di Massimo Caterini
La trasformazione in corso in Germania, con la progressiva istituzionalizzazione di un’economia di guerra, appare a prima vista come una risposta contingente alle tensioni internazionali, tuttavia osservata con uno sguardo marxista essa rivela un significato molto più profondo, cioè il segnale che il capitalismo europeo sta entrando in una fase in cui le sue contraddizioni interne non possono più essere gestite attraverso i meccanismi ordinari dell’accumulazione. L’apparato industriale tedesco, costruito sulla centralità dell’export, sull’energia a basso costo e sul controllo delle catene globali del valore, mostra da anni sintomi di esaurimento, stagnazione dei profitti, rallentamento della produttività, indebolimento della domanda internazionale, difficoltà nel competere con le economie emergenti e con gli Stati Uniti nei settori strategici.
In una simile fase la logica del capitale conduce quasi automaticamente verso soluzioni che si collocano fuori dal mercato in senso stretto. La caduta tendenziale del saggio medio di profitto, descritta da Marx come legge fondamentale del modo di produzione capitalistico, non produce solo rallentamenti economici, ma spinge interi Stati a intervenire politicamente per creare nuove condizioni di valorizzazione. Quando la produzione non garantisce più i livelli di profitto desiderati, diventa necessario, dal punto di vista del capitale, ristrutturare la società stessa, non solo attraverso la flessibilizzazione del lavoro o il taglio del welfare, ma attraverso un riordino complessivo che includa il riarmo, la mobilitazione, la pianificazione economica e l’assorbimento di capitale in settori che sfuggono parzialmente alla concorrenza come la difesa.
In questo senso l’economia di guerra non è un’anomalia ma un’estensione logica delle tendenze del capitalismo contemporaneo. La militarizzazione produce un duplice effetto, da una parte crea domanda statale stabile per industrie ad alta intensità di capitale, permettendo una momentanea compensazione della caduta del saggio di profitto, dall’altra disciplina la società, riduce la capacità di conflitto della classe lavoratrice e polarizza le energie sociali attorno al fine supremo della sicurezza nazionale. La guerra, o la sua preparazione, diventa così una modalità di gestione della crisi, un mezzo per ristrutturare l’economia e ricompattare l’ordine sociale quando esso tende a sgretolarsi.
La Germania non fa eccezione, ciò che accade oggi nel suo apparato produttivo e logistico ricorda, pur in forme nuove, processi già osservati nelle fasi di crisi del capitalismo novecentesco. Il coinvolgimento diretto delle imprese, la mappatura totale delle risorse nazionali, i contratti vincolanti con l’industria, la riorganizzazione del lavoro in funzione delle necessità militari, la ricostruzione della leva obbligatoria, esprimono l’esigenza del capitale di porre sotto controllo politico centralizzato processi economici che il mercato, da solo, non riesce più a governare.
Come comunisti la questione cruciale non è semplicemente comprendere perché gli Stati si preparino alla guerra, ma cogliere come questa preparazione incida sui rapporti di classe. La militarizzazione non è mai un fenomeno neutrale, tende a comprimere gli spazi del dissenso, a subordinare la forza lavoro agli imperativi dello Stato, a trasformare il lavoratore in un elemento della macchina bellica e della logistica nazionale. La guerra esterna richiede la subordinazione interna, e proprio per questo la logica della mobilitazione implica sempre la riduzione della capacità autonoma della classe lavoratrice di organizzarsi e di opporsi.
È in questo quadro che acquista significato la formazione di comitati contro la guerra, non intesi come espressione morale di pacifismo, ma come momenti di ricostruzione di una soggettività di classe. Nelle fasi in cui il capitale tende a totalizzarsi nel rapporto con lo Stato, la classe lavoratrice può ritrovare la propria autonomia soltanto attraverso forme di organizzazione capaci di sviluppare una lettura comune della crisi, di contrastare l’ideologia nazionalista e di riconnettere la guerra alla sua origine economica. I comitati assumono così un valore teorico e politico, non rappresentano un’alternativa immediata all’apparato statale, ma sono luoghi in cui la classe può ricomporre la propria coscienza, comprendere che la guerra non è un destino inevitabile, bensì l’esito delle contraddizioni di un sistema economico fondato sull’accumulazione e sulla competizione imperialista.
Essi possono diventare uno spazio in cui si rielabora collettivamente il concetto di guerra di classe come risposta alla guerra del capitale. La storia del movimento operaio mostra che il partito di classe, nella sua forma più alta, non nasce dal nulla né da una proclamazione astratta, ma da un processo di sedimentazione in cui l’esperienza concreta della lotta e l’analisi teorica si intrecciano, dando origine a un’organizzazione capace di leggere e dirigere la situazione storica. In questo senso i comitati contro la guerra possono essere considerati un momento di questo processo, organismi intermedi in cui la classe lavoratrice torna a riconoscersi, a discutere, a confrontare le proprie condizioni e a formulare una prospettiva autonoma.
La ricostruzione di un partito di classe internazionale è un compito immediato, rappresenta la necessità che emerge quando il capitale, nella sua crisi, trascina l’umanità verso la distruzione. La guerra non è un fenomeno separato dall’economia, ma una sua forma estrema, e per contrastarla non basta l’opposizione morale, occorre una forza politica capace di inserirsi nei meccanismi oggettivi della crisi e di proporre una via d’uscita fondata sulla solidarietà internazionale e sulla liberazione dal dominio del capitale. In questo quadro i comitati contro la guerra non sono semplicemente strumenti di resistenza, ma luoghi in cui viene preparata, in forma ancora embrionale ma reale, la possibilità di un nuovo soggetto politico capace di affrontare le contraddizioni del nostro tempo, impedendo che la società venga completamente assorbita dalla logica della mobilitazione nazionale e aprendo la strada a un’alternativa che non si limiti a contestare la guerra, ma metta in questione le condizioni materiali che la rendono possibile.
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