Riportiamo, dal sito dei compagni del PCL, un interessante dibattito sulla figura di Gramsci.

Gramsci e la ‘bolscevizzazione’ del PCd’I: 1924-1926

20 Maggio 2025


Il destino di Gramsci nella storia del movimento operaio è singolare: raramente un dirigente comunista è stato apprezzato da una tanto vasta e contraddittoria area. Dai trotskisti agli stalinisti, passando per alcune correnti socialdemocratiche, tutti, con l’unica comprensibile eccezione delle tendenze che si richiamano alla “Sinistra italiana” (bordighisti), trovano in Gramsci un fondamento per le loro posizioni politiche. D’altro canto, a seconda del periodo preso in esame, Gramsci si presta a differenti interpretazioni, il che dimostra una ambiguità di fondo del suo pensiero, e un’evoluzione contraddittoria, dall’Ordine nuovo ai Quaderni del carcere.

L’ascesa di Gramsci alla testa del Partito Comunista d’Italia (PCd’I) avviene negli anni cruciali che vanno dal 1924 (quinto congresso dell’Internazionale Comunista) al 1926, data del congresso di Lione, quando il processo di estromissione della sinistra bordighista dalla direzione del PCd’I si può considerare concluso. La vittoria del centro di Gramsci-Togliatti non sarebbe stata possibile in maniera così rapida e così completa senza la trasformazione che in quegli anni stava conoscendo l’Internazionale Comunista, da Internazionale di partiti comunisti votati alla rivoluzione socialista a strumento subordinato della diplomazia dello stato sovietico. Il socialismo “in un solo paese” è stata l’ideologia di questa trasformazione, ovvero il programma con il quale una casta burocratica dominata da Stalin assumeva il potere in Urss, e la “bolscevizzazione” dell’Internazionale il suo strumento organizzativo.
 
Questo articolo intende fornire una valutazione storica, sganciata dal mito, e necessariamente sintetica, dell’evoluzione di Gramsci in questi anni cruciali. Qui non è possibile esaminare in dettaglio le differenti interpretazioni che di questo processo hanno dato vari studiosi, preoccupati più di difendere un proprio punto di vista politico che di spiegare lo svolgersi degli avvenimenti, e mi riferisco innanzitutto a Berti e a Togliatti.
Ciò che maggiormente stupisce è l’interpretazione dei vari gruppi che in Italia si richiamano (o si sono richiamati) al trotskismo: in sostanza non si discostano dalla vulgata togliattiana, secondo cui il processo di formazione di un nuovo gruppo dirigente nel PCd’I nel 1923-’26 si spiega con l’allontanamento di Gramsci dall’estremismo bordighista e la riappropriazione del metodo e del programma leninista, che sarebbe in definitiva codificato nelle tesi di Lione.
 

GRAMSCI E LA “BOLSCEVIZZAZIONE” DELL’INTERNAZIONALE
 
Invece è avvenuto l’inverso: Gramsci, dopo un’iniziale adesione alle ragioni della critica di Trotsky alla nascente burocrazia sovietica, si muove gradualmente verso il gruppo dirigente stalinista, convinto che senza il sostegno dell’Internazionale non potrà avere ragione della sinistra bordighista. I punti d’avvio e d’arrivo di questa evoluzione sono la lettera del 9 febbraio 1924 e la lettera dell’ottobre 1926.

La data del distacco di Gramsci da Bordiga può considerarsi il rifiuto di firmare il “Manifesto” bordighista del 1923 (che invece aveva il sostegno di Togliatti e altri), un documento rivolto a una critica dell’intera politica dell’Internazionale Comunista. A Mosca, dove si trovava negli anni 1922-23 per incarico del PCd’I, Gramsci aveva maturato il distacco dall’estremismo di Bordiga grazie soprattutto all’influenza di Trotsky: tracce di questa influenza si ritrovano nella lettera del febbraio 1924, diretta al CC (Comitato Centrale) del PCd’I, nella quale lettera si trova una valutazione di Trotsky del tutto differente da quella dei Quaderni.

Nello spiegare la lotta all’interno del Partito russo, sulle due questioni fondamentali della democrazia interna al Partito e della rivoluzione tedesca, Gramsci sostanzialmente difende le posizioni trotskiste contro la “troika”, dando anche del passato (la disputa sull’Ottobre del 1917) e della rivoluzione permanente una valutazione assai simile a quella trotskista (la lettera è pubblicata in Togliatti: La formazione del gruppo dirigente del Partito Comunista Italiano, Editori Riuniti).

Ma il giudizio di Gramsci sulle vicende interne al PC russo cambia subito dopo, e comincia l’allineamento alla maggioranza di Stalin-Zinoviev: quasi certamente questo avviene per i motivi della lotta antibordighista e sotto la pressione del gruppo dirigente sovietico. Nella sua battaglia contro Bordiga, Gramsci ha bisogno del sostegno dell’Internazionale, in quel momento in mano alla troika antitrotskista. Dal canto loro Stalin e Zinoviev hanno bisogno di direzioni nazionali fedeli che li sostengano nella lotta contro Trotsky, mentre Bordiga assume decisamente le difese del fondatore dell’Armata rossa contro il “socialismo in un paese solo” che stava svuotando l’Internazionale del suo contenuto leninista rivoluzionario.
 
Così quando nel partito scoppia la cosiddetta “questione Trotsky” i due dirigenti fondatori del PCd’I si trovano dalle due parti opposte della polemica: Bordiga con il dirigente della rivoluzione d’Ottobre e compagno di Lenin, Gramsci con gli epigoni della troika Stalin-Zinoviev-Bucharin.

Fin dal maggio del 1924, nello Schema di tesi sulla tattica e sulla situazione interna del PCI, la Centrale del PCd’i scrive: «Sulla questione russa riteniamo che è bene che tutte le sezioni diano il loro giudizio (…) dichiariamo di approvare la linea seguita dalla maggioranza del comitato centrale del Partito comunista russo» (pubblicato in «Lo stato operaio», 15 maggio 1924). Concetto ribadito nel novembre del 1924 da Gramsci nell’introduzione a un articolo della «Pravda» (senza firma, ma quasi certamente di Bucharin) che recensiva duramente il testo di Trotsky Le lezioni d’Ottobre e dava il via alla campagna antitrotskista:
 
Nel terzo volume delle sue opere (1917), appena pubblicato, vi è una prefazione di circa 60 pagine. Come altra volta gli epigoni di Marx, sotto la sua bandiera, hanno tentato la revisione del marxismo, così oggi Trotzki, in nome del leninismo, vuol revisionare il bolscevismo (in A. Gramsci: La costruzione del partito comunista, Einaudi 1978, p. 211)
 
Con la campagna per la “bolscevizzazione” il centro stalinista-zinovievista infatti pretende più di una accettazione passiva della lotta contro il “trotskismo”: richiede alle varie direzioni una partecipazione attiva, sul loro terreno nazionale, per scardinare il prestigio internazionale di Trotsky. Contrariamente a quello che ritiene Berti (Introduzione all’Archivio Tasca, Annali Feltrinelli 1966) la “bolscevizzazione” non costituì una svolta a sinistra dell’Internazionale, nonostante l’offerta (rifiutata) della vice-presidenza a Bordiga al quinto congresso dell’Ic (che costituiva un modo di giubilarlo), ma il tentativo (riuscito) di rimpiazzare, alla testa delle sezioni nazionali, direzioni fedeli al centro russo. Dietro la maschera della «lotta al trotskismo» si destituirono amministrativamente le direzioni dei principali partiti comunisti europei: francese, tedesco, polacco, ecc., quali che fossero le loro posizioni. E al loro posto vennero nominati dirigenti che brillavano solo per la fedeltà al centro moscovita. Con la bolscevizzazione, in definitiva, si intendeva porre il bavaglio a quelle tendenze critiche della degenerazione burocratica del potere sovietico, e del “socialismo in un paese solo”.
 
Come espone Gramsci in un intervento alla Conferenza di Como (1924):
 
Non basta dichiarare di essere disciplinati. Bisogna mettersi sul piano di lavoro indicato dall’Internazionale’. (…) Trotzki, pur partecipando ‘disciplinatamente’ ai lavori del partito aveva, col suo atteggiamento di opposizione passiva – simile a quello di Bordiga – creato uno stato di malessere in tutto il partito, il quale non poteva non avere sentore di questa situazione. (cfr. in La costruzione del partito comunista, cit., p. 461).
 
All’Esecutivo allargato del 1925, Stalin chiede alla delegazione italiana (Gramsci e Scoccimarro) di prendere parte attivamente sui due temi essenziali: la “bolscevizzazione” e la «lotta al trotskismo». Cosa che Gramsci e Scoccimarro assicurano.
Un resoconto di questa riunione, apparso nell’«Unità» del 4 luglio 1925, paragona il trotskismo al bordighismo, e istituisce un parallelo tra la lotta dell’Ic contro il “trotskismo” e la lotta del partito italiano contro l'”estremismo” di Bordiga.

Ma già nella relazione al CC del 6 febbraio 1925, che precedette la partenza della delegazione italiana per Mosca, Gramsci aveva espresso senza mezzi termini la propria adesione alla campagna antitrotskista:
 
Nella mozione si dovrebbe, inoltre, dire come le concezioni di Trotzki e soprattutto il suo atteggiamento rappresentano un pericolo, in quanto la mancanza di unità nel partito in un paese in cui vi è un solo partito, scinde lo Stato. Ciò produce un movimento controrivoluzionario; la qual cosa non significa, però, che Trotzki sia un controrivoluzionario: ché in questo caso ne dovremmo chiedere l’espulsione”. (La costruzione…, cit., p. 473)
 
Questo richiamo all’unità, congiuntamente alla proibizione delle frazioni e all’adesione alla “bolscevizzazione”, ha lo scopo di allineare il PCd’I alla direzione staliniana dell’Internazionale, in maniera acritica. Secondo una testimonianza resa da Leonetti a F. Ormea, Gramsci considerava Stalin nel 1925 “il migliore tra i compagni russi” (citato in F. Ormea: Le origini dello stalinismo nel PCI, Feltrinelli, p. 85). E infine, nella lettera dell’ottobre 1926, da vari commentatori di sinistra considerata una “presa di distanza” di Gramsci da Stalin, non si fa che ribadire l’adesione sostanziale alla linea della maggioranza del Pcr, con l’unica raccomandazione di “non stravincere”. Che questa sia l’intenzione è Gramsci stesso a testimoniarlo in una successiva lettera a Togliatti:
 
la nostra lettera era tutta una requisitoria contro le opposizioni, fatta non in termini demagogici ma appunto perciò più efficace e più seria. (La costruzione…, cit. p. 137)
 

LA DEFINITIVA SCONFITTA DELLA SINISTRA E IL CONGRESSO DI LIONE

Alla conferenza di Como del 1924 il partito è ancora saldamente in mano alla sinistra. Il congresso di Lione del 1926 invece assiste al definitivo trionfo del centro gramsciano-togliattiano. Questo non è avvenuto per mezzo della persuasione programmatica, ma con strumenti amministrativi, dei quali la disciplina alle decisioni dell’Internazionale stalinizzata non è stato il meno importante.

In preparazione del congresso di Lione il centro stalinista interviene per fornire le direttive organizzative sulla lotta contro la sinistra. In una lettera del 20 agosto del 1925 il presidium dell’Internazionale Comunista scrive tra l’altro:
 
Organizzare i congressi federali in maniera tale che le grandi federazioni che sono con il CC e dove Bordiga ha meno influenza, si pronuncino per prime. Pubblicare anche, ed utilizzare prima dei congressi federali, i voti delle cellule delle grandi fabbriche ove abbiamo la schiacciante maggioranza. (citato in La liquidazione della sinistra del PCd’I, edizioni L’internazionale, p.240)
 
Mentre il centro gramsciano-togliattiano agiva in pratica da frazione, congiuntamente con l’Internazionale stalinizzata, alla sinistra veniva proibita l’organizzazione in frazione (v. lettera del CE (Comitato Esecutivo) a Ottorino Perrone, id, p. 243). Lo stesso Spriano (uno storico non sospettabile di filobordighismo) scrive:
 
La cronaca del dibattito è ricca, all’inizio (…) di misure disciplinari che troncano sul nascere l’organizzazione della corrente bordighiana come frazione. E’ la stessa internazionale che, con l’intervento di Humbert-Droz, intima di sciogliere il Comitato d’intesa [la frazione bordighista]… (in Storia del partito comunista italiano, Vol. I, Paolo Spriano, Einaudi 1978, p. 479).
 
Le stesse norme per i congressi federali e regionali e la nomina dei delegati, costituivano una vera e propria truffa ai danni della sinistra. Al punto n. 1 la circolare del CE recitava:
 
Si deve rendere noto a tutti i compagni che per coloro che si trovano nella impossibilità di partecipare alla riunione suindicata [dove si votano i delegati e le tesi, nota] e intendano dare il loro voto alle tesi di estrema sinistra, di comunicarlo per iscritto agli organi responsabili i quali sono tenuti a darne comunicazione al congresso federale. Per tutti coloro che assenti non facessero pervenire alcuna comunicazione, il loro voto si considera dato per le tesi presentate dalla Centrale. (La liquidazione…, p. 247).
 
Si può immaginare cosa questo potesse significare nel 1925, quando la partecipazione ai congressi veniva resa quasi impossibile dalla polizia fascista.

La pressione dell’Internazionale sul partito italiano, la manipolazione dei congressi da parte della centrale e l’attribuzione al centro di tutti i voti non dati per iscritto alla sinistra, spiegano come al congresso di Lione il centro di Gramsci-Togliatti abbia ottenuto oltre il 90 per cento dei delegati, mentre la sinistra bordighista non abbia raggiunto il 10 per cento. Ciò che avvenne in Italia nel 1925-’26 è la fotocopia di quello che era avvenuto nel partito russo nel 1923-’24, quando per sconfiggere la sinistra di Trotsky vennero cambiate le regole di formazione dei delegati al congresso, in modo da assicurare alla frazione Stalin-Zinoviev la maggioranza al XIII congresso, da cui partire per sconfiggere definitivamente l’ala bolscevica rivoluzionaria.

In seguito l’Opposizione di sinistra parlò di questo periodo come del “termidoro” del potere sovietico. Fatti i debiti paragoni, ciò che avvenne nel partito italiano è paragonabile al termidoro sovietico. E così come Zinoviev in definitiva spianò la strada a Stalin (dal quale poi venne sconfitto e infine assassinato), Gramsci spianò la strada alla degenerazione togliattiana del PCd’I.
 

LE TESI DI LIONE
 
Nella Formazione del gruppo dirigente del PCI, Togliatti scrive: «La conquista della maggioranza del partito venne condotta a termine da questo gruppo, di fatto, soltanto al III congresso del partito, che si tenne a Lione nel gennaio 1926» (p. 11).

In effetti il congresso di Lione costituisce il punto d’arrivo del processo che aveva portato il centro di Gramsci e Togliatti a rompere con il leninismo per aderire alla direzione internazionale di Stalin-Zinoviev e il punto di passaggio per la stalinizzazione del PCI. Le tesi (scritte congiuntamente da Gramsci e Togliatti) costituirono la sintesi e la codificazione di questo processo. A Lione venne approvato un corpo di 5 tesi (sulla situazione internazionale; sulla questione nazionale e coloniale; sulla questione agraria; politica: situazione italiana e bolscevizzazione del PCI; sindacale). Le tesi sulla situazione politica sono passate alla storia come le “Tesi di Lione”.

La natura contraddittoria di queste Tesi riflette il fatto che il processo non è compiuto, che permangono tracce dell’impostazione leninista-trotskista dei primi quattro congressi dell’Internazionale Comunista. Fermarsi tuttavia a considerare l’adesione delle Tesi alla tattica del fronte unico (benché anche questa non priva di ambiguità, oscillando tra la concezione leninista e una concezione frontepopulista) o alla necessità di parole d’ordine di carattere transitorio è un inutile esercizio scolastico, senza rilevanza pratica: occorre studiare attentamente le implicazioni concrete di tali formulazioni. Il problema in definitiva consiste nel coglierne le novità e le rotture. E le novità sono l’indice della trasformazione del PCI da partito rivoluzionario a partito stalinizzato.
 
Rompendo con la concezione leninista del partito le tesi sanciscono decisamente la proibizione delle frazioni. Scrive Gramsci: «La esistenza e la lotta di frazioni sono infatti inconcepibili con la essenza del partito del proletariato, di cui spezzano la unità aprendo la via alla influenza di altre classi» (La costruzione del partito comunista, cit. p. 506).

Tuttavia, la proibizione di frazioni in effetti valeva solo per la sinistra bordighiana ed è stato uno degli strumenti per le manovre burocratiche del centro di Gramsci-Togliatti.
Uno strumento organizzativo burocratico non è un fine, ma semplicemente un mezzo per una politica riformista o centrista. Così la debolezza maggiore delle Tesi di Lione salta agli occhi quando si traccia la politica che intende seguire il PCI in Italia.
 

UNA POLITICA CENTRISTA
 
Dopo aver dichiarato la necessità di parole d’ordine intermedie, di carattere democratico e transitorio, l’esempio che le Tesi forniscono di queste parole d’ordine si ferma all’agitazione antimonarchica da condurre con lo slogan dell'”assemblea repubblicana sulla base dei comitati operai e contadini“. Attorno a questa parola d’ordine ruotava tutta la propaganda e l’agitazione del PCI a partire dall’assassinio Matteotti, formulata per la prima volta in una lettera alle opposizioni aventiniane. Più di una volta Trotsky criticò questa prospettiva. In particolare, scrive Trotsky nel maggio del 1930:
 
L’”Assemblea repubblicana” costituisce innegabilmente un organismo dello stato borghese. Che cosa sono invece i ‘Comitati operai e contadini’? E’ evidente che in qualche modo sono un equivalente dei Soviet operai e contadini. (…) Come è possibile, in queste condizioni, che un’assemblea repubblicana – organo supremo dello stato borghese – abbia come base degli organismi di Stato proletario? (in Scritti sull’Italia, ed. Controcorrente, p. 184)
 
E, il 25 settembre 1929, aveva scritto alla Frazione bordighista, in un testo che approvava la “Piattaforma della sinistra” al congresso di Lione:

A proposito, non è Ercoli [Togliatti, nota] che tenta di adattare all’Italia l’idea della ‘dittatura democratica’ del proletariato e dei contadini’, sotto forma di un’assemblea costituente appoggiantesi su ‘un’assemblea operaia e contadina’? (id. p. 149)

Sarebbe esagerato considerare il congresso di Lione come la fase conclusiva del processo che ha condotto il PCI dal leninismo a togliattismo, ma, nello stesso tempo Lione costituisce la porta della degenerazione riformista del PCI attraverso il breve interregno centrista di Gramsci.

In seguito Gramsci ruppe definitivamente con lo stalinismo negli anni tra il 1927 e il 1930, tanto che, secondo alcune testimonianze, venne espulso dal PCd’I per la sua opposizione alla svolta dell’Internazionale verso la teoria del socialfascismo e alle misure burocratiche che hanno accompagnato questa svolta. I Quaderni del carcere costituiscono ancora oggi uno dei testi più fecondi per comprendere la storia d’Italia e un classico del pensiero politico. Benché non privi di ambiguità e contraddizioni, permangono uno strumento essenziale per l’emancipazione delle classi subalterne.

Gino Candreva

Sulla figura di Gramsci

9 Giugno 2025

Risposta al compagno Gino Candreva


Il compagno Gino Candreva ha recentemente pubblicato sul nostro sito, su richiesta della sua redazione, un testo di inquadramento della figura di Antonio Gramsci con particolare riferimento alla fase della cosiddetta “bolscevizzazione” dei partiti comunisti da parte del Comintern negli anni 1924-1925. Condivido diverse notazioni del testo, ma non la sostanza della caratterizzazione di Gramsci che esso propone. Mi pare quindi corretto presentare la diversa opinione che il PCL ha sinora sostenuto sull’argomento. Nel pieno rispetto ovviamente della legittimità delle posizioni del compagno Candreva e del contributo che ha inteso portare.

In buona sostanza, ed in estrema sintesi, il compagno Candreva, sostiene quanto segue.
1) La bolscevizzazione dei partiti comunisti fu l’avvio della stalinizzazione del Comintern. Dal 1924 al 1926 Gramsci appoggiò la stalinizzazione in funzione della propria battaglia contro Bordiga in Italia.
2) Il terzo Congresso del Partito Comunista d’Italia (PCd’I) e le Tesi di Lione hanno confermato la «trasformazione del PCI da partito rivoluzionario a partito stalinizzato». In questo senso rappresentano «la porta della degenerazione riformista del PCI attraverso il breve interregno centrista di Gramsci.».
3) La lettera dell’ottobre 1926 rivolta da Gramsci e dall’Ufficio Politico del PCd’I al Comitato Centrale del Partito Bolscevico ribadisce l’adesione di Gramsci alla maggioranza staliniana

Credo che questa rappresentazione, complessivamente intesa, sia sbagliata: un avallo alla lettura bordighista della storia del PCd’I degli anni ’20, e paradossalmente proprio per questo una involontaria legittimazione della visione di Gramsci quale precursore del togliattismo su cui ha campato la storiografia del PCI per più di mezzo secolo.


LA “BOLSCEVIZZAZIONE ZINOVIEVISTA” E L’ERRORE DI GRAMSCI

Naturalmente in ogni rappresentazione sbagliata si incontrano elementi di verità. È vero: la bolscevizzazione del 1924-’25 fu l’avvio della normalizzazione burocratica dei partiti comunisti in funzione della loro subordinazione alla maggioranza dirigente del Partito Bolscevico (in quella fase Zinoviev, Kamenev, Stalin) nella sua lotta contro Trotsky e l’Opposizione di sinistra. Ed è vero che Gramsci, che pur nel 1923 e nei primissimi mesi del 1924, come riconosce il compagno Candreva, aveva apertamente difeso le ragioni di Trotsky (sul Nuovo Corso, sul fallimento della rivoluzione tedesca, sulla stessa lettura della Rivoluzione d’ottobre come rivoluzione permanente…), a partire dal maggio 1924 svoltò rapidamente a favore della troika Zinoviev-Kamenev-Stalin, in funzione della propria lotta contro Bordiga (schieratosi internazionalmente con Trotsky). I metodi amministrativi usati da Gramsci contro la minoranza bordighista (che si era costituita in frazione come Comitato d’Intesa) furono sbagliati e inaccettabili da un punto di vista leninista. E così diversi argomenti che li accompagnarono, come ad esempio l’esaltazione dell’unanimismo. Più in generale, il grande errore politico di Gramsci in quegli anni, e la sua obiettiva responsabilità, fu quello di illudersi di poter tenere il PCd’I al riparo delle “controversie russe”, al fine di guadagnare tempo e consolidare il partito italiano. Un calcolo tragicamente sbagliato. Non siamo tra coloro che vogliono rimuovere o minimizzare questi gravi errori e responsabilità di Gramsci, come hanno fatto e fanno alcune correnti del trotskismo internazionale (PTS-FT) nel nome di una sua sacralizzazione ideologica.

Ma chi vede solo un lato della verità finisce col darne una rappresentazione ideologica distorta. È bene allora riassumere la parabola di Gramsci in tutta la sua complessità e contraddittorietà.


LA PARABOLA DI GRAMSCI, DA BORDIGA A LENIN

A capo della corrente torinese di Ordine Nuovo, il giovane Antonio Gramsci esaltò la Rivoluzione d’ottobre come affermazione della democrazia sovietica. Tutta l’esperienza dei consigli di fabbrica nel corso del Biennio rosso (1919-1920) consolidò il riferimento di Gramsci al bolscevismo e al potere dei soviet. È vero che nel Gramsci consiliarista del Biennio rosso ci fu una sottovalutazione della questione partito (ciò che Gramsci riconoscerà successivamente). È vero che fu Bordiga e non Gramsci a guidare la scissione del Partito Socialista. È vero che fu Bordiga e non Gramsci il primo fondatore del Partito Comunista d’Italia a Livorno. Ma Bordiga era portatore di una visione dottrinaria e ideologica, di fatto mutuata dalla tradizione del massimalismo italiano, profondamente estranea a Lenin: il quale infatti ingaggiò assieme a Trotsky una polemica durissima contro il bordighismo (rifiuto del fronte unico, delle rivendicazioni transitorie, dell’uso rivoluzionario del parlamentarismo, della parola d’ordine del governo operaio) in occasione del terzo e del quarto Congresso (1921-1922) della Terza Internazionale. Del resto, non a caso ancor prima della fondazione del PCd’I Lenin aveva citato l’Ordine Nuovo di Gramsci e non Bordiga quale riferimento esemplare del bolscevismo in Italia.

Gramsci commise l’errore di subordinarsi a Bordiga nei primi due anni del PCd’I, votando le sue Tesi di Roma del 1922 (rifiuto della conquista della maggioranza del proletariato) e avallando passivamente gli errori pesanti che ne derivarono, come il rigetto del fronte unico. Anche se Gramsci, come riconoscerà Trotsky tanti anni dopo, fu l’unico dirigente del Partito Comunista d’Italia, in quella fase drammatica, a interrogarsi seriamente sulla natura nuova della reazione fascista, e a considerare possibile la sua affermazione, a fronte della totale incomprensione bordighiana. Non a caso Gramsci si differenziò dal radicale rifiuto degli Arditi del Popolo da parte di Bordiga.

Certo è che nel 1923 la rottura di Gramsci con Bordiga e l’apertura di una lotta interna al partito per un suo cambio di direzione fu un fatto progressivo di enorme importanza politica per il marxismo rivoluzionario in Italia. La rottura non avvenne sotto la pressione di Zinoviev e tanto meno di Stalin (all’epoca ancora figura del tutto marginale internazionalmente). Avvenne sotto la diretta pressione di Trotsky durante la permanenza di Gramsci in URSS. E avvenne nel segno della piena adesione di Gramsci al leninismo e alle conclusioni del quarto congresso dell’Internazionale Comunista. Quelle che Bordiga (da lì in poi il “bordighismo”) denunciò come l’inizio della degenerazione.


LA POLITICA DI GRAMSCI NELLA CRISI MATTEOTTI. LENINISMO CONTRO ZINOVIEVISMO

È vero, come già detto, che a partire dal 1924 Gramsci si appoggiò sulla troika Zinoviev-Kamenev-Stalin in funzione anti-Bordiga. Ma leggere le posizioni di Gramsci nella lotta politica in Italia tra il 1924 e il 1926 come un puro riflesso passivo della linea del Comintern è sbagliato. Significa ignorare una contraddizione profonda tra il PCd’I e il corso zinovievista varato dal quinto Congresso del Comintern.

Il quinto Congresso del Comintern – allora ancora diretto da Zinoviev e non da Stalin – aveva reagito alla sconfitta della rivoluzione tedesca del 1923, determinata dalla crisi della sua direzione nazionale e internazionale, con una svolta improvvisa apparentemente ultrasinistra (tesi di una collaborazione organica tra democrazia e fascismo, fronte unico solo dal basso, imminenza della crisi rivoluzionaria, tragiche sperimentazioni insurrezionali minoritarie in Bulgaria e in Estonia). Era il modo con cui Zinoviev, Presidente dell’Internazionale Comunista, cercava di allontanare da sé la responsabilità del fallimento tedesco e degli errori opportunistici che l’avevano accompagnato (che Trotsky aveva denunciato con le sue Lezioni dell’Ottobre, nel 1924). Una sorta di anticipazione in miniatura di quella che diverrà sotto Stalin la famosa politica del “terzo periodo” fra il 1929 e il 1933 (la teoria del socialfascismo), ma anche uno scimiottamento delle posizioni che Bordiga aveva assunto in polemica col terzo e quarto Congresso. Non a caso, proprio Amadeo Bordiga salutò le risoluzioni del quinto Congresso del Comintern come «un funerale di terza classe» della linea dei precedenti congressi. L’offerta di Zinoviev a Bordiga di un posto nell’Esecutivo del Comintern non era solo un tentativo di giubilarlo, come sostiene il compagno Candreva, ma anche la registrazione di un nuovo orientamento politico di fase. Magari nella speranza (vana) che Bordiga in cambio potesse allinearsi fosse pure in ritardo alla crociata internazionale antitrotskista.

Resta il fatto che la politica di Gramsci quale nuovo segretario del Partito Comunista d’Italia non fu affatto nel 1924-1925 una politica zinovievista. Al contrario. Nel corso dell’intera crisi Matteotti, in quel drammatico 1924, Gramsci diresse il partito su una linea sostanzialmente leninista. Non senza errori ma con una impostazione generale chiara: sviluppò la battaglia di egemonia sul terreno dell’antifascismo; sperimentò la politica del fronte unico (seppur con dei limiti); si diede uno spazio di manovra tattica verso il blocco dei partiti aventiniani senza perdere la propria indipendenza politica (partecipazione iniziale all’Aventino, rottura con l’Aventino dopo il rifiuto dello sciopero generale, ritorno in Parlamento con l’intervento di Repossi, rivendicazione sfida di un antiparlamento per smascherare la pavidità del blocco aventiniano persino sul terreno della battaglia democratica e antifascista). La ripresa politica del PCd’I nel 1924-’25, e al suo interno il progressivo consolidamento dell’egemonia gramsciana, furono anche un risvolto di questa politica nuova. Una politica dinamica, capace di mobilitare le energie del partito, estranea alla passività puramente propagandistica e suicida del bordighismo. Da questo punto di vista, la vittoria di Gramsci al terzo Congresso del partito a Lione nel 1926 non fu solo il prodotto dei metodi amministrativi usati contro il Comitato d’Intesa, come sostiene il compagno Candreva. Fu anche il riflesso della nuova politica di Gramsci, e della esperienza che ne aveva fatto il partito. Nonostante Zinoviev e il suo quinto Congresso.


IL CONGRESSO DI LIONE COME “STALINIZZAZIONE DEL PCd’I”?

Il compagno Candreva presenta il congresso di Lione del 1926 come «il punto d’arrivo del processo che aveva portato il centro di Gramsci [e Togliatti] a rompere con il leninismo per aderire alla direzione internazionale di Stalin-Zinoviev e il punto di passaggio per la stalinizzazione del PCI». La proibizione delle frazioni è assunta come la principale chiave di lettura del congresso. Le posizioni politiche e programmatiche delle Tesi sono giudicate ambigue, «oscillando tra la concezione leninista [del fronte unico] e una concezione frontepopulista». L’Assemblea repubblicana basata sui comitati operai e contadini è indicata come esemplificazione centrale «tutta la propaganda e l’agitazione del PCd’I», a riprova dell’incipiente «degenerazione riformista».
Trovo questa rappresentazione d’insieme profondamente sbagliata.

Considero intanto unilaterale l’angolazione di lettura prevalente che viene proposta (l’abolizione delle frazioni) e la parallela svalutazione del contenuto politico-programmatico delle Tesi. Trattandosi dell’ultimo testo elaborato da Gramsci prima della sua carcerazione, credo richieda una lettura più attenta.

L’abolizione delle frazioni va contestualizzata, come su un piano diverso l’analoga misura assunta dal Partito Bolscevico al X Congresso (1921). In entrambi i casi l’esperienza storica ha dimostrato l’erroneità di questa misura. Questo fatto è fuori discussione. Ma è quello di per sé il metro di misura prevalente della natura di un partito? È vero che nel caso del PCd’I del 1926, a differenza che nel Partito Bolscevico del 1921, l’abolizione delle frazioni non era concepita come misura temporanea ma come parte di una nuova concezione, che assolutizzava il regime interno bolscevico post-1921 (e soprattutto le sue involuzioni successive) e lo estendeva all’intero Comintern. Al tempo stesso, però, credo utile ricordare che l’abolizione delle frazioni si combinava – sia con Lenin nel 1921 che con Gramsci nel 1926 – con il diritto e il riconoscimento delle tendenze; che il congresso di Lione, nonostante i limiti imposti alla minoranza, aveva visto la presentazione di due documenti congressuali in contrapposizione; che Amadeo Bordiga ebbe a disposizione sette ore per presentare la propria piattaforma alternativa; che tutto questo avveniva sullo sfondo di un regime fascista che costringeva il partito alla clandestinità (il congresso si teneva a Lione non per caso); che infine il carattere organico della frazione bordighista su posizioni antileniniste ormai cristallizzate attorno alle immutabili tesi di Roma del 1922 rendeva in ogni caso problematica la sua relazione con la maggioranza, indipendentemente dall’assetto statutario formale.

Se si guarda l’insieme di questi elementi, si può dire che il livello di democrazia interno al PCd’I di Gramsci nel 1926, nonostante tutto, era sicuramente più elevato di quello ormai imperante in quegli anni in larga parte dei partiti del Comintern, a riprova delle particolarità della sezione italiana. Ciò che indirettamente sarà confermato dalla lettera di Gramsci al Comitato Centrale bolscevico dell’ottobre 1926, di cui dirò più avanti.


L’IMPOSTAZIONE POLITICA RIVOLUZIONARIA DELLE TESI DI LIONE

Ma il punto di osservazione prevalente su Lione non può che essere politico generale.
Il primo Congresso del PCd’I a Livorno (1921) aveva avuto essenzialmente un carattere fondativo e celebrativo. Il secondo Congresso (1922) era stato interamente dominato dall’impostazione ideologica del bordighismo, nella sua differenziazione dottrinaria dal leninismo (Tesi di Roma). Il terzo Congresso a Lione recava una duplice impronta, per quanto contraddittoria: da un lato, indubbiamente, la pressione della bolscevizzazione sul terreno dei metodi amministrativi interni; ma dall’altro la registrazione della svolta di impostazione politica impressa da Gramsci a partire dal 1924, nel segno della sua adesione al leninismo. Non vedere questo secondo aspetto credo rappresenti un errore.

Un errore in particolare è vedere nelle Tesi di Lione un’anticipazione del riformismo «frontepopulista» (una oscillazione «tra la concezione leninista e una concezione frontepopulista»). No. L’intero impianto delle Tesi è esattamente agli antipodi del frontepopulismo. Tutto l’asse analitico, politico, programmatico delle Tesi è incentrato sulla rivendicazione della rivoluzione socialista quale unica soluzione politica progressiva della crisi italiana. Ogni rivendicazione immediata doveva essere ricondotta a un obiettivo rivoluzionario. Il governo operaio e contadino è indicato come rivendicazione strategica centrale, cui finalizzare la politica del partito. Ogni prospettiva frontepopulista (come sarà declinata dieci anni dopo), ogni blocco con la borghesia democratica, viene esplicitamente denunciata nelle Tesi come pericolo “di destra” da cui guardarsi:

“…Il pericolo che si crei (nel partito) una tendenza di destra è collegato con la situazione generale del paese. La compressione stessa che il fascismo esercita tende ad alimentare la opinione che essendo il proletariato nella impossibilità di rovesciare rapidamente il regime, sia miglior tattica quella che porti, se non a un blocco borghese proletario per la eliminazione costituzionale del fascismo, ad una passività dell’avanguardia rivoluzionaria, a un non intervento attivo del partito comunista nella lotta politica immediata, onde permettere alla borghesia di servirsi del proletariato come massa di manovra elettorale contro il fascismo. Questo programma si presenta con la formula che il Partito Comunista deve essere “l’ala sinistra” di una opposizione di tutte le forze che cospirano all’abbattimento del regime fascista. Esso è l’espressione di un profondo pessimismo circa le capacità rivoluzionarie della classe lavoratrice… Il pericolo di destra deve essere combattuto con la propaganda ideologica, col contrapporre al programma di destra il programma rivoluzionario della classe operaia e del suo partito, e con mezzi disciplinari ordinari ogni qualvolta la necessità lo richieda.”

È difficile immaginare una posizione più dichiaratamente anti-frontepopulista di questa, e più nettamente contrapposta a quella che sarà in ben altra stagione la concezione politica togliattiana. Non a caso questo pericolo “di destra” viene attribuito nelle Tesi al «compagno Graziadei» e ai «tentativi di revisione del marxismo». Se le tesi di Lione hanno un limite, l’hanno in direzione esattamente opposta a quella individuata dal compagno Candreva. L’hanno in una traccia ideologica residuale di schematismo “ultrasinistro” nella stessa politica del fronte unico. Laddove ad esempio si parla della socialdemocrazia non come un’ala destra del movimento operaio, ma come un’ala sinistra della borghesia. Una formulazione forse in parte dovuta ad una eredità zinovievista (quinto Congresso dell’IC). In ogni caso non sospettabile di frontepopulismo.


UNA FORZATURA INTERPRETATIVA

Il compagno Candreva indica in una centralità della battaglia contro la monarchia la chiave di lettura tendenzialmente frontepopulista delle Tesi. Ma anche in questo caso mi pare un’ardita forzatura interpretativa. È vero che in polemica con la passività propagandistica del bordighismo le Tesi evocano l’agitazione contro la monarchia. Ma l’impostazione che viene data a questa agitazione è molto significativa:

La monarchia è uno dei puntelli del regime fascista. Essa è la forma statale del fascismo italiano… La mobilitazione antimonarchica delle masse della popolazione italiana è uno degli scopi che il Partito Comunista deve proporre. Essa servirà efficacemente a smascherare alcuni gruppi sedicenti antifascisti già coalizzati nell’Aventino. Essa deve però sempre essere condotta assieme con l’agitazione e con la lotta contro gli altri pilastri fondamentali del regime fascista, che sono la plutocrazia industriale e gli agrari. Nell’agitazione antimonarchica il problema della forma dello Stato sarà inoltre presentato dal Partito Comunista in connessione continua con il problema del contenuto di classe che i comunisti intendono dare allo Stato. Nel recente passato (giugno 1925) la connessione di questi problemi venne ottenuta dal partito ponendo a base della sua azione politica le parole d’ordine: Assemblea repubblicana sulla base dei comitati operai e contadini; controllo operaio sull’industria; terra ai contadini”.

Quest’ultima formulazione era sbagliata, e Trotsky giustamente la criticherà, come ha ricordato il compagno Candreva. Ma nel corpo complessivo delle Tesi di Lione, come è del tutto evidente, non si trattava affatto della teorizzazione di una sorta di “tappa democratica”, quale sarà nella successiva traduzione che ne farà Togliatti durante la sua breve parentesi buchariniana (la dittatura democratica contrapposta alla dittatura proletaria). Voleva essere invece l’opposto: la riconduzione della agitazione antimonarchica (che il bordighismo assurdamente ignorava) alla prospettiva della rivoluzione socialista, contro ogni possibile egemonia democratico-borghese («i sedicenti antifascisti già coalizzati nell’Aventino») sulla classe lavoratrice. In altri termini, uno strumento di lotta per l’egemonia alternativa dei comunisti nella stessa battaglia democratica. Ciò è talmente vero che proprio l’ultima delle Tesi, la tesi 44, sgombera il campo da ogni eventuale lettura democratico-tappista della stessa formula del governo operaio e contadino:

…Il partito potrebbe essere portato a gravi deviazioni dal suo compito di guida della rivoluzione qualora interpretasse il governo operaio e contadino come rispondente ad una fase reale di sviluppo della lotta per il potere, cioè se considerasse che questa parola d’ordine indica la possibilità che il problema dello Stato venga risolto nell’interesse della classe operaia in una forma che non sia quella della dittatura del proletariato”.

Ciò che ricorda quasi letteralmente l’osservazione analoga di Lenin ai comunisti tedeschi del 1920.


LA LETTERA DELL’OTTOBRE 1926. LO SCONTRO DI GRAMSCI CON STALIN

Infine, sulla famosa lettera di Gramsci dell’ottobre 1926. L’interpretazione del compagno Candreva secondo cui si tratterebbe essenzialmente di una conferma da parte di Gramsci della propria adesione alla maggioranza stalinista credo distorca il significato obiettivo della lettera.

Gramsci era drammaticamente allarmato dalla prospettiva di scissione del Partito Bolscevico per mano di Stalin. Una preoccupazione non molto diversa da quella che aveva ispirato a suo tempo lo stesso testamento di Lenin contro Stalin (il pericolo della «scissione del nostro partito»). La preoccupazione di Gramsci, come dimostreranno i fatti, era più che fondata. L’iniziativa di una lettera sottoscritta (unanimemente) dall’Ufficio Politico del PCd’I italiano e rivolta al Comitato Centrale del Partito Bolscevico era già di per sé, tanto più in quel contesto, una iniziativa straordinaria. Non a caso unica nel suo genere nel movimento comunista internazionale dell’epoca. Non mirava a confermare una fedeltà di schieramento ma a scongiurare un dramma annunciato.

Il vero destinatario della lettera secondo ogni evidenza era Giuseppe Stalin. Se Gramsci chiedeva a Stalin di non stravincere è esattamente perché individuava e contestava lucidamente quella intenzione. È vero che la lettera ribadiva formalmente il sostegno alla maggioranza dirigente del partito russo, sulla scia dell’errore di posizionamento precedente, ed è vero che Gramsci la presentò a Togliatti come « requisitoria contro le opposizioni» per legittimarla. Ma se Gramsci disse questo fu per dare più forza al proprio appello all’unità del partito russo, massimizzando la pressione critica su Stalin.

La sostanza incontestabile della lettera era infatti il rifiuto dell’espulsione da parte di Stalin dell’opposizione di sinistra di Trotsky, Zinoviev, Kamenev riconosciuti non a caso da Gramsci come « nostri maestri». Un riconoscimento significativo proprio sulla bocca di Gramsci: perchè Trotsky era colui che lo aveva guadagnato al leninismo, staccandolo da Bordiga, e Zinoviev era il presidente del Comintern su cui Gramsci si era appoggiato (a torto) nella propria lotta contro il bordighismo. In ogni caso, erano loro agli occhi di Gramsci le vere autorità politiche che aveva riconosciuto nella frequentazione del Comintern. Non certo la macchia grigia di Stalin. E nulla, del resto, poteva apparire più insolente e provocatorio agli occhi di Stalin (nell’autunno del ’26!) che presentare Trotsky come proprio maestro.

Peraltro il significato politico reale della lettera è tanto più confermato dalla sua mancata consegna da parte di Togliatti, allora a Mosca, dopo un consulto riservato con Bucharin. Dopo la ricollocazione di Zinoviev e Kamenev al fianco di Trotsky nella cosiddetta “opposizione unificata” del 1926 (che avrà vita breve), Bucharin era ormai il nuovo alleato di Stalin, e lo rimarrà sino al 1928. Se Bucharin chiese o consigliò a Togliatti il cestinamento della lettera era per non avere problemi con Stalin. E Togliatti a sua volta non voleva contraddire Bucharin, con cui aveva stretto un (breve) sodalizio.

L’iniziativa del gruppo dirigente di una sezione nazionale del Comintern che all’unanimità contestava con una lettera aperta le volontà scissioniste di Stalin, appellandosi all’intero gruppo dirigente bolscevico, poteva rappresentare nel 1926 un pericoloso precedente e fattore di contagio a danno di Stalin-Bucharin. Meglio dunque silenziarla. Di certo né Togliatti né Bucharin si sognarono di interpretare la lettera come conferma della fedeltà a Stalin da parte di Gramsci e del PCd’I. Ciò che obiettivamente andava contro ogni logica. La verità è che Togliatti già si muoveva come un disonesto uomo d’apparato senza principi, quale sarebbe stato per tutto il resto della sua vita politica, iscrivendosi direttamente a partire dal 1930 al peggiore bonapartismo staliniano. Gramsci restò invece, nonostante i suoi (gravi) errori, un dirigente rivoluzionario. L’«impressione penosissima» che Gramsci dichiarò alla lettura delle righe con cui Togliatti gli aveva motivato il rifiuto di consegnare la lettera misurava una distanza politica tra i due, direi persino antropologica, che non si sarebbe mai colmata. E che la carcerazione di Gramsci semmai approfondì. Ma non è il tema di questa nota.


ANTONIO GRAMSCI, UN MARXISTA RIVOLUZIONARIO

Per concludere. La questione di Gramsci è non da oggi un tema comprensibilmente dibattuto. Nazionalmente e internazionalmente. Nella nostra esperienza politica all’interno del movimento trotskista abbiamo incrociato in più occasioni letture e inquadramenti di segno opposto. Da un lato, l’esaltazione apologetica di Gramsci da parte della corrente Frazione Trotskista (PTS argentino), che non solo rimuove i suoi errori, ma assume Gramsci – oltre ogni misura – come geniale e insuperato innovatore del bolscevismo attraverso l’elaborazione dei Quaderni dal carcere: una elaborazione sicuramente ricca di spunti interessanti ma con diversi limiti, peraltro fortemente condizionati dalle costrizioni della censura fascista. Dall’altro, un antigramscismo ideologico come ad esempio nel caso di Jorge Altamira (allora massimo jefe del Partito Obrero argentino), che in polemica strumentale col PCL giunse a caratterizzare Gramsci come antileninista in quanto sostenitore del potere dei consigli. Ciò in totale contraddizione con la stessa natura programmatica del leninismo.

Per quanto ci riguarda, continuiamo a considerare Gramsci, al di là dei suoi errori e delle sue responsabilità, come un dirigente marxista rivoluzionario. Così come lo rivendicarono sempre i tre fondatori della corrente trotskista in Italia (Leonetti, Tresso, Ravazzoli) – metà dell’Ufficio Politico del PCd’I nel 1930 – in contrapposizione a Togliatti. Tre dirigenti rivoluzionari che erano stati con ruoli diversi compagni e sodali di Gramsci nella battaglia politica contro il bordighismo a Lione, e che furono espulsi da Togliatti in quanto trotskisti all’atto della sua adesione definitiva all’apparato di Stalin (1930). Fu, quella, la decapitazione del gruppo dirigente di Lione. Una decapitazione che Gramsci condannò dal carcere, assieme all’intero corso della politica staliniana del terzo periodo, a conferma non solo del proprio leninismo ma anche di un’altra concezione del partito.

Marco Ferrando

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