Curare i pazienti non produce profitti, ha ammesso un report di Goldman Sachs. Ecco perché il rimedio alla crescente diffusione di epidemie non può venire dal libero mercato

Tra tutte le notizie sull’epidemia di Coronavirus di Wuhan, alla fine del mese scorso spiccava una citazione su Nature di uno dei maggiori esperti mondiali di questo ceppo di virus, il biologo strutturale Rolf Hilgenfeld.

«Il numero totale di persone infette, se si combinano Sars, Mers [precedenti focolai di Coronavirus correlati] e questo nuovo virus, è inferiore a 12.500. Il che non costituisce un mercato. Il numero di casi è troppo piccolo. Le aziende farmaceutiche non sono interessate», ha detto alla rivista scientifica.

Hilgenfeld si stava recando nella provincia di Hubei, anche se il governo cinese stava mettendo in quarantena, fēng chéng, i 57 milioni di abitanti di Wuhan e delle città circostanti per testare alcuni farmaci su animali infetti dal nuovo Coronavirus, definito Covid -19.

Gli era stato chiesto quanto tempo ci sarebbe voluto per completare i test pre-clinici e, in definitiva, in caso di risultati positivi, quando il rimedio alla malattia sarebbe potuto essere pronto per la somministrazione. La sua risposta suggeriva che una domanda di questo tipo era mal posta, perché quando un farmaco efficace dovesse essere pronto sarebbe comunque troppo tardi, non solo questa volta ma ogni volta che si verificano eventi del genere. Il problema è che una volta che un composto è pronto per essere distribuito, a quel punto, il focolaio può essersi estinto. Perché un’azienda dovrebbe fare un così grande investimento nella scoperta di farmaci, per poi scoprire che alla fine che non ci sono più pazienti?

Esiste la possibilità di effettuare ricerche sui Coronavirus in generale e sviluppare terapie antivirali – che sono responsabili, insieme a molti altri virus, della malattia che chiamiamo collettivamente il raffreddore comune – in modo da trovarsi già a buon punto quando si verificano eventi del genere.

In effetti, questo tipo di lavoro preparatorio è esattamente ciò che lui e il suo collega microbiologo dell’Università di Hong Kong Malik Peiris hanno ritenuto necessario in un paper del 2013 sulle lezioni apprese da dieci anni di ricerca sui Coronavirus altamente patogeni, in particolare dalle epidemie di Sars e Mers. In quell’articolo, Hilgenfeld ha salutato gli enormi progressi nella ricostruzione della struttura del Coronavirus Sars, tra cui alcune ricerche sullo sviluppo di vaccini e la valutazione su modelli animali. Ma dopo che l’epidemia è diminuita, entro il 2005, «non vi è stato alcun incentivo a sviluppare ulteriormente i vaccini Sars-CoV». Niente soldi neanche per lo sviluppo di antivirali (per le persone che sono già state infettate dal virus). Vale a dire, non ci sono profitti.

Non si tratta solo del settore privato. Hilgenfeld ha accusato anche le agenzie di finanziamento. Non ha spiegato il perché, ma potremmo farlo noi: non sorprende che il settore pubblico neoliberista in cui le riduzioni fiscali per le imprese e i ricchi hanno la priorità sulle necessità delle persone scoprano anche che non ci sono soldi quando si tratta di malattie che fanno solo poche decine di migliaia di vittime. Hilgenfeld ha ammesso che gli stessi virologi probabilmente non sono riusciti a prendere abbastanza seriamente la minaccia della riemersione di un virus simile alla Sars.

Solo che poi il Coronavirus Mers ha colpito nel 2013, uccidendo circa 850 persone. I ricercatori e i funzionari della sanità pubblica erano ora sempre più consapevoli della potenziale minaccia di questa famiglia di malattie.

Nel 2016, Alimuddin Zumla, professore di malattie infettive e salute internazionale presso l’University College di Londra, ha sostenuto in un documento che la continua minaccia dei Coronavirus a seguito dell’epidemia di Mers rappresentava una «occasione d’oro» per superare gli ostacoli allo sviluppo di farmaci anti-Coronavirus. Ha chiesto la creazione di una rete di cooperazione internazionale che mettesse insieme biologi, virologi e sviluppatori di farmaci sostenuta con impegno politico per condurre studi clinici su farmaci anti-Coronavirus che hanno già dimostrato di essere sicuri ed efficaci in vitro (comunemente descritti «testtube experiments») e su modelli animali.

Zumla ha fatto eco alle preoccupazioni di Hilgenfeld: l’ascesa e il declino del numero di nuovi pazienti ha reso difficile il reclutamento per gli studi clinici e «ridotto gli incentivi per le aziende farmaceutiche a sviluppare farmaci antivirali», aggiungendo che la circostanza che casi di Mers fossero confinati prevalentemente in Medio Oriente non ha aiutato. Con questo va poi considerata la «mancanza di incentivi industriali per sviluppare antivirali per infezioni lievi per altri Coronavirus meno patogeni», quelli che causano il raffreddore comune.

A dire il vero, nel caso dei Coronavirus ci sono altre sfide significative specifiche che rendono difficile lo sviluppo di farmaci. Soprattutto, si tratta di alcuni dei gruppi di virus più diversi e in rapida mutazione e nuovi ceppi emergono imprevedibilmente. Ciò significa che i farmaci che prendono di mira i Coronavirus esistenti potrebbero non essere efficaci contro quelli nuovi.

Per Sars e Mers, esperimenti che utilizzano modelli animali come topi transgenici e primati non umani possono essere eseguiti solo in laboratori di livello 3 di biosicurezza (alto contenimento) che sono tecnicamente impegnativi da avviare. Ma Zumla ha anche scritto che era la mancanza di incentivi industriali l’ostacolo più importante.

Nel 2009, scrivendo un libro sulla medicina delle catastrofi, il direttore associato del National Infectious Diseases Service presso la Veterans Health Administration Shantini Gamage e i suoi colleghi hanno notato la particolare sfida rapparesentata dai Coronavirus, visto che vengono apprese informazioni sul patogeno e sulla malattia man mano che l’epidemia progredisce. E anche se, nonostante ciò, la ricerca ha successo, è comunque vero che in genere ci vogliono circa otto anni negli Stati Uniti per procedere con studi clinici, approvazione e commercializzazione.

Ancora una volta, Gamage si è scontrato con il fatto che il mercato in questo ambito non funziona. Riferendosi a Coronavirus come la Sars e la Mers, ha sostenuto che non possiamo vincere questa lotta a meno che il settore pubblico non si prenda carico della faccenda: «Visto l’alto costo dello sviluppo di farmaci, il numero relativamente basso di casi di una malattia infettiva emergente e la possibilità che l’epidemia si concluda senza ulteriori casi, è improbabile che le aziende farmaceutiche si cimentino con la ricerca senza l’intervento del governo o incentivi pubblici».

La grande notizia è che Hilgenfeld pensa che lui e i suoi colleghi possano aver trovato un modo per aggirare questa indifferenza amorale degli attori del mercato. Hanno sviluppato composti che funzionano non solo contro i Coronavirus, ma anche nei confronti di una vasta famiglia di Enterovirus. Circa 500 mila bambini all’anno ne prendono uno noto come Enterovirus-71, il che causa malattie alle mani, alla bocca e ai piedi. E se qualche sostanza viene accolta per curare queste malattie, i ricercatori ritengono che possano anche distribuire rapidamente lo stesso farmaco quando saremo colpiti dal prossimo focolaio di Coronavirus. Mezzo milione di casi? Ora sì che la faccenda diventa interessante per il mercato. «Siamo in grado di coinvolgere il settore farmaceutico», ha detto.

Speriamo che abbia ragione. Complimenti a Hilgenfeld per aver escogitato un modo per far coincidere lo sviluppo terapeutico del Coronavirus con gli imperativi di profitto delle grandi aziende farmaceutiche. Ma perché i ricercatori dovrebbero scervellarsi nel tentativo di far coincidere il loro lavoro con gli imperativi del profitto, specialmente se ha a che fare con la salute pubblica?

E cosa facciamo quando, per una particolare area nell’ambito della ricerca, dello sviluppo e della diffusione della sanità pubblica, non c’è modo di soddisfare le richieste del profitto? La buona notizia, almeno per questo particolare Coronavirus, è che sembra essere solo moderatamente infettivo e ha un tasso di mortalità molto inferiore a Sars o Mers. Ma a un certo punto in futuro ne arriverà uno più virulento e contagioso. Inoltre, funzionari e ricercatori della sanità pubblica stanno incrementando ciò che descrivono come una cooperazione senza precedenti, condividendo liberamente i dati, mettendo da parte gli ego e utilizzando i social media (che per una volta giocano un ruolo positivo!) per facilitare la comunicazione tra i ricercatori in tempo reale. 

Gli scienziati stanno lavorando senza sosta. Le riviste scientifiche (alcune) hanno aperto l’accesso ai documenti pertinenti. I ricercatori-pirati hanno reso il sito web illegale Sci-Hub ad accesso aperto per diffondere più di 5 mila articoli scientifici relativi ai Coronavirus in maniera completamente gratuita. I promotori di questo sforzo dichiarano: «Dividere gli scienziati del mondo nel mezzo di una crisi umanitaria globale è un atto di avidità criminale, inaccettabile e imperdonabile».

Come ha affermato Jon Tennant, paleontologo e autore di The [R] evolution in Open Science: «La scienza open salva le vite». Tutta questa cooperazione extra-mercato – o solidarietà, il termine che usiamo a sinistra per descrivere un tale umanesimo profondo e disinteressato – rappresenta una traccia del mondo migliore a venire: nessuno fa più nulla a scopo di lucro, ma semplicemente si lavora l’uno al servizio dell’altro e per l’avanzamento collettivo della libertà. L’altra buona notizia è che dopo che il governo cinese era stato ampiamente condannato a livello internazionale per il ritardo e la segretezza con la quale aveva gestito l’epidemia di Sars, sembra che Pechino abbia appreso la lezione. Il paese è stato elogiato dall’Oms per la velocità, la trasparenza e la competenza con cui sta affrontando l’epidemia. (Anche se un reportage del New York Times suggerisce che i funzionari potrebbero fare ancora di più). 

Inoltre, sulla scia dell’epidemia di Sars, e in seguito alle sfide affrontate nell’affrontare l’Ebola in Africa occidentale, si sono strette nuove partnership globali, tra cui il Consorzio internazionale delle infezioni respiratorie acute gravi ed emergenti (Isaric), la Rete di valutazione e risposta clinica alle malattie emergenti (Edcarn), la Collaborazione di ricerca globale per la risposta alle malattie infettive (Glopid-R) e il progetto R&S dell’Oms. Vanno oltre la divisione tra pubblico-privato, riconoscendo esplicitamente che il mercato, lasciato a sé stesso, non è sufficiente a far fronte a queste nuove minacce. L’istituzione di tali partenariati, reti e meccanismi è stata a lungo una delle principali raccomandazioni dei funzionari della sanità pubblica. Senza dubbio siamo di fronte a un enorme passo avanti.

Un’altra di queste reti, la coalizione pubblico-privata no profit Epidemic Preparedness Innovations (Cepi), è stata lanciata nel 2017 per sviluppare vaccini e antivirali anti-epidemia a prescindere dal fallimento del mercato. La scorsa settimana ha annunciato un finanziamento di circa 12,5 milioni di dollari per un laboratorio dell’Università del Queensland, l’Istituto nazionale di allergie e malattie infettive e due piccole aziende biotecnologiche statunitensi, Moderna, Inc. e Inovio Pharmaceuticals, per esaminare tre diversi percorsi per lo sviluppo vaccini per il 2019-NCov. Mirano ad avere un vaccino pronto per i test sull’uomo in sedici settimane, molto meno rispetto agli anni che operazioni del genere richiedono normalmente. Ma anche se la strategia coordinata Cepi non incontrasse difficoltà impreviste, il prossimo passo, la produzione di massa di un vaccino, rappresenterebbe una nuova sfida che Cepi non ha le risorse per affrontare. Secondo la rivista Science, le strutture di Inovio potrebbero produrre 100 mila dosi all’anno; i ricercatori del Queensland quattro volte e Moderna 100 milioni di dosi. Sembra molto, ma, come riporta l’autore dell’articolo sarebbe lungi dall’essere sufficiente per la popolazione mondiale. 

Le azioni di Moderna e Inovio potrebbero schizzare alle stelle in occasione dell’annuncio, ma come ha ammesso Mark Feinberg, capo dell’International AidsVaccine Initiative ed ex direttore scientifico della divisione vaccini del colosso farmaceutico americano Merck durante l’ultimo focolaio di Ebola, nel bollettino medico Stat, «le prospettive e la quantità di lavoro coinvolto necessariamente allontaneranno (una piccola azienda biotech) dal suo core business e dall’interesse degli investitori a ottenere un ritorno sul loro investimento». 

Non sono solo i Coronavirus o altre malattie infettive emergenti a segnalare questo problema. La crisi della resistenza agli antibiotici batterici che l’umanità deve affrontare – che ha il potenziale per minare gran parte della medicina moderna perché gran parte di essa, dagli interventi chirurgici ai cateteri e dalle iniezioni fino a molte procedure diagnostiche, dipende da uno sfondo di protezione antimicrobica – è principalmente un problema di redditività insufficiente. Se ha successo, un ciclo di antibiotici viene preso solo per poche settimane o mesi al massimo, quindi il paziente viene curato e smette di acquistare quei farmaci. Ma con le malattie croniche, il paziente deve acquistare quei farmaci su base regolare per il resto della vita. E così la maggior parte delle grandi aziende farmaceutiche ha abbandonato l’attività di ricerca e produzione di antibiotici più di tre decenni fa. 

Le terapie antifungine devono affrontare una sfida identica. Un ampio testo pubblicato sul New York Times nel 2019 dai giornalisti scientifici Matt Richtel e Andrew Jacobs ha studiato la diffusione globale negli ultimi cinque anni del fungo Candida auris, che è resistente ad alcuni o tutti i farmaci antifungini. La metà di tutti gli infetti muore entro novanta giorni. Di conseguenza, questo fungo ha costretto persino un rinomato centro medico britannico a chiudere la sua unità di terapia intensiva. Non sorprende che il paper sulla portata del problema da cui i giornalisti hanno tratto il nucleo della loro storia, attribuisca la responsabilità della «scarsa rete di ricerca» alla «mancanza cronica di investimenti in nuovi agenti antifungini» dal momento che «la maggior parte delle aziende farmaceutiche non investono in antifungini, preferendo concentrarsi su altri settori apparentemente più redditizi».

Nel 2018, il colosso finanziario Goldman Sachs ha pubblicato un rapporto che si chiedeva: «La cura dei pazienti è un modello di business sostenibile?». L’analista pensava che il trattamento di Gilead Science per l’Epatite C, che ha prodotto tassi di guarigione superiori al 90%, offrisse un ammonimento. Mentre le vendite statunitensi hanno raggiunto nel 2015 i 12,5 miliardi di dollari, sono scese a soli 4 miliardi di dollari tre anni dopo perché il «franchising di Epatite C ha gradualmente esaurito il pool disponibile di pazienti curabili». Le malattie infettive, in particolare, rappresentano una sfida per la redditività visto che «curare i pazienti esistenti riduce anche il numero di portatori in grado di trasmettere il virus a nuovi malati». Il cancro, grazie a Dio, concludeva il rapporto, non pone questo problema (il corollario non detto, ovviamente, è questo: è maledettamente meglio non trovare una cura per il cancro).

Per quanto odioso tutto ciò appaia, il problema non è l’immoralità o il male, come spesso sentiamo, ma l’amoralità. Il mercato può provvedere solo ciò che è redditizio. È assolutamente indifferente ai bisogni umani. Quindi, alla fine, queste reti di ricerca e sviluppo che rispondono eroicamente a ciò che riconoscono come un fallimento del mercato sono solo forme di beneficenza molto avanzate, una sorta di sussidio aziendale ben intenzionato e cordiale che affronta i sintomi ma non la causa sistemica del problema. È come se per alleviare l’enfisema polmonare di un paziente gli dessimo dei farmaci senza dirgli di smettere di fumare. Invece – o meglio, in aggiunta a questo, per queste reti di ricerca sono essenziali non solo per i fondi che erogano – la ricerca farmaceutica dovrebbe essere completamente liberata dalle limitazioni impostegli dall’amoralità del mercato. Il settore dovrebbe essere a controllo pubblico e impiegare il modello postale, in cui le rotte redditizie sovvenzionano in modo incrociato le rotte che perdono denaro, ma in questo caso la scoperta e la fabbricazione di farmaci non redditizi verrebbero pagati dalle loro controparti redditizie. Non si tratta del prevedibile divagare di un socialista, ma della raccomandazione dello scorso anno dello zar dei germi nel Regno Unito, Jim O’Neill, ex capo economista di Goldman Sachs. Ha sostenuto che nazionalizzare le compagnie farmaceutiche sarebbe la migliore soluzione alla crisi della resistenza agli antibiotici, confrontando la situazione attuale con il crollo finanziario del 2008 che ha costretto la nazionalizzazione della Royal Bank of Scotland. Come nel caso di quella nazionalizzazione di emergenza nel settore finanziario di oltre un decennio fa, oggi non abbiamo molto tempo da perdere rispetto al settore farmaceutico. Stiamo già affrontando una crisi di resistenza antimicrobica. 

La minaccia del 2019-nCov questa volta potrebbe rivelarsi moderata, ma ciò potrebbe non essere sempre il caso dei Coronavirus o di altre malattie infettive emergenti. Il direttore esecutivo del Programma Emergenze dell’Oms, Michael Ryan, ha dichiarato l’estate scorsa: «Stiamo entrando in una fase nuovissima di epidemie ad alto impatto». Al momento in cui parlava, l’Oms stava monitorando circa 160 eventi di malattia in tutto il mondo, nove dei quali classificate dall’agenzia mondiale al più alto livello di emergenza. «Non credo che abbiamo mai avuto una situazione simile, non abbiamo mai fatto fronte a così tante emergenze contemporaneamente. Questa rappresenta una nuova normalità, non mi aspetto che la frequenza di questi eventi si riduca». La situazione è il prodotto della confluenza dell’aumento dei viaggi e degli scambi attraverso l’avvento della globalizzazione, la rapida urbanizzazione, l’aumento della ricchezza in economie come la Cina e l’India, nonché i cambiamenti climatici, la deforestazione e il consolidamento della produzione di alimenti per animali. Oltre ad affrontare queste sfide ecologiche che contribuiscono al rischio di malattie infettive, abbiamo bisogno di un settore farmaceutico adatto per il ventunesimo secolo. Molto semplicemente, il libero mercato sta frenando l’avanzata della scienza, della medicina e della salute pubblica.


*Leigh Phillips è giornalista, si occupa di scienza e di questioni legate all’Unione europea. Ha scritto Austerity Ecology & the Collapse-Porn Addicts. Questo articolo è uscito su JacobinMag.