Pubblichiamo volentieri questo articolo di Piero Purini, in cui si smontano (con una certa facilità, vista l’incompetenza storica dei “revisionisti” storici nostrani) tutte le favole sui “poveri italiani” infoibati dai crudeli “titini”. Non certo perché io ritenga i partigiani jugoslavi degli “angioletti” senza macchia. Errori e violenze inutili sono stati certamente commessi anche da parte delle forze di liberazione jugoslave (come in ogni guerra civile, purtroppo). Se non altro, la stessa testimonianza di mio padre, combattente partigiano nel battaglione “Antonio Gramsci”, aggregato alla Prima Brigata Dalmata dell’Esercito di Liberazione jugoslavo, me ne fornì, a suo tempo, svariati esempi. Ma concordo con il suo giudizio di allora: quando ti bruciano la casa, ti fucilano o impiccano i genitori (e i “nostri” bersaglieri o alpini, per non parlare dei criminali in camicia nera, hanno fatto di tutto per emulare le belve naziste in questo) non vai tanto per il sottile (soprattutto se sei un povero contadino con scarsa coscienza politica, guidato soprattutto, e giustamente, dalla rabbia contro l’invasore) e magari dimentichi la tua umanità. Dedicato a te, vecchio mio, nel giorno in cui cercano di infangare i tuoi compagni di allora. (Flavio)
Come si manipola la storia attraverso le immagini: il Giorno del Ricordo e i falsi fotografici sulle foibe
con la collaborazione del gruppo di lavoro «Nicoletta Bourbaki»
1. UN GIORNO A DANE, SLOVENIA, 31 LUGLIO 1942
Guardate questa foto:
Un plotone d’esecuzione in divisa, cinque fucilati di schiena che attendono la scarica.
Guardate quest’immagine:
E quest’altra:
E questa ancora:
Ce ne sono molte altre simili nei manifesti che pubblicizzano iniziative per il Giorno del ricordo.
A questo punto vi sarete convinti: i fucilati, chiaramente, sono italiani che vengono uccisi dalle truppe jugoslave.
La foto viene messa in onda nella trasmissione Porta a porta condotta da Bruno Vespa per la giornata del ricordo del 2012. Ospiti in studio, tra gli altri, gli storici Raoul Pupo e Alessandra Kersevan.
In quella trasmissione però emerge, con enorme disappunto di Bruno Vespa, che la foto non mostra la fucilazione di vittime italiane da parte dei feroci partigiani titini. Tutt’altro. Alessandra Kersevan fa notare che la foto ritrae la fucilazione di cinque ostaggi sloveni da parte delle truppe italiane durante l’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943). Bruno Vespa attacca furiosamente la signora Kersevan (non si sa perché altri ospiti vengono definiti professore o professoressa, titolo che spetterebbe di diritto anche a questa ricercatrice storica); Raoul Pupo interviene sulla questione solo quando viene interpellato direttamente dalla Kersevan e conferma che il contenuto dell’immagine è completamente opposto a quanto viene fatto passare nella trasmissione. Quando è costretto a prendere atto che la foto ritrae effettivamente ostaggi sloveni fucilati da un plotone d’esecuzione italiano, il conduttore si giustifica dicendo che l’immagine è tratta da un libro sloveno.
Bruno Vespa non porgerà mai le proprie scuse alla professoressa Kersevan per il madornale errore.
In effetti la fotografia è stata scattata nel villaggio di Dane, nella Loška Dolina, a sudest di Lubiana. Si sa anche il giorno in cui la foto fu scattata, il 31 luglio 1942, e addirittura i nomi dei fucilati:
Franc Žnidaršič,
Janez Kranjc,
Franc Škerbec,
Feliks Žnidaršič,
Edvard Škerbec.
Come nella Wehrmacht e nelle SS, anche nell’esercito italiano si documentavano stragi e crimini, salvo tenerli nascosti negli anni successivi per confermare il (finto) cliché del «bono soldato italiano».
Il rullino di cui la fotografia faceva parte viene abbandonato dalle truppe italiane dopo l’8 settembre 1943 e finisce nelle mani dei partigiani. Nel maggio del 1946 la foto (insieme ad altro materiale che testimonia la Lotta di liberazione jugoslava ed i crimini di guerra italiani e tedeschi in Slovenia) viene pubblicata a Lubiana nel libro Mučeniška pot k svobodi («La travagliata strada verso la libertà»).
Nello stesso anno, sempre a Lubiana, viene pubblicato – stavolta in italiano – un altro libro sullo stesso tema, Ventinove mesi di occupazione italiana nella provincia di Lubiana: considerazioni e documenti, a cura di Giuseppe Piemontese.
Da quest’ultimo libro è tratta questa pagina, che riporta la foto con la didascalia: «…e un ufficiale si diletta a fotografare…»
…che è la continuazione del commento ad un foto pubblicata accanto: «Prima di venir fucilati devono scavarsi la fossa». Non è la stessa fucilazione ma sono gli stessi fucilatori, è un’esecuzione di ostaggi nella vicina Zavrh pri Cerknici, avvenuta quattro giorni prima.
La stessa immagine però è passata sul Tg3 riferita alle vittime delle foibe:
In un’altra pubblicazione – Tone Ferenc, La provincia “italiana” di Lubiana. Documenti 1941-1942, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine 1994 – si trova la didascalia con tutte le informazioni necessarie a identificare la fucilazione di Dane:
Eppure non basta: si continuano a presentare i cinque ostaggi sloveni della foto come italiani vittime degli slavocomunisti.
In alcuni casi l’uso della foto nei manifesti della Giornata del ricordo scatena reazioni internazionali: a protestare contro il clamoroso errore (ammesso e non concesso che non si tratti di una bufala voluta) è addirittura il Ministero degli esteri sloveno che segnala al Comune di Bastia Umbra l’uso improprio della fonte. Altre volte lettere giungono da storici indipendenti come Alessandra Kersevan, Claudia Cernigoi e Sandi Volk. Le reazioni sono spesso di scuse (con la conseguente rimozione del materiale iconografico da siti on line), ma in alcuni casi – quali quella dell’assessore alla cultura di Bastia Umbra Rosella Aristei – si procede ad un’improbabile giustificazione dell’uso della foto come denuncia simbolica della violenza, esecrabile in tutte le sue varie forme.
La vicenda della foto di Dane ha il suo apice in una lettera di protesta spedita direttamente al presidente Napolitano da parte di Miro Mlinar, Presidente dell’Associazione dei combattenti per i valori della lotta di liberazione nazionale di Cerknica (Slovenia), offeso dal fatto che l’immagine fosse stata addirittura pubblicata impropriamente sul sito del Ministero degli interni italiano. Purtroppo non abbiamo lo screenshot del sito del Ministero, tuttavia la lettera di Mlinar è reperibile qui.
Il Presidente dell’Associazione dei combattenti slovena sostiene che è stata proprio la pubblicazione sul sito ufficiale italiano a giustificare in seguito l’uso scorretto della foto, facendola diventare uno strumento improprio per aizzare l’odio verso il popolo sloveno. Per questo suggerisce a Napolitano di spostare la data del Giorno del ricordo al 10 giugno, «data del vero inizio delle tragedie del popolo italiano.» A quanto mi risulta il primo presidente proveniente dal partito italiano che più aveva contribuito alla Resistenza non si è nemmeno degnato di rispondere a Mlinar.
Per la vicenda delle false attribuzioni della foto di Dane rimando a questo dossier e ringrazio Ivan Serra e lo staff del sito diecifebbraio.info per la minuziosa ricostruzione della bufala e delle sue implicazioni internazionali.
In qualche modo, tuttavia, la vicenda dell’abuso della foto di Dane arriva fino ai media nazionali. Finalmente, pochi giorni fa, se ne occupa un articolo sull’Espresso, grazie ad un post pubblicato proprio qui su Giap:
Si spera che con questo passaggio su un periodico a diffusione nazionale finalmente Franc Žnidaršič, Janez Kranjc, Franc Škerbec, Feliks Žnidaršič ed Edvard Škerbec possano avere la giustizia e la collocazione storica che si meritano.
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2. FUCILATI MONTENEGRINI SPACCIATI PER «VITTIME DELLE FOIBE»
Le bufale legate alla giornata del ricordo non si limitano alla fucilazione degli ostaggi di Dane. Ecco qui un altro esempio:
ed ancora un altro:
Nell’intento di chi ha utilizzato queste foto, la prima rappresenterebbe un gruppo di italiani uccisi dai titini e la seconda un partigiano che prende a calci un povero prigioniero italiano.
Anche in questo caso invece la realtà è un’altra (già le divise dei due militari della seconda immagine non lasciano dubbi che si tratti di un soldato e di un ufficiale italiano): entrambe le foto fanno parte dello stesso rullino e documentano la fucilazione di ostaggi e partigiani in Montenegro, occupato dall’esercito italiano dall’aprile del 1941 all’8 settembre 1943. Ne esiste la sequenza completa (sul sito criminidiguerra.it ), qui le tratteremo una per una perché ogni fotogramma contiene particolari che smentiscono si tratti di italiani.
I prigionieri montenegrini sono presi a calci da un soldato italiano riconoscibile dalla divisa mentre vengono portati sul luogo della fucilazione:
Poi i prigionieri sono schierati davanti al plotone d’esecuzione. Che non si tratti di italiani è intuibile dal copricapo del terzo e del quinto condannato da sinistra che indossano la tipica berretta montenegrina. Quattro ostaggi alzano il pugno chiuso, evidente testimonianza che – almeno quei quattro – sono partigiani comunisti. L’uomo al centro della foto, accanto a quello che mostra il pugno, indossa il berretto partigiano, la cosiddetta “titovka”.
Parte la scarica (italiana)…
Gli ostaggi sono morti. E’ la stessa foto che illustra la notizia del Giorno del ricordo a Cernobbio, ma ora sappiamo che sono vittime montenegrine degli italiani e non italiani vittime degli jugoslavi.
L’ufficiale italiano, la cui mano si intravede in alto a sinistra, spara il colpo di grazia ai fucilati. Anche in questa foto c’è un particolare che conferma il fatto che le vittime non sono italiane: uno dei morti calza le tipiche babbucce serbo-montenegrine, le opanke.
L’ultima foto del rullino:
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3. NUMERO D’INVENTARIO 8318
Altra foto che non rappresenta vittime delle foibe, ma che viene fatta passare come tale:
Fin da subito di questa foto non mi hanno convinto diversi particolari: il paesaggio non è per nulla istriano o carsico, le divise non sembrano assolutamente divise “titine” o anche di partigiani non inquadrati in formazioni regolari, i cadaveri sono troppi e troppo “freschi” per essere stati estratti da una foiba. Nel caso in cui non si trattasse di vittime estratte da una foiba ma di un’esecuzione sommaria da parte degli jugoslavi, colpisce invece il fatto che i morti sembrano essere tutti maschi e che non ci sia tra loro nemmeno una persona in divisa (dal momento che, nella vulgata fascista e neofascista sulle foibe, nel 1943 sarebbero stati eliminati tutti coloro che potevano essere considerati funzionari dello Stato italiano, compresi dunque militari e pure donne).
Dopo innumerevoli supposizioni (Katyn? Stragi di ebrei nel Baltico?), grazie alla solerzia di un giapster, Tuco, troviamo l’originale. Si trova nell’archivio dell’Armata Popolare Jugoslava a Belgrado. Eccola:
Che si tratti di una stampa dal negativo è chiaro dalla pulizia e dalla definizione dell’immagine: in nessuno dei siti italiani che riportano la foto, questa è così nitida e i dettagli così visibili. Ma ciò che è più interessante è quel che c’è scritto dietro. Il sito, infatti, riporta anche il retro della foto, dove ogni archivio fotografico segnala le note e la descrizione relativa all’immagine.
La traduzione è la seguente: «Numero d’inventario 8318. Crimine degli italiani in Slovenia. Negativo siglato A-789/8. Originale: Museo dell’JNA a Belgrado»
Dunque non si tratta, nemmeno in questo caso, di vittime delle foibe, ma piuttosto del contrario: vittime slovene uccise dall’esercito italiano.
Ciò che è impressionante è la velocità con cui su internet un’immagine diventa virale (e dunque “vera”): cercando nel web il 10 febbraio alle otto di sera, quest’immagine – secondo le mie modeste conoscenze informatiche – appariva sette volte, tutte e sette associata al descrittore “foibe”. Due giorni dopo (giovedì 12 verso le 23.00) la foto era reperibile su ben 103 siti, a dimostrazione dell’incredibile potenza moltiplicativa di Internet, pur trattandosi di una bufala.
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4. SI PARLA DEL «DRAMMA DEGLI INFOIBATI» E SI MOSTRA UN UFFICIALE DELLE SS MA FORSE LA STORIA E’ ANCORA PIU’ ASSURDA
Su internet si trova anche la seguente immagine:
Immagine generalmente associata al massacro degli ufficiali polacchi a Katyn, alla liquidazione degli Shtetl in Polonia ed Ucraina, alle uccisioni delle foibe, addirittura ad esecuzioni da parte austro-ungarica di prigionieri catturati durante la disfatta di Caporetto nel 1917. Non ho trovato un archetipo, ma escludo tanto Katyn quanto le foibe in quanto non esistono testimonianze fotografiche delle esecuzioni ed in entrambi i casi non avrebbe avuto senso spogliare le vittime. L’attribuzione più plausibile mi sembra quella dell’eliminazione di prigionieri (russi?) in qualche villaggio dell’est o in un campo di concentramento, vista anche la divisa del boia, che sembra essere delle SS-Totenkopfverbände (Testa di morto), reparto adibito alla custodia dei campi nazisti.
[N.d.R. Su questa foto, vedi la discussione qui sotto con intervento di Nicoletta Bourbaki.]
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5. BRUNO VESPA CI RICASCA: I PARTIGIANI IMPICCATI A PREMARIACCO
Torniamo ora a Bruno Vespa. Oltre a non essersi mai scusato ufficialmente con Alessandra Kersevan per l’errore (?) dei fucilati di Dane, nella trasmissione dedicata alla Giornata del ricordo di quest’anno (2015), mentre sta parlando di «esecuzioni sommarie a Trieste», manda in onda questa foto:
Chiaramente lo spettatore ignaro viene indotto a pensare che si tratti di italiani impiccati dai partigiani titini. Invece non è così: come nel caso di Dane, Vespa mostra in un contesto un’immagine che è esattamente l’opposto. Si tratta infatti di partigiani friulani (più uno goriziano ed uno sloveno) impiccati a Premariacco in Friuli il 29 maggio del 1944. Anche i nomi delle vittime di questa strage sono conosciuti:
Sergio Buligan, 18 anni;
Luigi Cecutto, 19 anni;
Vinicio Comuzzo, 18 anni;
Angelo Del Degan, 18 anni;
Livio Domini, 18 anni;
Stefano Domini, 19 anni;
Alessio Feruglio, 19 anni;
Aniceto Feruglio, 17 anni;
Pietro Feruglio, 18 anni;
Ardo Martelossi, 19 anni;
Diego Mesaglio, 20 anni;
Mario Noacco, 20 anni;
Mario Paolini, 18 anni,
tutti di Feletto Umberto.
Inoltre:
Ezio Baldassi di San Giovanni al Natisone, 16 anni;
Guido Beltrame di Manzano, 60 anni;
Sergio Torossi di Corno di Rosazzo, 17 anni;
Antonio Ceccon di Dogna, 19 anni;
Luigi Cerno di Taipana, 21 anni;
Bruno Clocchiatti di Corno di Rosazzo, 17 anni;
Oreste Cotterli di Udine, 41 anni;
Agostino Fattorini di Reana del Rojale, 24 anni;
Dionisio Tauro di Chions, 41 anni;
Guerrino Zannier di Clauzetto, 25 anni;
Mario Pontarini o Pontoni;
Luigi Bon di Gorizia, 35 anni;
Jože Brunič di Novo Mesto.
Ecco la foto non deturpata dal logo della trasmissione di Vespa:
Dal momento che in contemporanea ci fu un’esecuzione collettiva anche a San Giovanni al Natisone e non è perfettamente chiaro quali dei partigiani elencati sopra siano stati uccisi a Premariacco e quali a San Giovanni, pubblichiamo qui di seguito anche la foto dei caduti per la libertà di San Giovanni al Natisone, sperando in questo modo di evitare preventivamente che si insulti anche la loro memoria (anche considerando che l’Anpi di Udine, pochi giorni dopo la bufala di Bruno Vespa, ha tolto dal proprio sito foto e riferimenti ai martiri del 29 maggio. Speriamo si tratti di un caso.)
[N.d.R. Nei commenti a questo post viene spiegato l’arcano: «il sito dell’ANPI di Udine ha cambiato non solo server, ma anche piattaforma (da Drupal a WordPress); in ragione di ciò tutti i link interni devono essere editati a mano.»]
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6. CHE C’ENTRA SREBRENICA CON LE FOIBE?
C’è poi l’articolo de «Il Piccolo» di Trieste che sarebbe esilarante se non trattasse di un argomento, anzi due, così macabro e doloroso.
Il sottotitolo della foto reca la dicitura: «L’esumazione di una parte dei cadaveri rinvenuti in una foiba». Peccato che la foto sia a colori, gli esumatori indossino jeans e sia evidente come l’immagine sia di decenni più recente. Facendo una rapida ricerca su internet si trova l’originale: è una fossa comune nel villaggio di Kamenica in Bosnia, nel Cantone di Tuzla, in cui sono stati sepolti musulmani bosniaci dopo la deportazione da Srebrenica.
L’errore è così grossolano che il giornale nel giro di poche ore sostituisce la foto con questa (che si riferisce effettivamente al recupero di corpi dalla foiba di Vines, 1943):
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7. LA «VERA STORIA» CON COPERTINA FALSA
Passiamo poi ad uno dei taroccamenti più evidenti dell’intera vicenda “foibe”, che richiama alcuni dei luoghi comuni più triti sulla bestialità dei partigiani, la sanguinarietà truculenta e la partecipazione delle partigiane (le terribili “drugarice”) alle azioni più violente. Si tratta della copertina del libro Una grande tragedia dimenticata. La vera storia delle foibe, di Giuseppina Mellace, edito da Newton Compton.
Nella copertina si vede un trio (ad occhio: un partigiano e due partigiane) nell’atto di sgozzare una vittima (presumibilmente un povero italiano). Anche qui però il taroccamento è palese. La foto originale infatti è questa:
Anche in questo caso si assiste ad un totale ribaltamento del senso dell’immagine. I carnefici della foto infatti sono una Crna trojka (“Terzetto Nero”), unità četniche, cioè appartenenti all’esercito nazionalista serbo. Si trattava di una sorta di tribunale volante che aveva il compito di eliminare collaborazionisti dell’occupatore. Con l’evolversi della guerra e con l’avvicinamento di Draža Mihailović ai tedeschi, le Crne trojke si dedicarono sempre più all’esecuzione sommaria di partigiani comunisti, di simpatizzanti del movimento partigiano e dei loro familiari. Che si tratti di četnici e non di partigiani è facilmente deducibile dall’abbigliamento: anziché la bustina partigiana (la cosiddetta titovka, già citata nel caso dei fucilati montenegrini), gli individui fotografati sul libro della Mellace hanno in testa una šajkača, il tipico copricapo serbo, utilizzato dai nazionalisti serbi.
Qui di seguito la differenza tra una titovka (che peraltro è sempre ornata da una stella rossa) e una šajkača (che solitamente ha in fronte uno scudo con l’aquila serba, decisamente più grande, come si può notare dal copricapo del četniko in piedi al centro della foto).
Il fatto poi che siano četnici esclude che le due persone in piedi siano donne: è noto che i nazionalisti serbi portavano i capelli lunghi alle spalle.
Inoltre che la vittima non sia un italiano è nuovamente intuibile dalle calzature, che sono – come nel caso di alcuni dei fucilati del Montenegro – opanke, cioè le babbucce tipiche della Serbia e del Montenegro.
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8. MORTI NEI LAGER NAZISTI E FASCISTI SPACCIATI PER… INDOVINATE COSA?
Per taroccare le immagini relative alla Giornata del ricordo non si è disdegnato di utilizzare anche i campi di concentramento e sterminio nazisti.
Il Comune di Brisighella (ma a grandi linee mi pare che l’utilizzo della foto sia più diffuso) commemora le foibe con questa foto:
…che in realtà è una foto di cadaveri nel campo di Bergen-Belsen; mentre su alcuni siti e addirittura in un manifesto della Provincia di Foggia appare quest’altra foto di bambini in un campo nazista…
…spacciata – non si capisce bene in che modo – per una foto relativa alle foibe.
Sempre in tema di campi di concentramento ecco un’altra foto clamorosamente sbagliata:
In realtà si tratta di un deportato croato nel campo di concentramento italiano dell’isola di Arbe.L’immagine è addirittura sulla copertina di un libro di Alessandra Kersevan:
Ancora una volta le fotografie utilizzate per la Giornata del ricordo girano la verità storica di 180°, presentando le vittime come aguzzini e viceversa.
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9. FRANCESI IN FUGA DA HITLER SPACCIATI PER ESULI ISTRIANI
Non basta, manca l’esodo. Ecco qui una foto che negli ultimi tempi ha girato parecchio su internet: una bambina e la sua famiglia scappano dall’occupazione jugoslava di una città istriana.
Ma ecco la sorpresa:
La didascalia dice: «Bambini fuggono dall’avanzata di Hitler nel 1940». Si tratta di una foto scattata nel giugno del 1940 quando le truppe del Reich invasero la Francia. Dunque sbagliata la collocazione (non Istria, ma Francia), sbagliato l’anno (non 1945-47, ma 1940), sbagliato l’invasore (non Tito, ma Hitler).
La foto si trova addirittura sulla copertina di questo libro di Hanna Diamond, storica e francesista, docente all’Università di Bath in Inghilterra, ma come ben si sa, raramente in Italia si prendono in considerazione gli studi stranieri…
⁂
10. BRIGANTI INFOIBATI
Appare su un sito la seguente foto di infoibati:
Peccato che queste vittime delle foibe siano state uccise circa ottant’anni prima, e non dall’esercito jugoslavo, bensì da quello italiano. Infatti è una delle tante foto che le armate sabaude scattavano ai cadaveri dei briganti appena uccisi, nell’intento di dimostrare la semibestialità delle masse rurali meridionali, di documentarlo con scientificità lombrosiana e di assecondare il gusto morboso dell’epoca. Al di là dell’errore marchiano (ma ci siamo abituati) in questo caso è interessante vedere la genesi dell’errata attribuzione che dimostra la superficialità assoluta con cui molti scelgono la documentazione fotografica da allegare agli articoli. L’immagine, infatti, è evidentemente tratta da quest’altro sito, in cui appaiono tre foto di briganti uccisi, stigmatizzando il fatto che esista la Giornata del ricordo per gli infoibati, ma non per le vittime della lotta al brigantaggio.
⁂
11. DOVEROSE RIFLESSIONI
Colpisce il fatto che, mentre per le foibe manca una documentazione fotografica delle uccisioni e le immagini relative al recupero dei corpi sono abbastanza rare (il che potrebbe essere un ulteriore riscontro che le effettive uccisioni nelle cavità carsiche furono relativamente poche, nell’ordine di grandezza delle centinaia e non delle migliaia), immagini dell’esodo sono invece piuttosto diffuse, soprattutto di quello da Pola, ma in occasione della Giornata del ricordo non si disdegna di adoperarne di fasulle. Perché?
Una parte di responsabilità va sicuramente attribuita al fatto che spesso queste ricorrenze sono organizzate (o pubblicizzate graficamente) da persone senza una sufficiente preparazione storica, quando non del tutto estranee all’ambito. Mi pare possibile che le foto vengano selezionate in base all’impatto emotivo che possono suscitare su chi le guarda e dunque non si vada troppo per il sottile. La foto dell’esodo “francese” ha in primo piano un’adolescente dall’espressione spaventata, che sicuramente è un elemento di grande presa emotiva e ha l’effetto di rappresentare l’esodo istriano per quello che non è stato: una fuga disordinata da un invasore sanguinario (come invece lo fu quella dei profughi francesi dalla Wehrmacht) invece che un processo migratorio sviluppatosi nell’arco di un decennio abbondante, come i dati statistici permettono di rilevare.
Tuttavia ciò che colpisce di più è il fatto che la maggior parte dei falsi che siamo riusciti a smascherare presenti un totale ribaltamento del contenuto: sono foto che mostrano vittime slovene (o croate o partigiane) uccise dagli italiani, ma vengono presentate come l’opposto, italiani vittime delle violenze slavocomuniste.
Una spiegazione “tecnica” potrebbe essere quella che gli addetti al reperimento del materiale si siano limitati a digitare su Google qualcosa tipo “Jugoslavia”, “crimini” o “vittime” e “italiani” e senza accorgersi siano capitati in siti dove vengono documentate le violenze italiane in Jugoslavia: l’utilizzo di quelle immagini sarebbe dunque semplicemente un errore di superficialità. Se è vero che la cura nella corretta identificazione delle immagini fotografiche è significativamente inferiore a quella riservata ad altre tipologie documentali, nel caso delle immagini delle foibe questa pessima pratica sembra quasi essere la norma.
Non mi sento però di escludere che questa totale inversione sia invece dolosa: che si tratti di un atto volontario nato proprio per instillare on line confusione e il dubbio che le foto delle vittime della resistenza siano effettivamente tali (e rendere questo dubbio virale attraverso l’incredibile forza di replica di internet), o forse più semplicemente per provocare, offendere e screditare la memoria della Lotta di liberazione jugoslava.
Un altro aspetto che salta agli occhi ricercando in questo campo è la carenza di immagini testimonianti la repressione violenta degli italiani ad opera dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo, se confrontate alle foto esistenti di violenze italiane in Jugoslavia, decisamente più numerose e dettagliate. D’altra parte ciò è fisiologico: i popoli jugoslavi subirono un’invasione che provocò un numero enorme di vittime. La Jugoslavia ebbe un milione di morti su una popolazione di quindici milioni (cfr. John Keegan, Atlas of the Second World War); nella provincia di Lubiana vi furono 30.299 vittime su una popolazione totale di 336.300 abitanti (9% degli abitanti). Nella Venezia Giulia, invece, il numero delle vittime “italiane” dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo arriva a poche migliaia (contando anche coloro che morirono in prigionia di stenti e malnutrizione, cosa che accadeva anche nei campi di prigionia angloamericani), tra cui alcune centinaia di “infoibati”. Non lo dico io ma il rapporto della Commissione storica italo-slovena, che certo non si può accusare di “titoismo”.
A dispetto della risonanza mediatica che viene data alle foibe e alle vicende del confine orientale, si trattò di un episodio minore e periferico in quell’immane catastrofe che fu la seconda guerra mondiale.
L’attribuzione a sé da parte italiana di questo materiale iconografico potrebbe semplicemente mascherare la consapevolezza di non averne o di averne pochissimo e di volersi opportunisticamente appropriare di quello dell’avversario per colmare le proprie lacune, in un’epoca come quella odierna in cui le immagini contano di più dei concetti.
L’idea che alla base di questi errori vi sia un opportunismo di questo tipo viene in qualche modo confermata anche dall’analisi di chi sono gli autori. Se nel caso di singoli utenti di Facebook o di blogger che arricchiscono con immagini i propri commenti, l’errore in buona fede può sicuramente starci; nel caso di giornalisti, di grafici o di impiegati comunali che cercano materiale fotografico per la Giornata del ricordo l’errore mi sembra possibile, ma abbastanza più grave. Del tutto ingiustificabile invece risulta un’attribuzione sbagliata quando si tratta di media a diffusione nazionale e di opinion maker come Bruno Vespa, oppure di istituzioni pubbliche nazionali, come nel caso del sito del Ministero degli interni denunciato da Mlinar. Un ultimo caso in questo senso è stata la foto allegata ai tweet per il 10 febbraio di quest’anno della Camera dei deputati…
…e del presidente della Camera Laura Boldrini:
L’originale di questa foto si trova alla Sezione storia della Biblioteca Nazionale e degli studi di Trieste (Narodna in študijska knjižnica – Odsek za zgodovino). A quanto ne so è stata pubblicata solo una volta, nel libro di Jože Pirjevec Foibe. Una storia d’Italia (Einaudi 2009). La foto completa è questa:
Si noti la didascalia presente sotto la foto.
Non appena alcuni utenti segnalano via tweet la falsificazione, lo staff comunicazione di @montecitorio e @lauraboldrini si affretta a rimuovere la foto da twitter scusandosi per l’errore ma, considerando che quell’immagine è stata pubblicata solo ed esclusivamente con una didascalia che ne spiega con chiarezza il contesto, è difficile pensare che il suo utilizzo per raffigurare le foibe sia dovuto soltanto a un’ingenuità. Ciò che inquieta è che siano le stesse istituzioni dello Stato a prestarsi a questo gioco, ma dal momento che la Giornata del ricordo è diventata uno dei pilastri della creazione di una mitologia collettiva nazionale italiana e della memoria condivisa, non stupisce che il travisamento della realtà storica e delle immagini venga portato avanti anche ad alto livello politico.
Il materiale fotografico è documentazione storica. Dovrebbe essere utilizzato come tale, con rigore e consentendo a chi lo guarda di avere tutte le informazioni che gli permettano di utilizzarlo al meglio: che cosa mostra la foto, dove è stata scattata, quando, da chi, dov’è conservata. Dovrebbe essere uno strumento per capire meglio gli avvenimenti storici, per poter comprendere gli eventi non solo attraverso la lettura, il racconto e la riflessione, ma anche attraverso la vista. L’utilizzo che invece si è fatto del materiale fotografico che abbiamo preso in esame è l’opposto di questo. Le immagini sono state utilizzate (e manipolate) per colpire le emozioni e non la ragione, sono state usate come santini della vittima di turno, come oggetti devozionali, reliquie con le quali esprimere e consolidare la propria fede, sono state manipolate per dimostrare l’esatto opposto di ciò che rappresentano. E, come buona parte delle reliquie, si sono dimostrate false.
A noi il compito di resistere, continuando a segnalare le manipolazioni della storia e a contrastare l’omologazione e il pensiero unico.
___
* Piero Purini (Trieste, 1968) si è laureato in storia contemporanea all’Università di Trieste sotto la guida del prof. Jože Pirjevec. Ha poi frequentato corsi di perfezionamento post laurea presso l’Università di Lubiana e quindi ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università di Klagenfurt sotto la guida del prof. Karl Stuhlpfarrer. Si occupa principalmente di movimenti migratori, di spostamenti di popolazione e di questioni legate all’identità e all’appartenenza nazionale: il fatto di aver studiato in Italia, Slovenia ed Austria gli ha permesso di analizzare la storia di una regione etnicamente complessa come la Venezia Giulia in una prospettiva più internazionale ed europea. È autore dei libri Trieste 1954-1963. Dal Governo Militare Alleato alla Regione Friuli-Venezia Giulia (Trieste, Circolo per gli studi sociali Virgil Šček – Krožek za družbena vprašanja Virgil Šček, 1995) e Metamorfosi etniche.
I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975 (KappaVu, Udine 2010; nuova edizione: 2014). Per Giap ha scritto il saggio Quello che Cristicchi dimentica. Magazzino 18, gli «italiani brava gente» e le vere larghe intese (febbraio 2014). Affianca all’attività di storico anche quella di musicista.
Nicoletta Bourbaki è l’eteronimo usato da un gruppo di inchiesta su Wikipedia e le manipolazioni storiche in rete, formatosi nel 2012 durante una discussione su Giap. Con questa scelta, il gruppo omaggia Nicolas Bourbaki, collettivo di matematici attivo in Francia dal 1935 al 1983.
https://adelfomarxleninkhan.wordpress.com/2016/01/14/la-resistenza-slava-e-la-questione-delle-foibe/
Ciao Vic, leggi qua 😀
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Fatto. Sostanzialmente concordo con te. Una precisazione: gli Ustascia erano nazionalisti CROATI. Se usi il termine generico “slavi” rendi incomprensibile il loro odio anti-serbo (slavi pure questi). Per inciso, c’erano anche i nazionalisti serbi, monarchici, i Cetnici, che usavano metodi simili a quelli degli Ustascia (e che hanno riproposto negli anni ’90, durante la guerra civile in (ex) Jugoslavia.
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Lo so ma non l’ho scritto per errore…gli Ustascia avevano parecchi fans…i fascisti slavi erano tantissimi…un po’ come in Albania ecco o in Grecia 🙂
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Le violenze sommarie dei Partigiani sono state assolte dalla Storia, pure da noi ci sono stati casi di giustizialismi un po’ esasperati ma avendo avuto i nonni in quei tempi, so che facevano bene e basta. Gli italiani sono stati anche peggiori degli altri, la cultura mafiosa che ha portato il Fascismo ancora la senti.
La violenza di chi si ribella, non può essere messa alla pari alla violenza di chi opprime.
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Jože Pirjevec ha fatto un bellissimo libro su Tito (che ho e che ho letto)…unica biografia 😀
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L’ha ribloggato su Il Comunista/Edonistae ha commentato:
Un punto di vista alternativo e ben documentato.
I miei punti di vista li ho già espressi a mio tempo, non mi piace fare il pappagallo. Leggete se volete sentire un punto di vista diverso da quello della massa.
C.C.
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Lette le considerazioni di Purini e le chiose di altri “ nickname” .
Sono un Dalmata, settantaquattrenne, profugo. E, devo dire, siete riusciti a farmi dubitare di me stesso.
Davvero ho vissuto nell’ “ alma terra natia “ l’esperienza democratica dell’ameno titoismo, nel secondo dopoguerra ? Davvero la Scuola Settennale della Minoranza Italiana è stata chiusa d’imperio, nell’ottobre del 1953, a Zara ? Davvero ho languito per undici anni nei campi profughi di Marina di Carrara e di Monza, (scuderie della ex Villa Reale ) saggiandone le piacevolezze ?
Per finire, davvero i partigiani jugoslavi commisero stragi in Dalmazia ( in ispecie a Spalato, Sebenico, Zara) ? Quelle che il Prof. Gino Bambara, ex ufficiale della Divisione Murge, partigiano lui stesso dopo l’ 8 settembre, descrive nei suoi libri ( vedi, ad esempio, “ Non solo Armistizio” ).
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Egregio sig. Matulich, personalmente non ho mai parlato di “amena democrazia titoista”. Il cosiddetto “titoismo” è stato comunque un figliastro (per fortuna “degenere”) dello stalinismo. La formazione politica di Tito e del grosso del gruppo dirigente del PC jugoslavo, dopo l’eliminazione dell’ala internazionalista (“trotskista”) di cui Ante Ciliga era il più conosciuto esponente, è avvenuta seguendo gli orribili canoni dello stalinismo. Ciononostante le contraddizioni tra il “modello” di riferimento e la realtà concreta jugoslava hanno portato Tito e i suoi seguaci a fare scelte coraggiose (nel ’48, per esempio) rompendo con Stalin e dando vita ad un’esperienza interessante, pur con tutti i suoi limiti (basta leggersi uno dei massimi esponenti della “dissidenza” comunista jugoslava, Milovan Djilas). Credo che il limite più grande di Tito e dei suoi, dopo la formazione stalinista, sia stato il cedere alle spinte nazionaliste “panjugoslave”. Ovvio che portare centinaia di migliaia di uomini, in maggioranza contadini ignoranti, a battersi contro il nazifascismo sulla base dell’internazionalismo proletario e del socialismo sarebbe stato molto più difficile. La scorciatoia della “liberazione nazionale” (e quindi, inevitabilmente, anche “anti-italiana” in Istria, Venezia Giulia e Dalmazia) ha permesso di creare un grande esercito popolare in tempi brevi, ma il prezzo politico da pagare è stato comunque alto. Probabilmente lei, come altri italiani d’Istria e Dalmazia, è stato vittima di quanto hanno seminato i nazionalisti e i fascisti italiani nella loro sciagurata politica di italianizzazione forzata e della reazione, probabilmente non sempre controllata, scatenata tra le masse slave da quel ventennio di violenze e ingiustizie. Mio padre, che ha combattutto (e, creda a me, in modo non acritico, tenuto conto della sua giovane età e del suo livello culturale) con i “titini” contro i nazifascisti, mi ha raccontato decine di episodi che mostravano la rozzezza, le incomprensioni, a volte le brutalità dei “nostri” (io continuo a considerarli tali). Ma ha deciso, nonostante tutto, di continuare a combattere con la Stella Rossa sul berretto, convinto che la “pagliuzza” negli occhi dei “titini” non poteva nascondere l’enorme trave dei nazifascisti.
Flavio Guidi
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Egregio Guidi,
le terrò bordone, ma dubito fortemente che la mia nota si riveli di qualche utilità. Lei rimarrà arroccato sulle sue posizioni, io sulle mie.
Lei ( con sodali ) appartiene a settore assai ideologizzato della sinistra, circostanza che, pensi il male che vuole di chi scrive, non agevola sicuri discernimenti tra errore e verità. Come non li garantiscono, si capisce, gli orientamenti di schieramenti politici agli antipodi del suo.
Assetti lontani, devo dire, dai miei, riflettenti un vissuto che, per quanti sforzi facesse, lei non riuscirebbe a compenetrare.
Fiero è lei, mi dice, di suo padre che ha combattuto con i “ titini” e che non ha mai smesso di tenere sul capo la “titovka”. Fierezza che io e la mia gente facciamo fatica ad apprezzare, ferma restando, va da sé, la libertà di scelte ideologiche.
Ritiene utile sottolineare, vedo, che “Probabilmente lei, come altri italiani d’Istria e Dalmazia, è stato vittima di quanto hanno seminato i nazionalisti e i fascisti italiani nella loro sciagurata politica di italianizzazione forzata ecc.”.
Sciagurati, vero, furono i maltrattamenti e le uccisioni della popolazione locale di lingua slovena e croata, e più sciagurata ancora fu la guerra scatenata nella primavera del 1940.
Si è tanto ricamato su codesta italianizzazione forzata che, tuttavia, non è stata il male tanto sbandierato: se è vero, com’è vero, che, ad esempio, la grafia del mio cognome è rimasta inalterata, come rimase invariata quella dei Senatori del Regno Roberto Ghiglianovich e Natale Krekich, entrambi Zaratini. I Regi Decreti del 1926 e del 1928 di italianizzazione dei cognomi, del resto, argomentavano di “ possibilità “ di variazione, non di obbligo .
Le popolazioni di oltre l’Adriatico hanno avuto la ventura di confrontarsi con due “ismi” nel Novecento. Erano state poste, insomma, nella condizione di fare comparazioni….Del primo furono testimoni genitori ed avi, dalle mie parti. Del secondo, a differenza di lei e di suo padre, ho avuto la fortuna di sperimentarne per tredici anni consecutivi la realtà effettuale, ovvero il pregio ecumenista, la tolleranza etnica, l’ansia sociale ; realtà rinfrescata e saggiata negli anni successivi allorché mi recavo in visita agli anziani nonni (contadini), rimasti abbarbicati al suolo natio. Tempi bastevoli per registrarne l’esasperato nazionalismo, in barba al conclamato universalismo, la smania di annessione territoriale (nei confronti, oltreché dell’Italia, di Ungheria, Romania, Bulgaria, Grecia ) e di pulizia etnica che l’animava. Del che, Croati, Serbi e Bosniaci hanno dato agghiacciante riprova nella guerra fratricida degli anni ’90.
Di uno strisciante nazionalismo, ohibò, è permeato, io dico, l’atteggiarsi di riduzionisti e giustificazionisti delle foibe, schiera cui “apertis verbis” lei si associa. Mi riferisco alle Kersevan, alle Cernigoi, ai Purini, ai Pahor, cittadini italiani di matrice slovena. Dice di no ?
In un’intervista del 2011 a “Il Piccolo”, quotidiano di Trieste, Boris Pahor, vate della nazione slovena, alla domanda “Lei si sente nazionalista? “ ha risposto:
“ Mi accusano spesso di esserlo. Ma io non credo possa essere considerato nazionalismo il semplice amore per la propria patria, la paura che possa svendere la propria cultura. I francesi sono europei, ma il loro inno dice ”Allons enfants de la patrie”. Allora dico che non si può essere europei o cittadini del mondo, se prima non si è buoni patrioti”.
Così il vegliardo Pahor. E se lui, bardo del popolo sloveno, può invocare Lari e Penati; se lui può essere buon patriota, perché non posso esserlo io, figlio della nazione dalmata, orlo di toga italiana ?
L’argomento che lei e sodali, col vegliardo Pahor, fate discendere dalle vostre tesi, e cioè che le vittime italiane delle foibe siano il risultato dei crimini fascisti, che quelle vittime siano una giusta vendetta, comunque comprensibile e scusabile, non pare accettabile sul piano storico-politico e sul piano etico. Lo ha rimarcato il Prof. Giuseppe Ieraci dell’Università di Trieste, replicando al Pahor.
Dal punto di vista storico e politico, l’argomento presenta, osserva Ieraci, la difficoltà nota della “ Regressio ad infinitum ”, cioè quando arrestiamo la ricerca a ritroso di una causa a monte, rispetto al fenomeno che vogliamo spiegare ? Si tratta di un modo di ragionare difettoso e inconcludente: c’è sempre qualcosa “ capitato prima ” che agisce su cosa sta capitando adesso.
Sul piano etico, il ragionare è un po’ primitivo. Una quasi etica “giustificazione” degli eccidi delle foibe, intesa come reazione ai crimini fascisti, integra la “ legge dell’occhio per l’occhio ”, della vendetta che va consumata. Certo, in un procedimento giudiziale la valutazione di un crimine deve tener conto delle circostanze attenuanti, ma resta la sua unicità e la responsabilità diretta di chi lo ha commesso.
Una snazionalizzazione delle minoranze slovene e croate della Venezia Giulia c’è stata nel Ventennio, inutile negarlo. Ma quale risultato ha sortito? Sono forse scomparsi, in quei vent’anni, Sloveni e Croati dalle Alpi Giulie e dagli altipiani del Carso? No. Gli Italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, al contrario, sì. E, se no, sono stati ridotti ad una minoranza quasi insignificante. Come mai ?
Vero è che gli antagonismi, nell’Adriatico orientale, risalgono alla seconda metà dell’800 e drammaticamente profetiche appaiono le parole del Podestà di Spalato, Antonio Baiamonti, nel suo ultimo discorso davanti alla Dieta Dalmata nel 1887, quando, rivolto ai rappresentanti Slavi, proferì:
«Gli Italiani, anziché combattere le vostre aspirazioni, anziché calpestare i vostri diritti e schiacciare il vostro avvenire, si sono prestati, con interesse leale e vero, perché la lingua slava fosse modestamente introdotta nelle scuole e negli uffici».
« Noi fin dai primi tempi vi abbiamo accolto sui nostri lidi con affetto e sincerità e voi ce ne discacciate, con poco patriottismo e ci assegnate come unica dimora il mare: ‘ U more ‘ – che è il vostro programma ».
Per spiegare l’avversione verso l’Italia e gl’Italiani, vale la pena di riportare le parole di un illustre intellettuale croato (che ha invocato l’anonimità), proferite qualche anno fa: “ Siamo tanto affascinati dalla cultura italiana e la sentiamo così vicina che rischiamo di esserne compressi e plagiati, al punto da rinunciare alla nostra. Quando ci si spinge in questa direzione, allora l’amore può diventare odio”.
L’onesto intellettuale non ignorava che Istria e Dalmazia costituirono le Province Illiriche di Roma Imperiale e che, poi, fecero parte integrante della Repubblica di Venezia: l’Istria per un millennio e Zara e la Dalmazia per quattro secoli. Fino al Trattato di Campoformio del 1797.
La mia terra d’origine, la Dalmazia, è “regione ai margini”, posta ai confini tra mondo occidentale e mondo balcanico, nella quale si riflettono, da secoli, contraddizioni nella stessa composizione etnica. Uno status che, lei beato, non la caratterizza e che, temo, non sia in grado nemmeno di prefigurarsi.
Di questi intrecci testimonia emblematicamente Niccolò Tommaseo, mio illustre conterraneo, poeta e letterato, nato nel 1802 a Sebenico, in Dalmazia, fiero difensore con Daniele Manin della Repubblica Veneziana nel 1849, morto a Firenze nel 1874. Egli scrisse:
“Né solo i sangui si sono commisti, e le glorie e i dolori, le utilità e le speranze compenetratesi; ma scambiaronsi i nomi stessi. Famiglie italiane, spente, vivono nelle slave e alle slave lasciarono l’eredità delle memorie e degli averi; famiglie slave assunsero nomi italiani; talché gli odiatori del nome italiano può dirsi che, a doppio titolo, odiano la patria, rinnegano se stessi “.
Ecco, faccia conto che io sia un lontano pronipote del Tommaseo…
Nel 2010 è stato dato alle stampe il libro “Ci chiamavano fascisti – Eravamo italiani”, di Jan Bernas, giornalista italiano d’origine polacca. Walter Veltroni ne ha curato la prefazione. Quel che portò alla tragedia delle foibe, ha scritto, fu ”un odio alimentato dall’ideologia, in questo caso soprattutto dall’ideologia comunista ”.
Luciano Violante, nel 2009, precedette il compagno. Dichiarò, riferendosi alle foibe: “Mi vergogno d’essere stato comunista “.
Le ricorderò, inoltre, quel che scrisse l’Unità, organo ufficiale dei comunisti italiani, il 30 novembre 1946 : “Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori “.
Che altro aggiungere ? La vocazione ad essere Italiani attecchisce e s’irrobustisce proprio là, nei luoghi in cui l’Italia ha smesso e smette di esistere. Una colpa. Ci conforta che siffatti empiti patriottici vibrarono anche nel petto di un Manzoni e, prima ancora, di Dante ( ricorda, vero ?, i versi del Canto IX dell’Inferno ? “ Sì come ad Arli, ove Rodano stagna / sì come a Pola, presso del Carnaro / ch’Italia chiude e i suoi termini bagna “ ).
P.S.
“ En passant”.
Nelle file della Resistenza si consumò la tragedia peggiore, ai primi di febbraio del 1945. Mentre i grandi si riunivano a Yalta e le formazioni della Decima alla Selva di Tarnova cercavano di respingere i partigiani sloveni ormai giunti a ridosso di Gorizia, alla Malga Porzus sulle Prealpi Carniche i vertici delle Divisioni partigiane bianche Osoppo venivano passati per le armi, con l’accusa di intelligenza con il nemico nazifascista, da un distaccamento della divisione Garibaldi-Natisone, braccio militare del PCI locale; oramai compattamente filo-jugoslavo, tanto da uscire dal CLN di Trieste e da creare una struttura parallela propensa all’annessione alla Jugoslavia a guerra finita.
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Stimato sig. Matulich, innanzitutto devo esserle grato per le informazioni e il tono di questo confronto di idee. Non capita spesso, mi creda, di poter discutere civilmente con i nostri, diciamo così, “avversari” politici. Più spesso si ricorre agli insulti, alle denigrazioni, ecc. Detto questo, devo puntualizzare alcune cose.
1) Che l’Istria e la Dalmazia fossero, nell’antichità e nel medio evo, terre “latine” (strictu sensu nell’antichità, latu sensu nel medio evo, tramite la lingua dalmatica e il veneto) è assodato. Che fossero ancora a maggioranza “latina” alla fine del ‘700, quando cade La Serenissima, è piuttosto dubbio (anche se non disponiamo di statistiche affidabili). Al censimento austriaco del 1910 gli italiani in Dalmazia erano solo il 3% della popolazione. Gli stessi nazionalisti e fascisti, polemizzando, un decennio più tardi, su queste cifre, dicevano che erano false, essendo gli italiani “almeno il 10% della popolazione”. Il che vuol dire che, persino per loro, il 90% era costituito da slavi.
2) Come Lei certamente saprà, i trattati di pace del 1919 calpestarono apertamente i diritti dei popoli, quasi sempre a favore delle potenze vincitrici (fossero “grandi”, come l’Italia, o “piccole”, come la Jugoslavia). Se avessero potuto votare liberamente, i cittadini (ma allora erano “sudditi”) degli ex territori austriaci, avrebbero probabilmente scelto in base alla loro appartenenza etno-linguistica. E scommetto che Trento, Trieste (città), Fiume, le città istriane e forse qualche città dalmata (Zara in primis) avrebbero scelto l’Italia, mentre l’Alto Adige avrebbe scelto l’Austria (se non una “grande” Germania) e la campagna, dal Carso alla Dalmazia, il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, futura Jugoslavia. Purtroppo non è andata così: la prepotenza italiana (e jugoslava, in seconda battuta) preparò il terreno alle violenze successive.
3) Il rapporto tra il “comunismo” di Tito e dei suoi seguaci e il nazionalismo jugoslavo è stato, a mio avviso, purtroppo squilibrato a favore di quest’ultimo, a partire dall’invasione nazifascista tedesca, italiana, ungherese e bulgara dell’aprile del ’41. Cosa comprensibile, ma non molto giustificabile per chi, come me, resta “fedele” (brutta parola, lo so) all’ispirazione “classica” del comunismo. E cioè internazionalismo conseguente, basato sulla TOTALE uguaglianza dei popoli, e sull’irrinunciabile DIRITTO ALL’AUTODETERMINAZIONE!
4) Da questo punto di vista, il discorso del sig. Bernas è profondamente scorretto: se un’ideologia è all’origine della tragedia delle foibe, questa è IL NAZIONALISMO, sia da parte italiana, sia da parte jugoslava. Il comunismo (tra l’altro nell’interpretazione piuttosto sommaria e rozza del PC jugoslavo dopo le purghe staliniane a cui accennavo nella mia precedente risposta) c’entra ben poco.
5) Mi rendo perfettamente conto che per chi, come Lei, è stato vittima incolpevole (vista anche l’età) di tragici avvenimenti (in gran parte precedenti la sua nascita) sia difficile dare un giudizio equilibrato, scevro da rancori personali (tra l’altro probabilmente fondati). E non le nascondo che, conoscendo (grazie ai racconti di mio padre, alle mie letture e, purtroppo, anche una breve esperienza di detenzione -poche ore, per fortuna – nelle mani della polizia jugoslava nel 1983) il livello di rozzezza “contadina” dei nazionalisti jugoslavi (anche se ammantata da falci e martello e stelle rosse), posso anche capire il suo modo di sentire. Ciò nonostante non posso fare a meno di ricordarle che da un lato ci si batteva per instaurare in Europa il Nuovo Ordine nazifascista, basato sul più totale disprezzo per la dignità umana (e gli Ustascia di Ante Pavelich, piuttosto che le SS bosniaco-musulmane o gli stessi Cetnici serbi ne davano ampia testimonianza), mentre dall’altro ci si batteva per fermare questa barbarie, con tutti i limiti dovuti all’arretratezza politica e culturale di un popolo di contadini semi-analfabeti. Questi contadini, guidati da Tito, nonostante tutto (e questo non vuol dire giustificare errori ed orrori) erano in un certo senso eredi, quasi sempre inconsapevoli, di quanto di meglio il pensiero politico europeo aveva prodotto dall’Illuminismo in poi. Molto di più, paradossalmente, di tanti raffinati figli (degeneri) della grande cultura italiana e tedesca. Visto che lei è un cultore (giustamente) della nostra grande letteratura, potrei fare un parallelo col nostro Ugo Foscolo. Davanti al “tradimento” di Napoleone (e immagino quanto i soldati del Bonaparte sapessero essere fedeli nei fatti alla triade “Liberté, egalité, fraternité”), decise comunque di battersi, con mille dubbi, contro la reazione incarnata dall’Austria asburgica. Mutatis mutandis, è quello che hanno fatto i partigiani jugoslavi (e con loro mio padre, che non fu mai un fanatico e acritico “seguace”, ma un comunista “eretico” e dialogante, per nulla tenero col nazionalismo jugoslavo e con gli atteggiamenti rozzamente “anti-italiani”). Ed è quello che, probabilmente, avrei fatto anch’io.
Con stima
Flavio Guidi
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Egregio Guidi,
di rimando, qualche notazione ancora.
a. Lei mi va ad evocare Foscolo, poeta tra i più amati, esule come me ( “ Si parva licet componere magnis “ ), autore del più grande epicedio della letteratura italiana:
“ E tu onore di pianti, Ettore, avrai / ove fia santo e lagrimato il sangue / per la patria versato, e finché / il Sole / risplenderà su le sciagure umane “.
Solco che la mia schiatta segue da sempre e che gli Inglesi hanno efficacemente traslato e condensato nel motto “ Right or wrong, it’s my country “.
Un sentire che l’utopico internazionalismo della sua parte, basato, scrive lei , “ sulla TOTALE uguaglianza dei popoli, e sull’irrinunciabile DIRITTO ALL’AUTODETERMINAZIONE! “ rende obsoleto.
Eppure, non vorrà negare, in tutti gli Stati dell’Est europeo, una volta fratelli e saldamente uniti dal mastice del Cominform, ha sempre allignato ed alligna tuttora, eccome !, l’orgoglio dell’appartenenza al proprio ceppo nazionale.
Indicativa la rivolta d’Ungheria del 1956 ( lei aveva un anno ) e quella della Cecoslovacchia di Dubcek del 1968. In nome dell’internazionalismo ! Quale “Contradictio in terminis “ ….
b. Al punto 2) lei si rifà a principi di autodeterminazione ed a plebisciti. Gli “ Irredentisti “ dalmati non hanno mai negato l’esistenza di una componente etnica della popolazione così sbilanciata a favore dell’elemento slavo. Per intendere la loro ( italiota) volontà annessionista, e non doverla classificare come una follia, occorre pensare che essa si fondava sulla considerazione di una precisa identità storica della Dalmazia ( Tommaseo ), non solo per la presenza della componente italiana autoctona, ma per la profonda differenza tra gli Slavi della costa e quelli dell’interno balcanico e sulla diversità insanabile fra Croati e Serbi. Solo un paese di antica cultura giuridica, con alle spalle la tradizione politica veneta, avrebbe potuto assicurare alla regione un avvenire di convivenza interetnica e di prosperità, con un regime speciale di autonomia che salvaguardasse le peculiarità linguistiche del territorio.
Gioverà spendere due righe in più sulla benedetta autodeterminazione, principio riemerso un quarto di secolo dopo.
Il 4 maggio 1946 a Parigi il segretario di Stato americano Byrnes avanzò al Consiglio dei Ministri degli Esteri (CME) di USA, URSS, Regno Unito e Francia una proposta di plebiscito per definire il nuovo confine italo-jugoslavo. La consultazione popolare avrebbe avuto luogo nell’area compresa tra la linea sovietica e quella americana, sotto la supervisione dei Quattro Grandi, previo sgombero delle truppe rispettivamente jugoslave o italiane. Il sovietico Molotov contropropose che il plebiscito riguardasse anche i territori a Est della linea statunitense fino ai confini del 1924. Il francese Bidault suggerì invece che, indipendentemente dall’estensione del territorio da sottoporre al voto, l’esito venisse considerato non “in blocco”, bensì per zone omogenee, onde stabilire con precisione un confine etnico.
La proposta di Byrnes galvanizzò i CLN di Pola e per l’Istria, che si mobilitarono a favore, nonostante un certo scetticismo interno e nonostante le perplessità di molti esponenti sia dei CLN di Gorizia e Trieste sia del Comitato Giuliano di Roma. Il 10 giugno 1946, durante un’affollata manifestazione di piazza, gli italiani di Pola inneggiarono tanto alla Repubblica appena proclamata in Italia quanto al plebiscito. Il 26 giugno un riuscitissimo sciopero-serrata cittadino proclamò che le popolazioni italiane di Pola e dell’Istria sud-occidentale intendevano «decidere esse sole, direttamente, a mezzo plebiscito delle loro sorte a venire».
Il mancato accordo tra Byrnes e Molotov e l’opposizione del britannico Bevin fecero però tramontare ogni ipotesi di consultazione delle genti giuliane. Dopo estenuanti trattative, il 3 luglio 1946 i Quattro Grandi annunciarono di aver trovato un’intesa: la linea francese sarebbe stata il nuovo confine italo-jugoslavo da Tarvisio a Monfalcone, mentre l’area tra San Giovanni di Duino, Cittanova d’Istria e il mare Adriatico avrebbe costituito il Territorio Libero di Trieste (TLT).
In definitiva non si tenne alcun plebiscito nei territori contesi fra Italia e Jugoslavia poiché nessuno dei sottoscrittori della Carta atlantica volle attuare lo sbandierato principio di autodeterminazione dei popoli per non ostacolare la propria politica di potenza e minare il compromesso faticosamente raggiunto per la spartizione del mondo in zone d’influenza.
c. L’italianità delle terre contese fra Italia e nascente Jugoslavia, al termine della Seconda Guerra mondiale, risulta , giuridicamente argomentando, fuor di discussione: il diritto internazionale ed il diritto di guerra sanciscono che annessioni unilaterali ( la provincia di Lubiana all’Italia nell’aprile 1941, l’Istria alla Jugoslavia a metà settembre 1943 e la Zona di Operazioni Litorale Adriatico alla Germania nell’ottobre 1943) non sono da tenere in considerazione fino alla ratifica di un Trattato di Pace (il che sarebbe avvenuto solamente nel 1947) che sancisca la conclusione dello stato di guerra e stabilisca confini internazionalmente riconosciuti.
Confini internazionalmente riconosciuti furono quelli stabiliti dal Trattato di Saint-Germain (1919), dal Trattato di Rapallo (1920) e dal Trattato di Roma (1924), in base ai quali Trieste, Gorizia, Istria, Fiume e Zara risultavano appartenenti all’allora Regno d’Italia e tali andavano considerate dal punto di vista del diritto fino al Trattato di Parigi del fatidico 10 febbraio 1947, entrato in vigore il successivo 15 settembre.
Negli anni Venti e Trenta il regime mussoliniano, in continuità con quanto impostato dallo Stato liberale sabaudo al suo arrivo in queste terre, insistette, ahimè, su un’opera di bonifica etnica, ma i suoi risultati furono meno catastrofici per le comunità slovene e croate autoctone di quanto denunciato.
Nella misura in cui la resistenza jugoslava ebbe modo di radicarsi fra la popolazione “alloglotta”, le componenti slave rimasero sul territorio e resistettero all’assimilazione, dando anzi vita a reazioni armate ( gruppi terroristici TIGR e Borba, attentati a simboli di italianità e non solo a rappresentanti del regime fascista), laddove dopo il conflitto la politica di fratellanza italo-slava sbandierata dal regime di Tito portò, come se non fossero bastate le vittime delle due ondate di foibe, alla sparizione di altri italiani ed all’esodo del 90% della comunità autoctona italofona.
Siccome si cerca di sminuire il peso delle morti perpetrate dall’esercito di liberazione jugoslavo e dalle sue quinte colonne locali, contestualizzando il tutto in una prospettiva più ampia, sarà opportuno ricordare che, contemporaneamente a questo tentativo di snazionalizzazione, il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni colpiva altrettanto pesantemente la comunità austriaca della Slovenia settentrionale ( Domenica di sangue di Marburg/Maribor ), gli italiani di Dalmazia (2.000 persone in fuga da Spalato, Ragusa, Sebenico e Traù costituirono il cosiddetto “Esodo dimenticato”) e gli albanesi del Kosovo (progetto di trasferimento coatto di migliaia di albanesi in Turchia).
d. Tornando a bomba, il giustificazionismo che interpreta le foibe come risposta a violenze italiane ( gran parte delle quali attuate applicando le leggi di guerra all’epoca vigenti ed alle quali si attenevano tutte le potenze belligeranti) non ha ragion d’essere in una comunità internazionale che si vorrebbe regolamentata dal diritto e dal senso di giustizia come quella che i vincitori della Seconda Guerra mondiale intendevano istituire sulle macerie delle dittature sconfitte.
Si aggiunga che tutte le uccisioni e violazioni dei diritti fondamentali intervenute dopo il maggio 1945 sono state compiute a guerra finita e in molteplici casi hanno interessato i civili.
e. Arrischio in chiusura, uscendo dai binari. Le dirò che provo, allo stesso tempo, stupore e ammirazione per gli slanci suoi tesi, nel 2017, all’ “ internazionalismo, basato sulla TOTALE uguaglianza dei popoli, e sull’irrinunciabile DIRITTO ALL’AUTODETERMINAZIONE “. Una chimera che, per quanto mi consta, mai è stata mai attuata nell’universo mondo. Nemmeno nei Paesi extraeuropei in cui, anche oggigiorno, si coltiva pervicacemente e amorevolmente il fiore dell’ortodossia marxista-leninista o trotzkista.
Ho presente, limitando lo sguardo alla realtà italiana, l’iter di parecchi suoi compagni o ex-compagni di fede (militanti di Democrazia Proletaria). Nel loro animo, col tempo, si sono stemperate le ansie sociali che li tormentavano. Mi riferisco ai Pintor, ai Parlato,alle Castellina, a vari sindacalisti apicali, ecc..
Rammento gli sconquassi che il novello pifferaio di Hamelin , Mario Capanna, alla testa del Movimento Studentesco e, in particolare, della fazione di “ Katanghesi”, procurò a Milano, nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso. Dalla mia stanzetta del pensionato studentesco della “ Bocconi” , senza il becco d’un quattrino in tasca ( titolare di borsa di studio), miravo le loro prodezze: vetrine dei negozi rotte, auto distrutte ed incendiate in Parco Ravizza e dintorni, binari dei tram divelti, insomma incommensurabili “danni ingiusti” recati sia alla proprietà privata che a quella pubblica [art. 2043 del c.c].
Nelle aule universitarie, durante le sessioni di esami, fioccavano i 18 nel libretto, guadagnati discorrendo della guerra in Vietnam anziché di analisi matematica e di logica o statistica economica. Formidabili quegli anni, usa dire ancora oggidì l’ex capataz Capanna. Lui ed altri ( tra i quali, eziandio, l’attuale Primo Ministro, se non vado a farfalle ), non tardarono ad “adeguarsi”, di poi , occupando i gangli dell’ordinamento statale, che tanto in uggia avevano: seggi parlamentari, scranni ministeriali, cattedre universitarie (sic). Il buon Mario, oggi, fa il Cincinnato in Umbria, fruendo di due vitalizi ( quello di parlamentare e quello di consigliere regionale), per una somma complessiva netta, mensile, di € 5.000,00 ( sua dichiarazione pubblica). “ Chapeau”.
Luminosi orizzonti si profilano…
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Egregio sig. Matulich, scusi se le rispondo in ritardo ma, da come può evincere dagli articoli su Simona, la nostra comunità militante è stata colpita da un grave lutto lunedì. Vedo che il nostro “carteggio” sta assumendo dimensioni inconsuete. D’altra parte, come le ho già scritto, non siamo molto abituati a ribattere a persone che, pur non condividendo le nostre idee, restano sul piano del franco dibattito ideale. Di solito chi commenta i nostri articoli è d’accordo con noi (più o meno) oppure si lascia andare ad insulti ed invettive poco interessanti.
Vedo che lei, a quanto pare, continua a considerarci parte della “famiglia” del cosiddetto “socialismo reale”, dando per scontata la nostra condivisione di idee e pratiche che, nel migliore dei casi, ci sono estranee, e nel peggiore, ci ripugnano profondamente. La nostra organizzazione tenta di unire le correnti marxiste libertarie e quelle anarchiche in un percorso che è solo agli inizi. Va quindi in una direzione che definire “trotskista” sarebbe riduttivo. Quindi non ha nulla (o molto poco) a che spartire con le esperienze di quello che i più definiscono il “socialismo reale”. Sarebbe lungo qui entrare nel dibattito storiografico, ma, schematicamente, le posso assicurare che, se rivendico al 100% l’esperienza dei Soviet russi nel primo anno di vita, la mia condivisione comincia ad incrinarsi giá durante la guerra civile del 1918-21. Nonostante questo, l’esperienza sovietica degli anni Venti resta ancora, seppur con crescenti contraddizioni, un’esperienza grosso modo condivisibile (con le ombre che vanno crescendo lungo il decennio in questione). A partire dall’instaurazione della dittatura staliniana, dopo il 1927-28, e a maggior ragione dai terribili anni Trenta del terrore controrivoluzionario voluto dal prete mancato georgiano, il mio rigetto diventa totale. Quindi non posso condividere il suo ragionamento sul presunto internazionalismo nell’Europa centro-orientale negli anni post 1945. Si trattava, a mio avviso, di una pura espansione del regime staliniano verso ovest, in terre che avevano poco o nulla di “socialista” (con la parziale esclusione della Boemia e della Moravia). I gruppi dirigenti di quelle società erano in generale dei grigi burocrati opportunisti, degli “yesmen” in carriera, formatisi alla scuola della piaggeria e del terrore di Stalin. Scarso o nessun “socialismo” tra di loro, scarso o nessun socialismo tra le grandi masse popolari rumene, ungheresi, polacche, slovacche, ecc. caratterizzate dal predominio della cultura contadina reazionaria, antisemita e NAZIONALISTA. Lei però ha citato due casi (Ungheria ’56 e Cecoslovacchia ’68) un po’ contro-corrente: si tratta di due processi rivoluzionari “proletari” e “socialisti” (basta leggere le posizioni del Consiglio Operaio di Budapest, animatore della rivolta schiacciata dai carri sovietici, oppure le posizioni della sinistra del PC cecoslovacco tra il 1967 e il 1968 per rendersene conto) che la corrente a cui appartengo HA APPOGGIATO TOTALMENTE! L’internazionalismo, il comunismo, stavano dalla parte degli operai ungheresi, dei giovani cecoslovacchi (il compagno Jan Palack tra loro) e NON da quella dei carri armati che usurpavano la stella rossa che recavano sulle fiancate.
Per quanto riguarda il secondo punto da lei toccato, devo dire che il suo argomento a favore della maggiore tolleranza che avrebbero POTUTO dimostrare gli “eredi della tradizione veneta” mostra troppe falle. La più grande è che, questi eredi della tradizione romana e veneta, hanno potuto dimostrare quanto erano capaci di “assicurare alla regione un avvenire di convivenza interetnica e di prosperità, con un regime speciale di autonomia che salvaguardasse le peculiarità linguistiche del territorio”. Tra il 1919 e il 1945 hanno usato gli incendi (a cominciare dal Narodni Dom sloveno di Trieste), le prigioni, le fucilazioni, i campi di concentramento (Arbe docet) per “assicurare” la convivenza interetnica. Non ne faccio una colpa né a Lei, né, credo, alla maggioranza degli istriani e dalmati italofoni, ma il fatto resta nella sua cruda realtà.
3) Io non riconosco NESSUNA VALIDITÀ al “diritto” di guerra: la violenza mi ripugna (posso accettarla, obtorto collo, sono in funzione di autodifesa) e la guerra, come forma estrema, ancor più. Anche il “diritto internazionale” va preso cum grano salis. I trattati del ’19 regalavano all’Italia una terra tedesca come l’Alto-Adige (Sud Tirolo) che NON ERA MAI STATA italiana linguisticamente (tanto che persino Cesare Battisti rivendicava solo il Trentino, fino alla “stretta” di Salorno). Insisto: solo l’AUTODETERMINAZIONE dei popoli è un principio valido, e deve potersi esprimere con LIBERE votazioni, senza eserciti minacciosamente occupanti (come, e qui spezzo una lancia in favore dell’italianità, fecero le truppe di Napoleone III a Nizza nel 1860). Questo principio è stato attuato in modo incompleto in molti casi. Il caso più famoso è quello della Russia dei Soviet (che credo faccia parte dell’ “universo mondo”) che CONCESSE la piena autodeterminazione, nel novembre 1917, a finlandesi, estoni, lettoni, lituani, polacchi, ucraini, georgiani ed armeni. Negli ultimi tre casi le guerre civili successive portarono, nel 1921, all’incorporazione nella futura URSS come Repubbliche Socialiste. Le rammento che fu proprio Lenin ad insistere perchè TUTTE le Repubbliche sovietiche NON RUSSE avessero confini con “paesi capitalisti”, in modo da rendere possibile il loro distacco (sancito dalla Costituzione russa del 1918 e da quella sovietica del 1924) da quella che, spesso giustamente, era percepita più per il sostantivo (Russia) che per gli aggettivi (socialista e sovietica).
In generale non mi ritengo un “giustificazionista”. Cerco solo di comprendere le ragioni di chi, oppresso e violentato per un quarto di secolo, arriva ad un grado di esasperazione esaltato dalla guerra (che per me, all’opposto che per i fascisti, fa uscire IL PEGGIO dell’essere umano).
Sul punto e), devo dire che cado letteralmente dalle nuvole: dove mai, nei “Paesi extraeuropei in cui, anche oggigiorno, si coltiva pervicacemente e amorevolmente il fiore dell’ortodossia marxista-leninista o trotzkista”? Per quanto riguarda il “trotskismo”, non esiste (aggiungerei purtroppo) nessun paese che abbia mai rivendicato questa prospettiva, nè in Europa nè altrove. Forse solo la Russia del 1917-18 può avere avuto qualcosa a che fare con il cosiddetto “trotskismo” (e in parte la Catalogna del 1936). Per quanto riguarda la cosiddetta “ortodossia marxista-leninista”, l’unico paese, a mia conoscenza, che vi si richiami è Cuba. Un flebile legame (praticamente solo legato alla simbologia) esiste in Cina, in Vietnam o in quel “paradiso” caricaturale che è la Corea del Nord. Ma, come le ho già scritto, hanno ben poco a che fare con i miei ideali (e con quelli della Quarta Internazionale) Ci sarebbe anche qui bisogno di dilungarsi, distinguendo tra la realtà cubana (che, nonostante tutto, appare più feconda e interessante), quella vietnamita o cinese (dove c’è da buttar via il 99%) o quella nordcoreana (da rifiutare e combattere IN TOTO).
Per quanto riguarda l’involuzione politica di esponenti “sessantottini” devo riconoscere le sue ragioni. Non tanto i nomi da lei evocati, nessuno dei quali proveniva dalla corrente a cui mi ispiro, essendo tutti più o meno “figliastri di Stalin” – direttamente o tramite figure come Togliatti o Mao-, quanto uomini politici come Giorgio Ruffolo o Lionel Jospin, o uomini di cultura come Savelli. Tutti ex trotskisti approdati a lidi moderati ( i primi due) o addirittura, a quanto mi consta, al leghismo reazionario. Le sconfitte storiche portano spesso molte persone a trovare soluzioni individuali. O più semplicemente, a cambiare opinione.
Flavio Guidi
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Egregio Guidi,
i contorni del “carteggio” ampliati, sì, tanto da far uscire dal seminato.
Lei va a nozze con elucubrazioni politiche, mentre io dalla politica sublimata mi sono tenuto e mi tengo premurosamente al largo: mai fui né sarò uno “ zoòn politikòn “.
Lei aspira ad assetti sociali che non sono di questo mondo, come non di questo mondo finì per rivelarsi un sistema socio-economico impiantato nel secondo dopoguerra oltre Adriatico: quello dell’autogestione operaia. Vissuta e conosciuta da vicino (su questo tema verteva, dirò incidentalmente, la mia tesi di laurea). Parafrasando il Leopardi, vien da dire : “ All’apparir del vero tu, misera, cadesti “.
Un coinvolgimento politico, un afflato, il suo, che, oserei dire, sconfina nel lirismo. Riflette, per chissà quale volta, la vaghezza della “ via italiana al comunismo” .
Ha evocato che “ Tra il 1919 e il 1945 hanno usato gli incendi (a cominciare dal Narodni Dom sloveno di Trieste) ”. Per completezza, gioverà pur ricordare che il mai abbastanza deprecabile incendio del “ Narodni Dom” di Trieste ( 13 luglio 1920 ) fu preceduto dall’uccisione a Spalato , due giorni prima, l’11 luglio 1920, di Tommaso Gulli, comandante della nave “ Puglia” e del motorista Aldo Rossi, ad opera di nazionalisti jugoslavi. Evento preceduto dalle violenze anti-italiane nel corso degli incidenti, sempre a Spalato, del 27 gennaio 1920: il Gabinetto di Lettura fu oggetto di una sassaiola, mentre le sedi della Società Operaia e del Consorzio di consumo italiano “ Unione Cooperativa” furono invase dai dimostranti, armati di rivoltelle, e distrutte. Distrutti, inoltre, oltre venti negozi italiani.
Equazioni personali distanti: suggeriscono di arrestare il “carteggio”.
Mi stia bene e…buona fortuna.
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Lo stesso augurio valga per lei. Grazie anche per le informazioni preziose. E grazie per l’apprezzamento per il mio “lirismo”. In tempi di cinismo dilagante lo prendo per un complimento. Comunque, se ne ha tempo e voglia, ci segua e non esiti a commentare il nostro blog.
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Cusi, tanto per ….
Queste righe sono state scritte nel Giorno del ricordo in Italia, 10 febbraio 2005 – quel dispiacere lo condivido con molti cittadini di questo Paese. I crimini delle fosse e quelli che in esse vi sono finiti, ciò che le ha precedute e che le ha seguite, l’ho condannato da tempo – mentre vivevo in Jugoslavia, quando di ciò in Italia si parlava raramente e non abbastanza. Ho scritto pure sui crimini di Goli Otok, di cui sono state vittime molti comunisti, Jugoslavi e Italiani che erano più vicini a Stalin e Togliatti che al “revisionismo” di Tito. Ho parlato anche della sofferenza degli esiliati italiani dall’Istria e dalla Dalmazia, dopo la Seconda Guerra mondiale – l’ho fatto in Jugoslavia, dove probabilmente era più difficile che in Italia. Non so di preciso quanti scrittori italiani ho presentato, che allora erano costretti ad andare via e quelli che sono rimasti: Marisa Madieri, Anna Maria Mori, Nelida Dilani, Diego Zandel, Claudio Ugussi, Giacomo Scotti, ecc. Non ricordo quanti articoli ho pubblicato sulla stampa delle minoranza italiana, poco conosciuta in Italia, così da poterla appoggiare, desiderando che fosse meno sola e meno esposta – e anche loro mi hanno appoggiato quando decisi di andarmene.
Le fosse, o le foibe come le chiamano gli Italiani, sono un crimine grave, e coloro che lo hanno commesso si meritano la più dura condanna. Ma bisogna dire sin da ora che a quel crimine ne sono preceduti degli altri, forse non minori. Se di ciò si tace, esiste il pericolo che si strumentalizzino e “il crimine e la condanna” e che vengano manipolati l’uno o l’altro. Ovviamente, nessun crimine può essere ridotto o giustificato con un altro. La terribile verità sulle foibe, su cui il poeta croato Ivan Goran Kovačić ha scritto uno dei poemi più commoventi del movimento antifascista europeo, ha la sua contestualità storica, che non dobbiamo trascurare se davvero desideriamo parlare della verità e se cerchiamo che quella verità confermi e nobiliti i nostri dispiaceri. Perché le falsificazioni e le omissioni umiliano e offendono.
La storia ingloriosa iniziò molto prima, non lontano dai luoghi in cui furono commessi i crimini. Prenderò qualcosa dai documenti che abbiamo a disposizione: il 20 settembre 1920 Mussolini tiene un discorso a Pola (non scelse a caso quella città). Annuncia: “Per la creazione del nostro sogno mediterraneo, è necessario che l’Adriatico (si intende tutto l’Adriatico, ndr.), che è il nostro golfo, sia in mano nostra; di fronte alla inferiorità della razza barbarica quale è quella slava”. Il razzismo così entra in scena, seguendo la “pulizia etnica” e il “trasferimento degli abitanti”. Le statistiche che abbiamo a disposizione fanno riferimento alla cifra approssimativa di 80.000 esuli Croati e Sloveni durante gli anni venti e trenta. Non sono riuscito a confermare quanti poveri siano stati portati dalla Calabria, e non so da dove altro, per poterli sostituire. Gli Slavi perdono il diritto, che avevano prima in Austria, di potersi avvalere della propria lingua sulla stampa e a scuola, il diritto al predicare in chiesa, e persino l’iscrizione sulla tomba. Le città e i villaggi cambiano nome. I cittadini e le famiglie pure. Lo Stato italiano estesosi dopo il 1918 non tenne in considerazione le minoranze e i loro diritti, cercò o di denazionalizzarli totalmente o di cacciarli. Proprio in questo contesto per la prima volta si sente la minaccia delle foibe. Il ministro fascista dei lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si attribuì l’appellativo vittorioso di “Giulio Italico”, scrive nel 1927: “La musa istriana ha chiamato con il nome di foibe quel luogo degno per la sepoltura di quelli che nella provincia dell’Istria danneggiano le caratteristiche nazionali (italiane) dell’Istria” (“Gerarchia”, IX, 1927). Lo zelante ministro aggiungerà a ciò anche dei versi di minacciose poesie, in dialetto: “A Pola xe arena, Foiba xe a Pizin” (“A Pola c’è l’arena, a Pazina le foibe”). Mutuo questo detto da Giacomo Scotti, scrittore italiano di Rijeka.
Le “foibe” sono, quindi, un’invenzione fascista. Dalla teoria si è passati velocemente alla prassi. Il quotidiano triestino “Il Piccolo” (5.XI.2001) riporta la testimonianza dell’ebreo Raffaello Camerini che era ai lavori forzati in Istria, alla vigilia della capitolazione dell’Italia, nel luglio 1943: la cosa peggiore che gli successe fu prendere gli antifascisti uccisi e buttarli nelle fosse istriane, per poi cospargere i loro corpi con la calce viva. La storia avrebbe poi aggiunto a ciò ulteriori dati. Uno dei peggiori criminali dei Balcani fu di sicuro il duce ustascia Ante Pavelić. Jasenovac fu un Auschwitz in piccolo, con la differenza che in esso si facevano lavori perlopiù “manualmente”, ciò che i nazisti fecero “industrialmente”. E le fosse, ovviamente, furono una parte di tale “strategia”. Mi chiedo se anche uno degli scolari italiani in uno dei suoi sussidiari poteva leggere che quello stesso Pavelić con le squadre dei suoi seguaci più criminali per anni godette dell’ospitalità di Mussolini a Lipari, dove ricevette aiuto e istruzioni dai già allenati “squadristi” fascisti. Quelli che oggi parlano dei programmi scolastici in Italia e sul luogo delle foibe, non dovrebbero trascurare di includere anche questi dati. E anche altro vale la pena di ricordare: il governo di Mussolini aveva annesso la maggior parte della Slovenia insieme con Lubiana, la Dalmazia, il Montenegro, una parte della Bosnia Erzegovina, l’intera Bocca di Cattaro. A quel tempo, tra il 1941 e il 1943, di nuovo, furono cacciati dall’Istria circa 30.000 Slavi – Croati e Sloveni – e fu occupata la regione. Le “camicie nere” fasciste portarono a termine fucilazioni individuali e di massa. Fu falciata un’intera gioventù. I dati che provengono da fonti jugoslave fanno riferimento a circa 200.000 uccisi, particolarmente sulle coste e sulle isole. La cifra mi sembra che sia però ingrandita – ma anche se solo un quarto rispecchiasse la realtà, sarebbe già molto. In Dalmazia gli occupanti italiani catturarono e fucilarono Rade Končar, uno dei capi del movimento, il più stretto collaboratore di Tito. In determinate circostanze hanno pure aiutato il capo dei cetnici serbi in Dalmazia, il pope Ðuijić, che incendiò i villaggi croati e sgozzò gli abitanti, vendicandosi con gli ustascia per i massacri che avevano commesso contro i Serbi. Così da fuori prese impulso pure la guerra civile interna. A ciò occorre aggiungere l’intera catena dei campi di concentramento italiani, i più piccoli e i più grandi, dall’isoletta di Mamula nel profondo sud, davanti a Lopud nelle Elafiti, fino a Pago e Rab nel golfo del Quarnaro. Erano spesso stazioni di transito per la mortale risiera di San Sabba di Trieste, e in alcuni casi anche per Auschwitz o Dachau. I partigiani non furono protetti dalla Convenzione di Ginevra (in nessun luogo al mondo) così che i prigionieri furono subito fucilati come cani. Molti terminarono la guerra con gravi ferite, corporali e morali. Tali erano quelli in grado di commettere crimini come le foibe.
Non c’è nessun dato in nessun archivio, militare o civile, sulla direttiva che sarebbe giunta dall’Alto comando partigiano o da Tito: le unità di cui facevano parte molti di quelli che avevano perso i familiari, i fratelli, gli amici, commisero dei crimini “di propria mano”. Purtroppo, il fascismo ha lasciato dietro di sé talmente tanto male che le vendette furono drastiche non solo nei Balcani. Ricordiamoci del Friuli, nella parte confinante con l’Italia, dove non c’erano scontri tra nazionalità: i dati parlano di diecimila uccisi senza tribunale, alla fine della guerra. In Francia ce ne furono oltre 50.000. In Grecia non so quanti.
In Istria e a Kras dalle foibe sono stati esumati fino ad ora 570 corpi (lo storico triestino Galliano Fogar ne riporta persino un numero minore, notando che nelle fosse furono gettati anche alcuni soldati uccisi sui campi di battaglia, non solo Italiani). Oggi possiamo sentire la propaganda che su svariati media italiani fa riferimento a “decine di migliaia di infoibati”. Secondo lo storico italiano Diego de Castro nella regione furono uccisi circa 6.000 Italiani. Non serve aumentare o licitare quel tragico numero, come in questo momento sembrano fare i giornali italiani, con 30.000 o 50.000 uccisi. Bisogna rispettare le vittime, non gettare sulle loro ossa altri morti, come hanno fatto gli “infoibatori”.
Per ciò che riguarda invece i luoghi che tutti questi dati occupano nell’immaginario, non mi sembra che sia benvenuta la propaganda che come tale è diffusa dal film “Il cuore nel pozzo”, che in questi giorni è stato visto in televisione da circa 10 milioni di Italiani, pubblicizzato in un modo incredibilmente aggressivo. Nessuna testimonianza storica parla di una madre che i partigiani portano via dal figlio e poi la buttano nelle foibe! Questa è un’invenzione tendenziosa dello sceneggiatore. Il cinema italiano ha una eccellente tradizione nel neorealismo, una delle più significative di tutta la moderna cinematografia – non gli servono dei modelli simili al “realismo sociale”, dei film sovietici girati negli anni sessanta del secolo scorso. E nei preparativi, che in questi giorni sono stati organizzati, o nelle trasmissioni tv più guardate, sarebbe stato meglio se ci fosse stato qualche ministro che avesse, rispetto al fascismo, un diverso passato piuttosto che quelli che abbiamo visto in scena. Ciò sarebbe servito da modello e autenticità alle testimonianze.
La Jugoslavia non esiste più. Croati, serbi, sloveni e gli altri nazionalisti si compiacciono quando la destra italiana gli offre nuovi argomenti per accusare lo Stato che essi stessi hanno lacerato. (Ricordiamoci che il film è stato girato in Montenegro, nella Bocca di Cattaro, con un attore serbo che interpreta il ruolo del partigiano sloveno…) Così di nuovo si feriscono i popoli le cui cicatrici ancora non sono state medicate. È questo il modo migliore – in particolare se se allo stesso tempo si nasconde tanto quanto non corrisponde a verità? Perché, non c’è una qualche via migliore? Il dispiacere che condividiamo può essere reso in un modo più degno e nobile, la storia in modo meno mutilato e difettoso? Non è fino a ieri che vicino a Trieste passava la più aperta frontiera tra l’Oriente e l’Occidente, al tempo della guerra fredda e della grande prosperità della città di San Giusto? Gli Italiani e i Croati in Istria, in questi ultimi anni, non hanno forse trovato un linguaggio comune per opporsi al nazionalismo tudjmaniano molto più di quanto non sia stato fatto altrove in Croazia? E alla fine a chi serve questa strumentalizzazione di cui siamo testimoni?
Non siamo ingenui. Si tratta di una mobilitazione eccezionalmente riuscita del berlusconismo nello scontro con l’opposizione, con la sinistra e le sue relazioni col comunismo che, secondo le parole di Berlusconi, ha sempre e solo portato “miseria, morte e terrore”, e persino anche quando sacrificò 18 milioni di vittime di Russi nella lotta per la liberazione dell’Europa dal fascismo. Questa campagna meditata è iniziata 5-6 anni fa, al tempo in cui fu pubblicato “Il libro nero sul comunismo”, distribuito pubblicamente dal premier ai suoi accoliti. Essa è condotta, pubblicamente e dietro le quinte, abilmente e sistematicamente. Il suo vero scopo non è nemmeno quello di accusare e umiliare gli Slavi, ma danneggiare i propri rivali e diminuire le loro possibilità elettorali. Ma gli Slavi – in questo caso perlopiù Croati e Sloveni – ne stanno pagando il conto.
Esiste una sorta di “anticomunismo viscerale” che secondo le parole di un mio amico, il geniale dissidente polacco Adam Michnik, è peggio del peggiore comunismo. Il sottoscritto forse ne sa qualcosa di più: ha perso quasi l’intera famiglia paterna nel gulag di Stalin. Ma per questo non disprezza di meno i fascisti.
… e per finir, visto che parlavi de … la fazo curta, italianita perche ghe iera l’impero romano, allora, chissa che un giorno no se trovemo a rivangar la storia e avanzar pretese sul suolo britannico, dopotutto anche la xe stadi trovadi tanti scavi romani 🙂
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Dimenticavo, xe tratto da …
Pubblicato su Novi List, 12 febbraio 2005, col titolo “Foibe” su fašistički izum
Traduzione italiana di Luka Zanoni per Osservatorio sui Balcani
di Predrag Matvejević
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So chi fosse Predrag Matvejevic, autore dell’articolo, e quale fosse lo spessore morale della sua persona.
Punge la curiosità di sapere chi sia il signor Sergio, che si firma solo col prenome. Chissà quale circospezione lo avrà orientato a non rivelare anche il cognome, di cui sarà pur titolare. Risiederà, suppongo, ad Est dell’Isonzo.
Per dirla nel suo e nel mio dialetto: “Cusì, tanto per saver…”.
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Hahaha me fa morir de rider sta roba, de voler assolutamente saver el cognome de chi fa un commento, come saria vitale scoprir chi ghe se cela drio…. No go nisun problema a rivelar el mio cognome, Parovel, triestin da generazioni e slovenc
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Non so chi sia Sergio, sig. Matulich, ma mi sembra che il suo commento sia piuttosto serio (come, ricordo, erano stati seri ed argomentati i rilievi da lei mossi al mio articolo di due anni fa). Non so se l’omissione del cognome sia dovuta a scrupoli di qualche tipo, ma non mi sembra così rilevante.
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Quello pubblicato non è il commento di chi si firma Sergio, ma dello scrittore erzegovese–croato Predrag Matvejevic, spirato nel febbraio 2017. Commento-articolo apparso il 12 febbraio 2005 nel quotidiano “Novi List” di Fiume/Rijeka, come lo stesso Sergio , nel riproporne il testo, si è premurato di segnalare.
Motivo in più per ribadire che lascia perplessi la riluttanza ad apparire col proprio nome e cognome. Anche se a lei sembra che la circostanza non sia rilevante.
Certo è, peraltro, che è un mio conterraneo.
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di quale riluttanza parla sig Matulich, visto che ho soddisfatto la sua curiosita ?
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Lei ha soddisfatto la mia insana curiosità proprio mentre spedivo la mia seconda noterella.
Bon, bon, semo a posto. La staghi ben.
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