie subite e degli stenti vissuti nel campo di concentramento.
Lui è morto, ma la voce del suo violino continua a vivere fra le mani di Gennaro Spinelli, giovane italiano di etnia rom, bello e impegnato, talentuoso violinista e Presidente di UCRI, l’Unione delle Comunità Romanès in Italia.
Durante la cerimonia in piazza della Libertà, Gennaro ha suonato il violino di Romano, accanto alla pietra di inciampo che porta il suo nome.
È una Stolperstein particolare questa. Infatti non vi è scritto “qui viveva” (Romano non aveva una residenza fissa come molti della sua etnia), o qui “fu deportato” (“non avrebbe avuto significato metterla in cima alle montagne dove fu arrestato” afferma lo storico Luca Bravi, che da anni studia il Porrajmos) ma per la prima volta “qui suonava”.
“Questo è un aspetto importante – asserisce Bravi, presente alla cerimonia- perché apre lo spazio per la memoria di sinti e rom attraverso le pietre d’inciampo dove la comunità che ha quella memoria vive ed ha vissuto, non dove non c’è nessuno che possa apprezzarla, curarla e darle significato”.
Il “qui suonava” un po’ come il “qui lavorava” nella Stolperstein in memoria di Gin Luigi Banfi, posta davanti alla sede dello studio BBPR in via dei Chiostri 2 a Milano, osservo io.
Ecco cosa mi dice emozionato Gennaro, che ho l’onore di intervistare:
“In questo luogo simbolo, in piazza della Libertà a Trieste, dove suonava Romano Held, il rom deportato cui è dedicata la pietra, e dove era felice finché non fu restato per il solo essere ‘zingaro’, dopo quasi ottant’anni oggi ho avuto l’onore di suonare per lui, in sua memoria, il suo violino che mi è stato donato dalla sua famiglia che è qui presente”.
“Perché proprio il violino?” domando.
“Suono il violino che, sì, è uno strumento tipico delle comunità romanès, ma non c’è nessuna correlazione tra le mie origini e il mio strumento, perché la musica è qualcosa che trascende l’appartenenza etnica. La musica è emozione, l’emozione fa parte dell’essere umano e gli esseri umani sono tutti uguali”.
E sono proprio l’uguaglianza di tutti, i diritti inalienabili di ogni uomo, la memoria che si fa vita i motori di questo storico evento, per il quale sono arrivati da ogni parte d’Italia le comunità rom e quelle ebraiche.
“Oggi abbiamo scritto un pezzo di storia! – continua Gennaro- abbiamo deposto la prima pietra di inciampo per un rom-sinto in Italia, per il rispetto e la memoria di tutti. Lo abbiamo fatto insieme con le comunità ebraiche dell’UGEI, con l’Università la Sapienza e l’Associazione Arte in memoria a Trieste. Deporre una pietra d’inciampo vuol dire dare memoria tangibile a chi ha subito l’Olocausto e fino ad ora non ho avuto rispetto per la propria sofferenza. Riconoscere vuol dire rispettare! Posare per la prima volta una pietra in memoria di un deportato rom e sinto in questo paese ha per noi un valore molto molto forte: sollevare il velo della memoria significa dare voce alla sofferenza di un popolo!”.
La deposizione della pietra di inciampo è frutto anche di una ricerca dal significativo titolo “Memoria a più voci” condotta dal Professor Bravi in collaborazione con l’Università di Firenze.
Alla fine della cerimonia, Gennaro ringrazia tutti coloro che hanno reso possibile questo evento e continua: “Questo progetto ha una valenza storica. Oggi è un giorno che ricorderemo per tanto, tanto tempo, perché questo è l’inizio di percorso che porteremo avanti e sarà quello proprio del ricordare con rispetto tutte le minoranze. È un progetto che è sinonimo di fratellanza, di condivisione fra la comunità ebraica e la comunità romanès in Italia”.
Prima di salutarci, Gennaro, felice ed eccitato, mi dice: “questo è solo il primo passo, non ci fermeremo qui”.
E io me lo auguro proprio, perché i Rom in Italia tuttora sono una categoria fortemente stigmatizzata dal punto di vista sociale, vittima di pregiudizi e di hate speech dovuti all’ignoranza sul loro conto. Me lo auguro perché il Porrajmos resta un genocidio non riconosciuto nella sostanza. Basti pensare che solo il 16 dicembre del 2009 la Camera dei Deputati ha, per la prima volta, ricordato la persecuzione dei rom e dei sinti avvenuta nell’Italia fascista.
E rileggiamoci anche il testo di legge (20 luglio 2000, n. 211) sull’ istituzione del Giorno della Memoria: “al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte”.
Non vi è traccia dei Rom.
In compenso però, continuando a leggere, si ricordano – come vuole lo stereotipo autoassolutorio- i “buoni italiani”, che “in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.
La memoria del Porrajmos è relegata (per quei pochissimi che lo sanno) al 2 agosto, data di liquidazione dello Zigeunerlager di Birkenau.
Diamo retta alle parole di Gennaro: “la nostra è una memoria a più voci, fatta insieme, unendo due comunità fraterne, come quella romanì e quella ebraica”.
Una pietra, dunque, per costruire un castello della memoria a più voci.
“Te aven baxtale, phral”, buona fortuna, fratelli!
SEMPRE DIFFICILE LA SITUAZIONE DEI PROFUGHI SUL CONFINE TURCO-IRANIANO (MA ANCHE SU QUELLO TURCO-GRECO NON SI SCHERZA)
Gianni Sartori
Risale a un anno fa la notizia della madre che per proteggere le mani dei figli dal congelamento si era tolta i calzini (così riportavano in genere i media, ma in realtà si era tolta anche le scarpe dandole ai bambini) tentando di attraversare il confine sul confine turco-iraniano. La donna, una profuga afgana, aveva proseguito con i piedi avvolti in sacchetti di plastica ed era poi morta assiderata.
Non si era però insistito più di tanto sul fatto che per almeno due volte era stata fermata e maltrattata dalle guardie di frontiera turche e respinta in Iran. Dove le guardie iraniane l’avevano abbandonata al suo destino.
Solo i bambini, con le estremità ormai congelate, venivano soccorsi dagli abitanti di un villaggio.
Come già da tempo denunciavano alcune Ong e un gruppo di avvocati di Van, ai rischi connessi con i rigori invernali bisogna aggiungere quello di venir intercettati dai soldati turchi e di subire maltrattamenti e torture.
E’ cosa nota che i rifugiati vengono utilizzati come “moneta di scambio” dal regime di Erdogan per condizionare la politica dell’Unione europea. Soprattutto per ottenere finanziamenti in cambio del controllo esercitato da Ankara sui flussi migratori.
Solo in quelle prime settimane del 2022 almeno altre tre persone (quelle accertate) erano morte per il freddo, tra la neve e le rocce. Dopo essere state fermate (o meglio: catturate) e rispedite brutalmente oltre frontiera dai militari turchi.
Altre invece venivano ormai date per disperse.
Un avvocato di Van, Mahmut Kaçan, aveva raccolto le testimonianze di numerosi rifugiati. Stando alle loro dichiarazioni “la maggior parte dei migranti catturati vengono riportati, senza procedure legali, sulla frontiera iraniana e qui semplicemente abbandonati”. Una persona in particolare aveva raccontato di essere riuscita ad attraversare più volte la frontiera, venendo ogni volta respinta e maltrattata. E mostrava le dita, sia delle mani che dei piedi, completamente ricoperte di ferite.
A un anno di distanza la situazione sembra rimasta tale e quale, se non addirittura peggiorata.
Molti rifugiati – oltre ad aver subito maltrattamenti e anche torture – denunciano di essere stati regolarmente derubati. Sia del denaro che degli oggetti (vedi i telefoni) in loro possesso.
Non conoscendo quei territori montuosi, impervi “finiscono per smarrirsi in piccoli villaggi dove, già stanchi e affamati per il lungo peregrinare, diventano facile preda di qualche banda armata”.
Criminali che in genere sequestrano qualche membro della famiglia per poi estorcere un riscatto.
In un video diffuso recentemente si vedono alcuni profughi afghani con le mani legate dietro la schiena (alcuni anche imbavagliati), in ginocchio e col viso appoggiato a una parete. In un altro video a un profugo viene troncato di netto un orecchio (a scopo intimidatorio, forse per prevenire tentativi di ribellione) mentre altri, incatenati, vengono frustati.
Del resto la frontiera turco-iraniana è da tempo un luogo di repressione e sofferenza. Non solo per i migranti, ma anche – da anni e anni – per i kolbar (gli “spalloni” curdi ) che cercano di guadagnarsi da vivere contrabbandando merci da un parte all’altra della frontiera. Quella che divide del tutto artificialmente il Bakur dal Rojhilat (rispettivamente, il Kurdistan sotto occupazione turca e quello sotto occupazione iraniana). I kolbar feriti o uccisi dalle guardie di frontiera ormai si contano a decine.
E mentre alla frontiera turco-iraniana vengono ricacciati in Iran i profughi, su quella tra greco-turca sono le forze di polizia di Atene a respingere (o meglio: estradare) in Turchia i dissidenti che chiedono asilo politico.
Mehmet Sayit Demir (membro del consiglio di amministrazione di HDP a Diyarbakir) e sua moglie Feride Demir sono stati prima arrestati, maltrattati, insultati, derubati e poi riconsegnati (del tutto illegalmente, si presume) ai soldati turchi. I due dissidenti avevano attraversato il fiume Evros e intendevano chiedere asilo politico in Grecia. Stando a quanto riferito dal figlio (Azad Demir che vive in Germania) in un primo tempo sarebbero stati dati in consegna dalla polizia militare greca a una “gang” e successivamente ai soldati turchi. Notizia inquietante (anche sul confine turco-greco sarebbero operative “bande criminali” come su quello turco-iraniano?) confermata dall’avvocato della coppia.
Nel 2021 Mehmet Sayit Demir era stato condannato a sei anni e otto mesi di prigione in quanto accusato di “appartenenza a una organizzazione terroristica”. Un evidente caso di persecuzione politica nei confronti di un dissidente troppo scomodo.
Gianni Sartori.
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