Le piazze d’Italia (ma non solo) piene di bandiere palestinesi, centinaia di migliaia di persone, in gran parte giovani e giovanissimi in cortei, presidi, tende, in un movimento di massa che mi ricorda quello contro la guerra del Vietnam quando avevo la loro età. Gli slogan di “Palestina libera”, spesso in inglese, “dal fiume al mare”, ripetuti fino allo sfinimento (anche se il sottoscritto, con pochi altri, ci aggiunge sempre un “rossa” che lascia stupita la maggior parte di quelli che ci ascoltano). E oltre 14 milioni di persone (l’82%) che, in un sondaggio calcistico on line, chiedono che lo stato d’Israele venga escluso dalle competizioni sportive, come accadde a suo tempo per il Sudafrica razzista dell’apartheid. Il genocidio in atto a Gaza e dintorni ha finalmente scosso milioni di coscienze. Con “la Palestina nel cuore”, si potrebbe dire, parafrasando quello dei tempi della guerra di Spagna. Ma cosa vuol dire “Palestina libera”? Per molti, d’accordo con l’ONU e TUTTE le principali potenze, credo voglia dire “indipendenza” e “sovranità” per la Cisgiordania e la striscia di Gaza, cioè il 22% della Palestina storica. Quindi fuori le truppe e i coloni sionisti da questa parte della Palestina. Sotto quale “governo”? L’ANP? Hamas? Entrambi (che, non dimentichiamolo, si sono ammazzati a vicenda 18 anni fa)? Per altri la “Palestina libera” dev’essere l’intera Palestina ex britannica (mandataria), appunto “dal fiume – cioè il Giordano – al mare”. Una Palestina “araba”? Una Palestina “islamica”? Con o senza gli ebrei che ci vivono da due, tre, quattro, cinque generazioni? O una Palestina “condivisa” in due entità “etniche” (arabi ed ebrei) federate? O ancora una Palestina laica, non etnica, basata sull’uguaglianza dei suoi cittadini (arabi, ebrei, drusi, circassi, armeni, ecc.) e magari (udite udite!) socialista, nel quadro di un Medio Oriente che spazzi via sia la borghesia sionista che quelle arabe (islamiche, maronite o pseudo-laiche)? Grande è la confusione sotto il cielo, ma la situazione non è per nulla eccellente. E allora diamo un’occhiata alla geografia storica di questa parte del mondo, per avere qualche elemento di riflessione in più, e magari per andare oltre i pur necessari (per smuovere milioni di persone) slogan semplificatori.
Il termine “Palestina”, fino al 1920, era, per dirla alla Metternich, un pura espressione geografica da almeno un millennio, da quando era stata invasa dagli arabi provenienti dalla grande penisola a sud. L’impero ottomano, che controllava l’area che oggi chiamiamo così, la inglobava nei due vilayet di Siria e El Quds (e in piccola parte nel vilayet di Beirut), con circa 300 mila abitanti*. Lo stesso Reclus, geografo anarchico francese, ci dice che nel 1881 Gerusalemme (El Quds) aveva 30 mila abitanti, di cui la metà ebrei (arabofoni, sefarditi e pochi ashkenazi di lingua yiddish), 8 mila cristiani (in gran maggioranza arabofoni, ma anche armeni e greci) e 7 mila musulmani (arabofoni, turchi e circassi). Nell’impero ottomano la confessione religiosa, molto più che la lingua, era l’elemento distintivo dei sudditi di Costantinopoli. Garollo, nel suo Dizionario Geografico Universale del 1896, ci dice che nel Mutessariflik di Gerusalemme (che comprendeva all’epoca l’80% dell’attuale territorio “palestinese”, e cioè 21.300 kmq) vivevano 333 mila abitanti, dei quali 43.780 ebrei (di cui 2.000 “coloni” europei, presumibilmente di lingua yiddish, i primi “sionisti” ante litteram, mentre gli altri erano autoctoni, di lingua araba o “giudeo-spagnola”). L’Enciclopedia Britannica del 1911 definisce la Palestina come “la terza parte, meridionale, della Siria”, ma di cui “è difficile tracciare i confini”, e parla di 650 mila abitanti (“per 2/3 musulmani e per 1/3 cristiani ed ebrei”). Ci dice pure che nel 1900 a Gerusalemme si parlavano almeno 30 lingue (arabo, sefardita, yiddish, armeno, turco, curdo, circasso, greco, persiano, ecc.). Ricordiamo che alla fine del XIX secolo era nato il movimento sionista, ispirato al nazionalismo europeo, che, di fronte all’antisemitismo sempre più aggressivo nell’Europa orientale, propone “l’autodeterminazione del popolo ebraico” e la costruzione di uno stato ebraico. Diviso quasi subito in tre correnti (di destra, liberale e “socialista”) non ha molto successo, nei primi tempi, tra gli ebrei europei (e nessuno tra quelli nordafricani e del Medio Oriente) che sono prevalentemente religiosi o “marxisti” e quindi antisionisti (vedi il Bund)**.
Poi scoppia la Grande Guerra, con l’Intesa da un lato e gli Imperi Centrali (tra cui gli Ottomani) dall’altro. Nel 1916 britannici e francesi (accordo Sykes-Picot) decidono di spartirsi la maggior parte di quella che era chiamata la “Turchia asiatica”, rimangiandosi (in segreto, ovvio) la promessa fatta ai notabili arabi di dar vita, in cambio del loro appoggio alla guerra contro i turchi ottomani, ad uno stato arabo unico ed indipendente. L’anno dopo Lord Balfour promette al barone Rotschild (sionista) di favorire la creazione di un “focolare ebraico” in Palestina (“senza discriminazioni e senza danneggiare la maggioranza non ebrea della popolazione“). Nel 1918, sconfitti gli Ottomani, i britannici si impadroniscono di tutta l’area sud-orientale della “Turchia asiatica” dal Mediterraneo alla Mesopotamia (dove nasceranno l’Iraq, la Transgiordania, la Palestina e i vari stati della penisola arabica, già di fatto semi-indipendenti). Nel 1920, quindi, il termine “Palestina” torna ad avere un significato politico-amministrativo: è un’area, tra il Giordano, il Mediterraneo e il Golfo di Aqaba, di circa 27 mila kmq. Qui la Società delle Nazioni dà il “mandato” ai britannici di portare gli “indigeni” verso l’autonomia e poi l’indipendenza. Nel 1922, data della formalizzazione del mandato britannico, su quell’area poco più grande della Sicilia, vivono circa 800 mila persone, per il 78% musulmani (arabi, circassi, ecc.) 11% ebrei (oltre agli ebrei autoctoni di lingua araba o giudeo-spagnola, molte migliaia di immigrati europei di lingua yiddish, quasi tutti sionisti), 10% cristiani (arabi, armeni, greci, ecc.), 1% di altre religioni. Nel 1939, alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale, su 1,5 milioni di abitanti, i musulmani erano il 62%, gli ebrei (ormai in gran parte immigrati dall’Europa e organizzati nei diversi gruppi e partiti sionisti, cresciuti esponenzialmente dopo l’ascesa al potere dei nazisti), il 28%, i cristiani (sia arabi che armeni, greci, ecc.) l’8%, gli altri (in prevalenza drusi) il 2%. Nel 1947 l’ONU, su proposta di URSS e USA, di fronte ai continui scontri tra arabi ed ebrei, intensificatisi dopo il 1933, propone la creazione due stati palestinesi: uno ebraico e uno arabo. Al primo sarebbe toccato il 56% del territorio, con 905 mila abitanti (55% ebrei e 45% non ebrei, in grande maggioranza arabi), al secondo il 44%, con 735 mila abitanti (99% arabi musulmani e cristiani, l’1% ebrei). Inoltre sarebbe stata creata una zona internazionale per Gerusalemme e Betlemme, con 205 mila abitanti (49% ebrei, 51% arabi, armeni, ecc.). In definitiva i circa 608 mila ebrei, ormai in gran parte aderenti ai vari partiti sionisti e che avevano “resuscitato” la lingua ebraica, avrebbero avuto più territorio del milione e 237 mila arabi, drusi, armeni, ecc. Il piano fu accettato dai partiti sionisti “di sinistra”, ma respinto dalla minoritaria destra sionista guidata da Menachem Begin, oltre che da tutti i paesi arabi. Scoppia quindi una guerra civile in Palestina, tra nazionalisti ebrei (sionisti, organizzati nell’Haganah, armata dalla Cecoslovacchia, Irgun, Lehi, ecc.) ed arabi (organizzati nell’Esercito Arabo di Liberazione e nell’Esercito del Sacro Jihad), che causerà circa 2000 morti tra i sionisti e un migliaio tra gli arabi (oltre a 125 soldati britannici). Il 15 maggio 1948, col ritiro delle ultime truppe britanniche, i sionisti proclamano lo stato d’Israele, e le truppe di Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq (con volontari sauditi, yemeniti e libici) attaccano le forze armate sioniste. Quando i combattimenti cessano, nel luglio 1949, la Palestina è ormai divisa tra tre stati: 1) Israele (77%) con 1,150 mila abitanti di cui l’85% ebrei, per circa due terzi immigrati dall’Europa dopo il 1933; il 10% musulmani, quasi tutti arabi; il 4% cristiani (arabi, armeni, ecc.), poco più dell’1% drusi. 2) Giordania (21%), che ha annesso l’attuale Cisgiordania (con Gerusalemme est), con 500 mila abitanti, 92% musulmani arabi, 6% cristiani arabi, 2% musulmani circassi. 3) Egitto (1,4%) che ha annesso la Striscia di Gaza, con 300 mila abitanti, quasi tutti arabi musulmani.
Nel 1967, con la cosiddetta “guerra dei Sei Giorni” contro Egitto, Siria e Giordania, lo stato d’Israele occupa la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, il Golan e il Sinai (quest’ultimo restituito all’Egitto qualche anno più tardi). L’intera Palestina cade quindi sotto il controllo d’Israele (che però rifiuta l’annessione formale dei territori occupati (esclusa Gerusalemme Est e il Golan), pur continuando con gli insediamenti di coloni in Cisgiordania. Nel 2023 quindi, la Palestina aveva circa 15 milioni di abitanti, di cui 7,2 milioni ebrei, 6,8 milioni musulmani (quasi tutti arabi), 300 mila cristiani (arabi, armeni, greci, ecc.), 250 mila drusi, mezzo milione di “altri”. Oggi, dopo la devastante guerra degli ultimi due anni, è difficile sapere la composizione “etnica” degli abitanti. In ogni caso la “multiculturalità” linguistica, religiosa, ecc. appare ormai evidente per chiunque non si chiuda nel recinto del suprematismo ebraico (destra sionista), ormai apertamente genocida o, all’opposto, del fondamentalismo religioso islamista.
*1870-80, Eliseo Reclus, Geografia Universale
** Anche se non mancarono piccoli gruppi che si definivano “marxisti e sionisti”
Flavio Guidi
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