di Alessandro Esotico

Vedete questa immagine sbiadita dal tempo, in bianco e nero? Cattura un momento surreale: soldati di schieramenti opposti, avvolti nelle divise pesanti che li distinguono come nemici irriducibili, sono radunati al centro di un campo innevato. Non imbracciano fucili, ma sono uniti attorno a un pallone da calcio, alcuni con un sorriso cauto, altri con uno sguardo di stupore. È la celebre tregua di Natale del 1914, un’eccezione alla brutalità della Prima Guerra Mondiale, in cui il frastuono delle armi tacque e il freddo disumano delle trincee fu spezzato da un fugace senso di umanità condivisa.

Questo evento racchiude in sé una profonda lezione sulla natura della guerra e le sue metamorfosi. Le trincee, emblema di un conflitto mondiale, non erano solo un mattatoio, ma anche un luogo di convivenza forzata. Qui, migliaia di giovani contadini e operai, prelevati con forza dalle loro vite, si ritrovavano faccia a faccia con l’“altro”, dipinto dalla propaganda come un mostro. Questa prossimità generava una contraddizione stridente: l’orrore di uccidere un uomo che condivideva la stessa fame e la stessa paura fu un trauma che plasmò intere generazioni. Furono proprio i reduci dal fronte a raccontare questa disillusione in un’abbondante letteratura, come in “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Erich Maria Remarque, testimonianza straziante di una coscienza di classe embrionale che riconosceva, nei soldati, solo “carne da cannone” al servizio della borghesia.

Oggi, il panorama bellico è radicalmente mutato. Le trincee sono state sostituite da una militarizzazione diffusa e frammentata che riflette l’evoluzione del capitalismo. L’impiego di eserciti di leva di massa è stato rimpiazzato da un modello “just in time” della violenza, dove operano compagnie militari private (PMC) che agiscono con logiche di efficienza e profitto. L’atto bellico non è più una mobilitazione popolare, ma un servizio esternalizzato, una merce come un’altra. Esempi lampanti sono il Gruppo Wagner, milizia russa che opera per interessi strategici di Mosca, o Academi (ex Blackwater), un tempo principale contractor per gli Stati Uniti in Iraq.

Questi attori non sono solo burattini di regimi, ma parte integrante di un sistema di capitalismo finanziario internazionale, legati a doppio filo a flussi di capitale, interessi geopolitici e mercati di armi.

Nei Grundrisse, Marx postula che in una fase avanzata del capitalismo, la conoscenza collettiva diventa la principale forza produttiva, oggettivandosi nelle macchine.

Il lavoratore diventa una semplice appendice di questo sistema, subordinato al “lavoro morto” della macchina in un processo di sussunzione reale del lavoro al capitale.

Oggi questa logica si estende al campo militare.

Il soldato non è più al centro dell’azione, ma un terminale di un sistema tecnologico immensamente più vasto.

La sua funzione non è più ingaggiare fisicamente il nemico, ma operare in un apparato tecnologico avanzato, applicato alla guerra.

Si pensi ai piloti di droni che operano da basi in Nevada per colpire bersagli in Medio Oriente, o agli analisti che gestiscono gli algoritmi di guerra informatica. Il loro ruolo è di sussunzione: sono subordinati a un apparato tecnico che detta le regole e le modalità dell’azione.

Questo passaggio ha conseguenze profonde sul piano soggettivo. L’esperienza del combattimento si dematerializza, e la relazione con l’avversario viene completamente alterata. Il nemico cessa di essere un altro essere umano, un volto, una storia, e si riduce a un dato su uno schermo, un segnale termico o una variabile in un’equazione. In questa cornice, la violenza diventa un’attività professionale: la mediazione tecnologica rende l’atto di uccidere una mansione specialistica, distaccandolo dall’orrore intrinseco per trasformarlo in un compito gestito da esperti che non conoscono le conseguenze dirette del proprio lavoro.

Questo fenomeno di disumanizzazione è evidente nei conflitti contemporanei. L’uso diffuso di droni, in Ucraina o nel genocidio palestinese, ha trasformato il campo di battaglia in una scacchiera gestita da remoto, dove i movimenti sono guidati dall’analisi dei dati e la guerra si riduce a una questione di vantaggio tecnologico.

La progressiva riduzione della leva obbligatoria, unita all’impiego massiccio di queste tecnologie, ha contribuito a un esito politico inedito: la scomparsa del legame diretto, seppur traumatico, tra la società civile e la violenza del conflitto. La guerra diventa un “prodotto” di nicchia che la maggioranza della popolazione può consumare mediaticamente senza esserne direttamente coinvolta.

Siamo giunti, così, alla spettacolarizzazione della violenza. La tecnologia, mediando l’atto dell’uccidere, lo trasfigura in un’immagine da consumare. La morte inflitta da un drone non è più un evento crudo e viscerale, ma un’inquadratura su uno schermo, un’azione da videogioco. Viene venduta come un qualsiasi altro servizio. In questo scenario, sterminare i civili non è più un effetto collaterale dei conflitti, ma un metodo scientemente strutturato.

I bolscevichi, in un tempo ormai lontano, seppero portare dalla loro parte i soldati. Oggi, però, ci troviamo dinanzi a un inedito storico che impone una domanda radicale: se la guerra non genera più la sua negazione, se la trincea non è più il luogo dove la coscienza di classe può fiorire nella fraternizzazione tra ragazzi portati al macello, quale via dovranno imboccare i comunisti quando si presenterà l’occasione per rovesciare la guerra della borghesia in guerra civile?


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