di Alessandro Esotico
E’ difficile non restare colpiti da un dato che la nostra abitudine alle narrazioni di massa tende a nascondere: per secoli, per millenni, le culture umane hanno narrato guerre, sacrifici, vendette, martiri, ma non hanno prodotto la figura dell’assassino seriale. L’eroe che uccide sul campo, il tiranno sanguinario, il carnefice che agisce in nome di un dio o di un sovrano, l’uomo che si macchia di un delitto per ragioni d’onore o di potere: questi personaggi attraversano l’intera storia delle mitologie e delle letterature.
Ma l’individuo che, nel silenzio della propria solitudine, costruisce una vita fatta di omicidi ripetuti, tecnicamente pianificati, slegati da qualsiasi funzione comunitaria, questo compare solo con la modernità.
Il problema non è quando abbiamo cominciato a chiamarlo “serial killer”, ma quando una forma di soggettività di questo tipo diventa pensabile, rappresentabile e poi realmente esistente.
Per l’Iliade, per le saghe medievali, per il teatro classico, la violenza è sempre inscritta in una trama simbolica: è parte di un sacrificio, di un destino, di una guerra, di un ordine mitico o politico.
Il singolo che uccide non lo fa come individuo isolato, ma come punto di condensazione di una vicenda collettiva che lo precede e lo supera.
La modernità rompe questa struttura. Con la città industriale, con la dissoluzione dei legami comunitari, con l’emergere dell’individuo come unità sociale fondamentale, appare una figura nuova: il soggetto che è chiamato a sopravvivere da solo, a competere, a “farsi strada”, a definire il proprio valore nel vuoto lasciato dalla comunità disgregata.
È in questo spazio che la violenza può disancorarsi dai riti, dalla politica, dalla religione, e diventare un’attività privata, ripetibile, separata da ogni giustificazione condivisa. L’assassino seriale è il prodotto di questa scissione.
La letteratura lo percepisce prima della psichiatria. In De Quincey, l’omicidio già viene trattato come una sorta di “arte”, una pratica che non nasce dall’ira o dalla vendetta, ma da una strana mistura di esigenza interiore e contesto urbano. Poe, con i suoi racconti, colloca il crimine dentro una mente che appare staccata dal mondo, ripiegata su di sé, ossessiva. Stevenson, attraverso la doppia figura di Jekyll e Hyde, mette in scena la scissione interna alla soggettività borghese, divisa tra rispettabilità pubblica e pulsioni inconfessabili.
In tutti questi casi l’omicidio non è più un gesto che risponde a una logica esterna al soggetto, ma la manifestazione di una frattura che attraversa il soggetto stesso.
Se si prende sul serio il materiale accumulato dall’antropologia, questa trasformazione non è un accidente. Le società prive di Stato, le comunità in cui il legame di reciprocità prevale sull’accumulazione e sulla competizione, conoscono la violenza, talvolta in forme durissime, ma non organizzano la vita attorno all’individuo isolato.
Il soggetto, in questi contesti, non è un atomo che deve costruire da solo il proprio destino, è una funzione del legame: esiste in quanto legato a un clan, a una parentela, a un ordine simbolico che lo definisce. In un mondo di questo tipo non c’è semplicemente spazio psichico per una vita fondata sulla ripetizione privata del delitto.
Non perché quegli uomini fossero moralmente migliori, ma perché la struttura stessa della vita collettiva non produce quel tipo di interiorità.
Con il sorgere delle società di classe, con l’affermarsi dello Stato, con il dominio della forma-merce, la situazione cambia. Non si tratta soltanto di un aumento della violenza, ma di una trasformazione qualitativa di ciò che la violenza è. Là dove il rapporto sociale viene mediato dal denaro e dal mercato, là dove la sopravvivenza dipende dalla capacità di vendere la propria forza-lavoro, là dove le relazioni tra persone sono attraversate da rapporti di potere impersonali, l’altro tende a presentarsi sempre meno come “tu” e sempre più come ostacolo, strumento, funzione. Il materialismo storico, su questo punto, non parla solo di economia: parla di antropologia.
Se il rapporto tra gli uomini diventa un rapporto tra cose, è perché le cose – le merci, le posizioni, le funzioni – diventano il vero centro intorno a cui ruota la vita.
Qui entra in gioco la questione della strumentalità. Quando l’intero ordine sociale si regge su rapporti in cui l’altro è innanzitutto un mezzo – un cliente, un concorrente, un utente, un lavoratore da impiegare e sostituire –, si produce un certo modo di percepire il mondo. La razionalità dominante è razionalità di scopo: si calcolano mezzi per fini, si ottimizzano risorse, si riducono gli individui a vettori di prestazione.
Questa logica attraversa l’impresa, la burocrazia, la famiglia, la scuola. A un certo punto smette di essere solo una forma di organizzazione dei processi e diventa forma di organizzazione dell’esperienza.
L’assassino seriale porta questa logica alle estreme conseguenze. Non è semplicemente un individuo “malato” che uccide molte volte. È un soggetto in cui il modo di vedere il mondo imposto dalla razionalità strumentale ha divorato ogni altro contenuto. Non incontra persone: incontra corpi da usare, trasformare, gettare. Non vive conflitti: gestisce materiali.
La sua violenza non esplode una volta, non rimane legata a una storia, a una relazione, a un evento. Diventa una serie, una procedura, un lavoro. Pianifica, ripete, perfeziona. La forma stessa del delitto ricalca la forma del processo produttivo: divisione delle fasi, controllo, riproducibilità.
Non è un caso che i suoi itinerari siano spesso legati agli spazi tipici del capitalismo avanzato: le metropoli, le periferie, le strade di scorrimento, i motel anonimi, i capannoni industriali dismessi, i non-luoghi dove ci si può muovere senza lasciare traccia, dove ogni volto si confonde con un altro. La geografia della sua azione è la geografia della nostra epoca: centri commerciali, parcheggi sotterranei, corridoi di ospedali, spazi digitali.
Il mondo è stato reso funzionale, attraversabile, utile; ed è proprio questa neutralità funzionale a trasformarsi nel terreno ideale per una violenza che vuole passare inosservata, che si nasconde dentro la normalità.
Il cinema ha mostrato con particolare lucidità questo legame. Nei grandi film sul serial killer, la città non è uno sfondo, è un personaggio. L’intrico di strade, le luci al neon, i condomini anonimi, gli uffici, le stazioni, tutto contribuisce a costruire un ambiente in cui la solitudine non è l’eccezione, ma la regola quotidiana. Le inquadrature insistono sui corridoi, sugli spazi di transito, sui luoghi dove si passa senza guardare.
È in quei varchi che la figura dell’assassino può muoversi come una funzione dell’ambiente stesso. Il suo agire non è una rottura della normalità: è il suo prolungamento all’estremo.
Allo stesso tempo, molte narrazioni cinematografiche mostrano come la famiglia – cellula idolatrata del mondo borghese – partecipi alla generazione di questa devianza, perché spesso si trova a svolgere il compito di ammortizzare le contraddizioni di un sistema che schiaccia, isola, frustra.
Dietro le figure di molti di questi assassini ci sono case in cui l’autorità si rovescia in violenza, dove l’affetto è condizionato, dove la sessualità viene repressa o patologizzata, dove il bambino non è un soggetto ma un oggetto del possesso altrui. La famiglia diventa il primo luogo in cui l’altro è vissuto come prolungamento, come proprietà, come cosa. La ferita che ne deriva non scompare con la crescita: si inscrive nella struttura dell’io.
Su questo sfondo, l’esplosione dell’uso di psicofarmaci appare come un sintomo eloquente. Il ricorso massiccio ad ansiolitici, antidepressivi, stabilizzatori dell’umore dice che la sofferenza psichica non è un fatto marginale, ma una dimensione diffusa della vita contemporanea. I disturbi vengono trattati come problemi da gestire, da normalizzare, da riportare entro la soglia di funzionalità richiesta dal sistema.
Si interviene chimicamente per permettere all’individuo di continuare a funzionare nei contesti che lo hanno ferito. Non è questa la causa diretta del serial killer, ma è il contesto in cui la sua figura risulta comprensibile: una società che tende a medicalizzare il disagio, invece di interrogarlo, è la stessa che non vuole riconoscere nella sua violenza una propria immagine deformata.
L’assassino seriale non è l’unico prodotto patologico di questa forma sociale, ma è uno dei più estremi. Nella sua esistenza si intrecciano tutti i nodi: la reificazione dell’altro, la solitudine strutturale, la riduzione della vita a prestazione e a funzione, l’anestesia chimica del dolore, la neutralità organizzata degli spazi, la perdita di un orizzonte di senso collettivo. È una figura in cui il rapporto tra uomini ridotto a rapporto tra cose non è più un concetto teorico, ma un’esperienza carnale: i corpi stessi vengono trattati come oggetti da spostare, conservare, smembrare.
A questo punto, ciò che inquieta davvero non è tanto l’esistenza di individui così deviati, quanto il fatto che la loro logica non provenga da un altrove arcaico, da una barbarie pre-sociale, ma dalla stessa razionalità che governa la produzione, l’amministrazione, la vita quotidiana.
La differenza non sta nel principio, ma nel grado. Dove il potere economico e istituzionale opera la riduzione dei viventi a numeri, codici, target, capitale umano, l’assassino seriale opera una riduzione analoga sul piano immediato della carne. Dove il mercato tratta gli individui come elementi intercambiabili, egli tratta le vite singole come occasioni per mettere in atto la propria serie. È la stessa logica, spogliata di ogni velo.
Da qui deriva anche la sensazione di nichilismo che accompagna questa figura nelle narrazioni contemporanee. Non c’è più un ordine simbolico in nome del quale l’omicidio possa anche solo essere giustificato o maledetto: c’è soltanto la ripetizione di un gesto che non rimanda a nulla, un buco nel senso.
La società che ha organizzato tutto secondo la misura dell’utilità si trova alla fine di fronte a una violenza che riproduce la propria struttura. È come se la strumentalità, inverando ogni forma di giustificazione economica o politica, continuasse a operare per inerzia, trasformando l’altro in cosa per il puro vuoto di farlo.
In questa prospettiva, la figura del serial killer appare come uno dei segni più cupi della rovina in corso. Testimone del progressivo svuotamento di ogni contenuto umano nei rapporti sociali.
Là dove il legame è stato sostituito dalla funzione, là dove la solidarietà è stata dissolta nella competizione, là dove il dolore viene sedato invece che ascoltato, là anche la violenza non ha più bisogno di un motivo: le basta ripetersi. L’abisso verso cui ci muoviamo non è un cataclisma improvviso, ma una serie che si prolunga: una sequenza di vite consumate, di relazioni spezzate, di gesti vuoti.
Il serial killer è una delle immagini in cui questa serie diventa visibile. Nel suo cammino metodico attraverso le rovine di questa civiltà, egli porta incisa addosso la firma del tempo che lo ha generato: un’epoca in cui tutto viene prodotto in serie, persino il nulla.
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