Ripubblichiamo, dal sito “Refrattario e controcorrente” un articolo molto critico sulla recente svolta del PKK. Ovviamente la pubblicazione non significa condivisione (soprattutto per quanto riguarda i continui riferimenti a “nazione”, “patria” ed altri concetti piuttosto astratti e comunque estranei alla tradizione internazionalista).

“Non è evoluzione, ma collasso ideologico”, una visione che ribalta la narrazione dominante

La recente decisione del PKK (il Partito dei Lavoratori del Kurdistan) di sciogliersi e cessare la lotta armata è stata accolta con favore e approvazione dalla quasi totalità dei commentatori, a partire da quelli istituzionali fino a quelli militanti di sinistra. Personalmente rimango estremamente scettico riguardo a tali valutazioni, anche alla luce del contesto di una Turchia come quella di Erdogan sempre più autoritaria e reazionaria, nonché di una decisione adottata dalla dirigenza curda in modo repentino, verticistico e, come se non bastasse, senza garanzie della controparte.

Non ho tuttavia competenze specifiche sufficienti per esprimere un giudizio più preciso. Credo comunque di fare cosa utile proponendo qui sotto la traduzione integrale di un articolo di commento critico e che va in una direzione ben diversa da quella della narrazione dominante, scritto da un esponente del movimento di liberazione nazionale del Belucistan. Il movimento beluci ha sempre avuto nelle lotte dei curdi, ivi incluse quelle del PKK, un punto di riferimento fondamentale, anche perché il destino di nazione senza stato divisa tra più paesi è comune, così come l’orientamento progressista. Fino a poche settimane prima della svolta di Öcalan i media indipendentisti beluci pubblicavano approfondimenti sul Kurdistan con spirito di profonda vicinanza e solidarietà con le lotte dei curdi. Ora la delusione sembra forte. Indipendentemente dal fatto che se ne condividano o meno i contenuti, guardare alla svolta del PKK dall’ottica di un altro movimento di liberazione nazionale dalle caratteristiche simili è sicuramente utile. (la premessa è di Andrea Ferrario)

Resistenza curda, silenzio delle montagne o stagnazione della narrazione?

di Burz Kohi, scrittore beluci, da The Balochistan Post

Si dice che i popoli che hanno impugnato le armi nella storia siano diventati imperi o siano finiti in una tomba. La lotta curda è un urlo lungo decenni, sospeso in mezzo a questa tradizione: né impero né tomba, ma sepolta in un “nuovo accordo”. Il PKK, che per anni è stato percepito come un simbolo, ora tenta di liberarsi di quello stesso simbolo. Coloro che un tempo dormivano sulle vette delle montagne con gli occhi vigili sono oggi intrappolati nei sogni illusori delle città. Non si tratta solo di una resa delle armi, ma della smobilitazione di un’intera ideologia: montagne, donne, identità e rivoluzione sepolte sotto il muro di un “contratto sociale”.

Alcuni chiamano questo arretramento un processo di evoluzione democratica, segno di saggezza politica matura. Ma non è né evoluzione né saggezza. È il collasso ideologico di un’organizzazione che, dopo essere passata per le prigioni della leadership, i limiti posti alla narrazione e il dolce veleno del sistema globale, si è trasformata in un “alleato moderato”.

Dopo anni di resistenza armata, i curdi dichiarano oggi di accettare i principi di uguaglianza, autonomia culturale e partecipazione democratica all’interno dello stato. Quello che ora chiamano “confederalismo democratico” è in realtà una fuga dall’idea stessa di patria, che era il cuore della loro lotta. Ma la vera domanda è: perché un popolo che per decenni si è visto come entità al di là dello stato dovrebbe ora cercare un riavvicinamento proprio con quello stato?

La risposta non sta nella stanchezza né in un ingenuo desiderio di pace, ma in un processo più profondo che riguarda la coscienza, in cui la chiarezza ideologica della resistenza è stata ingarbugliata da strategie statali, inganni globali e frammentazione intellettuale interna, al punto da ridefinire il significato stesso dell’identità nazionale.

La resistenza nazionale curda, in particolare sotto la guida del PKK contro la Turchia, è considerata uno dei movimenti più organizzati, ideologici e duraturi del Medio Oriente degli ultimi cinquant’anni. E’ nata in un’epoca in cui l’identità curda in Turchia non era solo vietata, ma cancellata da lingua, cultura e territorio. In risposta al vuoto creato dalla repressione statale, il PKK si era imposto non solo come organizzazione militare, ma come istituzione per la riorganizzazione della società curda, offrendo un’identità unificata in ambito militare, sociale, educativo e ideologico. E, in larga parte, ci era riuscito.

Ma ciò che in un’epoca è simbolo di forza può, nella successiva, trasformarsi in catene. Con il tempo, entrando nell’arena della politica globale, il PKK ha vissuto una tensione silenziosa tra autonomia interna e pressioni geopolitiche esterne. Questa tensione ha preparato il terreno per il seme del ripiegamento.

La posizione attuale del PKK – l’abbandono della richiesta di indipendenza piena e la scelta di diventare un “partner pacifico” nel quadro costituzionale turco – non è solo una tattica politica, ma una decisione ideologica frutto di molteplici trasformazioni.

Il primo fattore è la lunga stanchezza della guerra, provocata da incessanti aggressioni da parte dello stato, instabilità interna e perdite organizzative. Quarant’anni di lotta armata hanno lasciato un peso enorme sulla psiche collettiva, generazioni cariche di sogni non realizzati. A un certo punto, la leadership ha dovuto porsi la domanda: possiamo ancora permetterci di pagare questo prezzo?

Il secondo, più delicato fattore, è stata la crescente dipendenza del movimento da un solo individuo dopo l’arresto di Öcalan. Il pensiero che aveva unito il movimento si è trasformato nell’esperienza solitaria del carcere: più pragmatico, più astratto, più allineato al “linguaggio universale” del discorso globale. Gli scritti ideologici di Öcalan, un tempo fiumi di filosofia rivoluzionaria, sono stati rifusi in richieste “accettabili”: diritti umani, autogoverno locale, uguaglianza culturale.

Il terzo punto decisivo è la scena globale. Il PKK è stato riconosciuto come forza efficace contro l’ISIS in Siria, ma a caro prezzo: quel riconoscimento ha scavato nelle fondamenta ideologiche del movimento. Il sostegno occidentale, per quanto strategicamente necessario, ha costretto il PKK a cambiare la richiesta d’indipendenza per diventare “pragmatico” e “accettabile per l’Occidente”. Gli è stato detto che l’idea di stato è superata e che le “unità autonome” sono il volto moderno della politica. Il PKK ha accettato. E da quel momento, la lotta si è rimpicciolita da movimento di liberazione nazionale a una manciata di consigli distrettuali.

La nazione beluci, trovandosi oggi a un crocevia simile, deve interrogarsi non solo su ciò che i curdi hanno guadagnato o perso, ma su ciò che potremmo perdere noi. Il movimento per la libertà beluci, giunto alla sua terza e più intensa fase di resistenza, deve decidere dove posizionarsi nel triangolo tra coerenza ideologica, avanzamento militare e consenso popolare.

Che lezione possono apprendere i beluci?

A mio avviso, oggi i beluci devono forgiare la propria narrazione non con le parole, ma con le decisioni. Dobbiamo evitare ogni strategia che finisca per somigliare a quella del nemico. Tavoli di negoziato, diplomazia internazionale, partecipazione democratica hanno senso solo se poggiano su una verità innegabile: i beluci sono una nazione, e la sopravvivenza delle nazioni non si fonda solo sull’uguaglianza, ma sulla sovranità. Il PKK ha rinunciato a questo principio; il movimento beluci deve custodirlo gelosamente. Perché senza sovranità, l’uguaglianza non ha garanzie.

Dobbiamo strutturare il nostro movimento in modo che, anche se domani la nostra leadership venisse incatenata dal nemico, la lotta non solo sopravviva ma si rafforzi intellettualmente. Dobbiamo rifiutare ogni narrazione che trasformi il sacrificio nella moneta della pace. Dobbiamo sapere che nessuna organizzazione al mondo resta invincibile se il suo nucleo ideologico non è coerente con le azioni sul terreno. Il PKK ha rotto questa coerenza, e da lì ha avuto inizio la sua discesa storica.

I beluci devono imparare dal declino curdo che il nemico non attacca solo con fucili e artiglieria, ma anche con l’astuzia intellettuale. Quando vi dicono che la libertà è un’idea sorpassata, bisogna rispondere: non diventeremo vecchi schiavi del vostro nuovo mondo. Quando vi consigliano di conservare l’identità solo entro i confini della cultura, la risposta deve essere: l’identità senza potere non è che un rituale vuoto.

Il destino curdo è una pagina di storia che i beluci devono leggere con attenzione. Il futuro della nostra lotta si trova ai margini di quella pagina, tra le righe non scritte ma che riecheggiano nella coscienza del lettore. Dobbiamo sapere chi siamo, dove stiamo andando, e a quale prezzo. Solo questa consapevolezza potrà guidarci su un cammino senza arretramenti né sconfitte – un cammino che si arresta solo con la libertà.

Ci si deve allora chiedere: quale posizione dovrebbero assumere oggi i beluci nei confronti del PKK e della questione curda? Siamo testimoni dei sacrifici storici dei curdi – la loro lotta coraggiosa e nobile merita rispetto. Ma rispetto e imitazione non sono la stessa cosa.

La scelta dei curdi è stata la loro: la loro terra, il loro nemico, le loro condizioni. Da loro possiamo apprendere quando piegarsi diventa pericoloso, quando il dialogo col nemico è avvelenato, e quando il campo di battaglia delle narrazioni diventa più insidioso di quello delle armi. Ma il nostro cammino non seguirà le loro orme: sarà tracciato con il nostro sangue. La nazione beluci non cerca un posto in un angolo della mappa dell’ONU. Cerca una libertà degna del prezzo pagato dai suoi martiri.

Dobbiamo allora adottare un tono né servile né arrogante, ma così dignitoso che il nemico lo percepisca come una lama e l’alleato come uno specchio. Non sceglieremo né il silenzio né il rumore. Il nostro tono sarà quello che echeggia dietro al fucile di un esercito nazionale e batte nel petto della storia di una nazione.

I beluci devono essere chiari: riconosciamo i sacrifici del popolo curdo, ma prendiamo le distanze – intellettuali e strategiche – dalla loro recente traiettoria politica. Questa distanza non è ostilità: è dignità. Non saremo un movimento che piega la propria bandiera per ottenere accettazione globale, ma uno che resta saldo nei propri principi, anche se segnato dalle ferite. Il risultato curdo è sotto i nostri occhi. Ora dobbiamo decidere che il nostro traguardo sarà diverso dalla loro fine.

Non dobbiamo esitare a dire che il movimento nazionale beluci resta una lotta senza compromessi per l’indipendenza completa. Rifiuteremo ogni compromesso che tenti di seppellire l’idea di libertà sotto il manto dell’“autonomia locale” o delle “riforme democratiche”. E dobbiamo imparare questo: ogni volta che il nemico apparecchia il tavolo del negoziato, sotto quel tavolo sono sempre nascoste delle armi.

Per i beluci, il ripiegamento del PKK non è un’occasione per critiche, ma una lezione. La lezione che se la leadership è incarcerata, se la narrazione si piega alla volontà delle potenze globali, se il sacrificio viene scambiato con legittimità politica, allora la libertà diventa soltanto un sogno. La nazione beluci deve scegliere il proprio cammino. Un cammino che non emerga dall’approvazione del nemico, dalla convenienza dell’alleato o dall’“accettazione” globale, ma dall’esistenza nazionale, dalla comprensione storica e da una determinazione incrollabile.

Da oltre tre anni il sito “Refrattario e Controcorrente” ti informa, ti documenta, ti fornisce materiale utile ad un approfondimento della realtà nazionale e internazionale, un servizio tanto più necessario in un contesto come quello della sinistra italiana, segnato da un provincialismo linguistico ma anche politico, inaccettabile sempre e soprattutto oggi, quando l’inasprimento della conflittualità interimperialista, il precipitare della crisi climatica, la crescita dell’estrema destra, e la pessima situazione italiana rendono indispensabile cogliere gli spunti che ci vengono dal resto del mondo, senza chiuderci nelle nostre “certezze”.
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