di Mario Gangarossa
Il 23 agosto 1939 veniva siglato il Patto di non aggressione fra la Germania nazista e la Russia stalinista.
Ripubblico un recente articolo con l’invito a leggerlo non con gli occhi rivolti al passato ma con lo sguardo al presente. Alle guerre di oggi e a quelle che si preparano in un domani ormai alle porte.
…
Pillole di storia … divisiva.
Con l’approssimarsi del 25 aprile ritorna la retorica narrazione sulla Seconda guerra mondiale. Epopea della democrazia e del socialismo unite contro la tirannide fascista. Guerra di “popoli liberi” contro “popoli oppressori”. Guerra di “valori” e di ideali e di campi contrapposti. Guerra di civiltà. Scontro epocale fra i “giusti” e i “cattivi”.
Per un lungo intervallo la storia si fermò.
Ritornò sui suoi passi.
Le classi sparirono come per incanto.
Gli interessi materiali concreti che spingevano verso la guerra evaporarono. L’acciaio e il carbone, il grano e il petrolio.
Le zone di influenza. Gli imperialismi contrapposti.
Evaporò nella coscienza di milioni di proletari la consapevolezza raggiunta, che la guerra è una “inutile strage”, che accomuna nello stesso destino di morte i combattenti dell’una e dell’altra parte.
Quella consapevolezza che aveva prodotto la rivoluzione d’Ottobre e una situazione insurrezionale che i paesi europei non conosceranno mai più.
Si ritornò ai miti sui quali le borghesie avevano costruito la propria egemonia.
Le nazioni, i popoli, l’alleanza dei dominati coi loro dominatori.
L’unità nazionale a cui sacrificare il presente e il futuro.
Il fascismo aveva vinto. Anche se i fascisti alla fine saranno sconfitti.
Il fascismo era stata la risposta della borghesia dominante alla rivoluzione bolscevica.
E aveva vinto proprio perché aveva cambiato le “regole del gioco”.
Aveva vinto nel momento in cui era riuscito a sostituire alla lotta di classe la lotta patriottica e nazionale contro il nemico esterno.
Nel momento in cui era riuscito a sostituire la guerra al capitale con la lotta antifascista.
La guerra era guerra di rapina fra imperialismi come nella Prima guerra mondiale.
Ma nella (falsa) coscienza di chi la combatté e ne fu vittima, fu una “guerra di religione”.
Non troveremo nella Prima guerra mondiale forme di lotta partigiana né nella Seconda fenomeni di rifiuto in massa del conflitto, piccole o grandi Caporetto.
Né casi significativi di fraternizzazione fra le truppe belligeranti.
Il collante ideologico riuscì a fare il miracolo.
Non si combatteva costretti dalle mitragliatrici del fuoco amico che ti mordevano il culo ma convinti di condurre una guerra “giusta”.
Almeno dalla parte del fronte delle “nazioni libere”.
Dall’altra parte fu proprio la debolezza del collante ideologico che portò alla sconfitta.
Guerra tra Stati coi proletari relegati al ruolo di partigiani, convinti di fare la storia mentre la storia continuavano a farla le borghesie dominanti, le borse, le diplomazie segrete.
Non mi interessa aprire una discussione sulla natura dello “Stato socialista” diretto da Stalin.
Una discussione che altri hanno fatto, Trotsky, Bordiga, perfino dall’interno del “campo socialista” da Mao, che negli anni ’60 (con notevole ritardo e senza comprenderne le cause strutturali) usò la definizione di “socialimperialismo” per descriverne il carattere.
Quello che mi interessa sottolineare che, in quella guerra, la Repubblica degli operai e dei contadini non assunse una posizione internazionalista, né adottò una tattica conseguente.
L’obiettivo della rivoluzione mondiale, l’obiettivo del comunismo, giaceva nel mausoleo della Piazza Rossa assieme al suo più testardo sostenitore, sostituito dalla difesa della Patria.
Atroce beffa per chi lo Stato ci aveva insegnato a distruggerlo sostituendolo con la dittatura operaia.
Per chi si arrendeva al nemico e firmava una pace “ingiusta” per salvare la rivoluzione e le sue prospettive.
La strategia dei comunisti, che avevano trasformato la guerra in rivoluzione, sostituita da una politica nazionalista mirante a garantire la sopravvivenza e gli interessi della classe dominante quello che una volta era il paese dei soviet.
L’identificazione del popolo russo con il proletariato internazionale finì per fare scomparire gli interessi complessivi dei proletari di tutti i paesi e portò all’aberrante teoria che gli interessi della rivoluzione mondiale erano gli interessi del primo paese in cui si era costruito il “socialismo”.
Del resto del movimento comunista internazionale non c’era più la benché minima traccia.
Nella ponderosa opera documentale sulla Terza Internazionale di Aldo Agosti che raccoglie centinaia di documenti (4747 pagine) le pagine che raccolgono gli atti che vanno dal 1939 al 1943 (anno del suo scioglimento) sono appena 61.
Scarni comunicati burocratici in occasione di eventi rituali che evidenziano soltanto l’inesistenza di qualsiasi dibattito sulla guerra in corso.
E chi doveva dibattere?
I morti tacciati di tradimento e di intelligenza col nemico.
L’intero gruppo che aveva diretto la rivoluzione e l’Internazionale eliminato con metodo nelle continue “purghe” che ne avevano segnato il destino.
I comunisti chiusi nei gulag dove scontavano il sospetto di dubbia fedeltà alle direttive del capo.
Anche qui la discussione successiva è stata una discussione “giustificatoria” in cui si provava a dimostrare che la politica di Stalin era stata “necessaria e utile”.
Ma le giustificazioni che nel corso degli anni si sono succedute partono tutte da un punto di vista inaccettabile.
Il punto di vista della ragione di Stato, il punto di vista del nazionalismo.
Discussione oziosa, chiusa dall’ulteriore sviluppo degli avvenimenti. Per quanti argomenti “dialettici” potrete trovare rimangono i risultati visibili anche attraverso le lenti appannate che portate.
La condotta di quella guerra non è stata utile al proletariato che ha perso tutto, pure le speranze nella possibilità di una sua futura riscossa.
Non è stata utile nemmeno allo Stato russo e al popolo di quel paese finito nelle mani di oligarchi, cresciuti all’ombra del capitalismo di Stato che quello stesso Stato hanno cannibalizzato.
Oggi l’alleanza del socialismo (quello reale) con la democrazia, nella lotta contro il nazifascismo, è narrata come l’elemento caratterizzante e fondante della guerra.
Un elemento così radicato nel comune senso delle persone che i fomentatori della guerra attuale non trovano di meglio, per giustificarla, che caratterizzare la propria come guerra “antifascista” e il proprio nemico come il novello Hitler.
Accuse che si rivolgono a vicenda in un crescendo surreale in cui l’unica cosa certa è che ognuno è il “fascista” dell’altro.
In realtà non fu sempre così. Lo Stato russo ci mise un bel po’ di tempo prima di decidere quale collocazione nella guerra fosse più vantaggiosa. Se l’imperialismo amico doveva essere l’Inghilterra o la Germania.
In una logica nazionalista il nemico (l’imperialismo emergente) del mio nemico (l’imperialismo principale) è mio amico.
E con la Germania nazista, imperialismo emergente, era naturale che si arrivasse a una convergenza e a una alleanza sulla base della comune lotta “contro l’imperialismo dominante”, ai tempi identificato con l’imperialismo inglese.
La storia è fatta di date e di fatti. La si può riscrivere come si vuole ma le date e i fatti rimangono pesanti come macigni per quanto li si possa esorcizzare.
La guerra iniziò con l’attacco della Germania alla Polonia il 1° settembre 1939.
Il 9 aprile 1940 la Germania lanciò l’invasione della Danimarca e della Norvegia.
Il 10 maggio 1940 la Wehrmacht sferrò la lungamente pianificata offensiva sul fronte occidentale attaccando simultaneamente Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo.
Il 22 giugno 1940 la Francia firma la resa.
Il 22 giugno 1941 Hitler invadeva l’URSS rompendo il patto di amicizia e di non aggressione in vigore fino a quel momento.
22 mesi di guerra erano già trascorsi.
22 mesi in cui della “lotta antifascista” dei popoli europei guidati dalla “lungimirante” figura baffuta “terrore dei fascisti e dei falsi comunisti”, non troverete nessuna traccia.
Semmai troverete il contrario.
E le uniche foto che ci raccontano della fraternizzazione dei soldati al fronte furono quelle che immortalarono i soldati della Wehrmacht e quelli dell’Armata Rossa quando si incontrarono nella Polonia invasa, da tutte e due le parti, sulla linea di divisione di “influenza” sulla quale si erano accordati. In spregio al tanto decantato diritto delle nazioni alla “autodeterminazione”.
Il 23 agosto 1939 era stato firmato il patto di amicizia e di non aggressione fra la Germania e la Russia.
Il patto Ribbentrop-Molotov, presente per l’occasione il maresciallo Stalin che così commentava nel brindisi di occasione:
“So quando la nazione tedesca ami il suo Führer. Per questo desidero bere alla sua salute“.
Mentre si preparava a consegnare ai nazisti 570 comunisti e antifascisti tedeschi e austriaci emigrati in Urss, già bollati come spie e traditori, in segno di sincera buona volontà.
E del resto, secondo le direttive di Mosca, mica erano comunisti. Erano “trotskysti”, termine dispregiativo con il quale si indicavano tutti coloro che, in una maniera o in un’altra, si opponevano alla deriva nazionalista degli occupanti del Cremlino.
La storia è fatta di fatti.
E i fatti ci dicono che, grazie a quel patto, la Germania poté agire sicura di non dover temere nessun intervento sovietico sul fronte orientale, e quel fronte lo smobilitò concentrandosi nella sua campagna ad Ovest.
I fatti ci dicono anche che, in quei 22 mesi, la Russia continuò a mantenere stretti rapporti commerciali con la Germania sostenendo di fatto il suo sforzo bellico.
I fatti ci dicono che i comunisti dei paesi in cui vigeva la dittatura nazifascista furono abbandonati a se stessi, in balia delle canaglie nere al potere.
Hitler e Mussolini non erano più nemici ma alleati della Patria del socialismo.
E i comunisti dei paesi occupati dal nazi-fascismo invitati a collaborare con gli invasori.
22 mesi di buio da cancellare dalla memoria storica.
22 mesi di infamia.
22 mesi in cui la macchina di propaganda di regime raccontava al popolo russo, che di lì a poco sarebbe stato travolto e massacrato dalle armate naziste, che quei nazisti, in quella guerra che era già iniziata, erano i peggiori nemici del loro peggiore nemico e quindi amici con cui spartirsi le zone di influenza.
Stalin non era un politico lungimirante, nelle vesti di capo di Stato era un dilettante e finì col fare la figura dell’allocco, raggirato da un imbianchino che conosceva meglio di lui le dinamiche di una guerra fra nazioni.
Incassata una facile vittoria a occidente, e non essendoci nessun fronte da sostenere né eserciti di cui preoccuparsi, Hitler ruppe il patto e invase la Russia.
Il “nemico del mio nemico” si dimostrò infido e si dovette correre ai ripari. Si ricercò un altro nemico di quello che non era più un amico e iniziò la grande epopea antifascista.
E questa volta andò bene alla nazione Russa e alla sua classe dirigente.
Una manciata di anni. Poi la storia si rimise in cammino. Le forze materiali che la guerra aveva occultato si rimisero in moto.
Le borghesie rinacquero più forti di prima lì dove in apparenza erano state sfrattate, ringalluzzite dal nazionalismo che la guerra aveva suscitato.
La lotta di classe non si era fermata né era stata abolita col decreto di scioglimento dell’Internazionale.
Motore della storia, aveva continuato a agire. Il proletariato aveva smesso di condurla combattendo le sue guerre partigiane, ma la borghesia no.
E i muri crollarono come fossero di cartone.
Il “socialismo”, anch’esso ormai solo un involucro vuoto, evaporò nel volgere di una nottata.
Gli operai della Russia non si accorsero nemmeno che qualcuno gli stava sottraendo quel potere a cui avevano rinunciato da anni, delegandolo a una classe dirigente di approfittatori prodotta dal capitalismo di Stato spacciato per comunismo.
Nessuno scese in campo per difendere le conquiste di una rivoluzione che era stata tradita e pervertita.
La classe operaia sovietica, cosciente e organizzata non c’era più. I suoi dirigenti erano stati decimati e dispersi.
E beffa nelle beffe, non fu Napoleone o Hitler a prendere Mosca ma un alcolizzato eroe del “nuovo corso” a dimostrazione che ciò che crollò non fu la Russia sovietica immaginata da Lenin ma la sua caricatura.
Immagino che se avesse potuto ridere la mummia del vecchio bolscevico, lì nel mausoleo dove lo avevano relegato, lo avrebbe fatto. Ridere a crepapelle.
Lui glielo aveva spiegato in tutti i modi che “il socialismo in un solo paese” non avrebbe retto se non sostenuto dallo sviluppo impetuoso della rivoluzione mondiale.
Che era una scelta necessaria per la sopravvivenza immediata ma “provvisoria”.
Che senza la mobilitazione dei “proletari di tutti i paesi” quella esperienza non avrebbe avuto nessun futuro.
La borghesia ha giocato bene le sue carte.
E ha vinto.
Erano passati appena più di 20 anni dai giorni di Zimmerwald, quando un piccolo gruppo compatto di 8 socialdemocratici “eretici” lanciarono la parola d’ordine “trasformare la guerra imperialista in guerra civile”.
Ma già allora, negli anni della guerra dei “popoli liberi” contro i “popoli aggressori”, quei giorni apparivano lontani una eternità.
E oggi dopo un secolo, quanto lontani appaiono gli insegnamenti di Lenin, di Rosa, di Karl a chi è cresciuto con la vista appannata dai miti costruiti dai procacciatori di guerre per conto delle loro Nazioni?
Se non trasformi la guerra in rivoluzione sarà la guerra a trasformare te.
A fare di te un nazionalista al servizio delle borghesie dominanti che con la guerra provano a risolvere i LORO problemi interni e non certo i tuoi.
O vince la rivoluzione o vince la borghesia.
E a te rimane la soddisfazione degli allocchi.
L’aver contribuito a far vincere, quando va bene, la borghesia più “progressista” contro quella più reazionaria.
Quando va male, la fetenzia che puzza di meno.
Non più partigiani ma combattenti per il COMUNISMO.
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