Riprendiamo, dal sito La Bottega del Barbieri, un’altra testimonianza del genocidio in atto contro i palestinesi oppressi da parte del governo sionista. Un ulteriore tassello da aggiungere alla terribile sconfitta iniziata 77 anni fa e, temiamo, arrivata al suo esito finale dopo il 7 ottobre 2023.
Ho ancora le mani per scrivere. Testimonianze dal genocidio a Gaza
A cura di Aldo Nicosia
Edizioni Q, 2025, pp. 280.
Introduzione di Aldo Nicosia
“Ho ancora le mani per scrivere. Testimonianze dal genocidio a Gaza” (1), raccoglie 222 testi di numerosissimi autori di Gaza, scrittori, poeti, giornalisti o semplici cittadini. Il sottotitolo dell’originale sottolinea che si tratta di testimonianze min dakhil Ghazza (“dall’interno di Gaza”), cioè scritte da palestinesi che vivono nella Striscia.
Diffuse perlopiù dai social networks, sono riportate in ordine cronologico, coprendo un periodo che va dall’ottobre del 2023 fino al settembre 2024. Mutuando un’espressione tipica del linguaggio militare, esse sono state composte a “distanza zero” dal teatro degli eventi che li vedono coinvolti, non da semplici spettatori (2), ma da attori, testimoni oculari, auricolari e con tutti gli altri sensi, sensazioni ed emozioni (3).
A questo proposito vale la pena soffermarsi sul termine arabo shàhid che traduce “testimone” e ha la stessa radice di “martire”, shahìd: se non fosse per l’accento tonico sarebbero omofoni. Ciò ci evoca l’etimologia greca di “martire” che indica chi testimonia la propria fede o i propri ideali, sfidando la persecuzione, la prigionia, la tortura e la morte. Alcuni degli autori di questi scritti sono anch’essi testimoni e martiri, uccisi durante i massicci bombardamenti israeliani su Gaza, seguiti al 7 ottobre 2023.
La necessità di diffondere tali testimonianze, e con esse mantenere il ricordo di chi le ha scritte, è stata la molla morale che mi ha spinto a coordinare il presente progetto di traduzione. Ho coinvolto quarantatré traduttori italiani e arabi (compresi alcuni studenti freschi di laurea magistrale), affinché queste testimonianze venissero pubblicate nel più breve tempo possibile in Italia, dove squallidi e conniventi media, salvo rare eccezioni, ignorano un genocidio che si sta consumando in diretta, trasmesso da coraggiosi giornalisti in loco (finora lo Stato sionista ne ha fatto fuori più di 200) (4).
Perché e per chi scrivere?
“Ho ancora le mani per scrivere. Testimonianze dal genocidio a Gaza” è una sorta di zibaldone di diari intimi, poemi struggenti, elogi ed elegie di parenti o amici uccisi, mere richieste di aiuto, consigli, meditazioni, critiche, denunce, manifesti apartitici, etc.
Solo alcuni di essi potrebbero rientrare nel genere letterario delle memorie, e cioè quando gli autori conoscono già la fine della microstoria che raccontano. Il resto delle testimonianze condivide col genere dei diari una conoscenza parziale dei fatti e delle esperienze raccontate, limitata ovviamente al momento della scrittura.
I diari sono caratterizzati da una certa immediatezza emotiva che manca nelle memorie.
In un certo senso i primi riescono ad incanalare il flusso di coscienza di chi sta vivendo esperienze indicibili e terribili, mentre le seconde risentono del filtro del tempo e sono cariche di traumi che sopraggiungono in seguito.
La prosa dei diari è solitamente informale e mima il linguaggio parlato. Molti testi della presente raccolta sono stati scritti di getto, a volte presentano errori grammaticali e sono infarciti di espressioni in dialetto palestinese, soprattutto nel discorso diretto, oppure alternano livello standard e dialettale (code-switching o code-mixing) (5).
Ciò consente una connessione più intima con i sentimenti ed emozioni di chi scrive, garantendo così ai brani una certa freschezza, autenticità e un’immediatezza nella narrazione.
Dal 7 ottobre 2023 i profili dei cosiddetti “social” pullulano di testi vari in cui i palestinesi cristallizzano le terribili esperienze che vivono nel loro quotidiano, provati dalla fame, dall’oppressione, sotto una campagna di pulizia etnica e di sterminio (6).
Nell’introduzione all’originale arabo, il poeta giordano-palestinese Musa Hawamdeh, uno dei curatori dell’opera e fondatore della casa editrice giordana Tadween, scrive: «Questi diari mostrano chi sono i veri esseri umani e chi i mostri assassini, chi sono le vittime e chi i carnefici. (…) Noi sogniamo di liberare la nostra umanità (…). Vogliamo fermare la barbarie eil mostro che non vuole riconoscere il diritto di questo popolo al proprio paese e al suo sole» (7).
Gli abitanti di Gaza sanno che scrivere è un lusso, tra le perdite di tanti cari e la paura. Lo fanno anche per sentirsi vivi, per proteggere il cervello dalla ruggine, sapendo bene di avere «pochissimo tempo a disposizione» (8). Ma il dilemma più grande è come far sentire la propria voce al mondo.
Se le immagini non bastano, come possono le parole aprire una breccia nel cuore dei lettori? E in più la lingua non riesce neanche a descrivere tutto ciò che accade, ad esprimere l’assurdità del reale.
Patria di carta
Mahmud Darwish (9) ha scritto che la Palestina è un paese fatto di parole: la letteratura è sempre stata un modo per elaborare i traumi e sublimare il reale (10). Qualcuno invece la considera un paese di immagini e magari ancora la sogna, da tempo:
«Vent’anni che aspetto una patria che riunisca tutti noi, una patria per cui vivere, sognare, crescere e ridere». In altri, invece il senso di disillusione è forte: «Non credo che si debba morire per la patria».
Gaza è la terra degli aranci tristi (11), la cisterna infuocata sulle cui pareti gli abitanti bussano tante volte, ma nessun sente e viene in aiuto: è l’immagine del famoso romanzo di Ghassan Kanafani, Uomini sotto il sole (1963) (12), che rimbomba nelle menti di tanti autori del volume. Una questione ancora attuale, dopo tanti decenni di occupazione.
Il palestinese non ha scelto volontariamente la guerra, ma da più di settant’anni sacrifica la sua vita per difendere la patria.
La resistenza è un dovere nei confronti di se stessi e del proprio popolo.
Eppure dal 7 ottobre i giornalisti e/o i pennivendoli delle tv e stampa italiane ignorano il genocidio di Gaza, limitandosi ad avallare il cosiddetto “diritto di Israele all’autodifesa”.
Non sanno, forse fanno finta di dimenticare che la lotta, anche armata, è un diritto legittimo di ogni popolo che vive sotto occupazione.
«Vogliamo un palestinese che vendichi la morte del suo popolo con la vita e l’esistenza»: a Gaza tanti seppelliscono i propri cari e tornano a lavoro, come se nulla stia succedendo. Eppure costoro non sono angeli ma persone normali, o forse aspirano ad esserlo: «Il vero eroe è il cittadino comune che ogni mattina va alla ricerca di una risposta alla domanda: «Come resistere fino a domani?».
La non vita
I testi della presente raccolta traboccano di alienazione, angoscia, solitudine, dolore, nostalgia (13). La guerra uccide anche il piacere e il gusto delle cose e dei cibi (quando si trovano). Visi spenti, rughe, sopracciglia arcuate, scarso sonno per le continue esplosioni di quindici lunghi mesi. Si beve acqua mista a fango, «sporca di Storia», della memoria storica della Palestina. I bambini vengono perquisiti nei vari checkpoint, comprese le bambole che hanno in mano: è una guerra di cannoni contro giocattoli.
I neonati sopravvissuti non hanno mai visto una casa, gattonano nelle tende senza un muro cui appoggiarsi quando provano a camminare da soli.
A settembre 2024, dopo lunghi mesi di guerra, un figlio trepida perché sta per rivedere sua madre, ma sa che non potrà abbracciarla forte, perché ha perso una mano. Quando la incontra scopre che lei è diventata cieca.
«Ci sveglieremo mai da questo lungo incubo?» (11): molti non sanno se stiano vivendo nella realtà, e si considerano attori protagonisti di un film horror, la cui sceneggiatura viene dall’inferno. Ovunque si sente odore di polvere da sparo e di sangue, quello vero, non tintura: «tutte le scene che vedete non sono effetti speciali».
Per chi ancora nutre una minima speranza di rivedere casa propria o i ruderi che ne rimangono, rimane il dubbio atroce di non riuscire più a riconoscerla, come pure la propria strada o il quartiere: «La nostra vita è diventata un cumulo di pietre / I nostri sogni sono sparsi ormai per strada / Il nostro futuro è sepolto tutto le macerie» (14) .
Per quindici mesi i gazawi sono costretti ad evacuare continuamente, ma per andare dove?
Dove si trova un posto sicuro? Si scappa senza meta verso un miraggio sconosciuto: a Gaza si svolgono «le Olimpiadi senza premi, né ori, né tifosi e nemmeno linea del traguardo».
I bambini fanno salto in lungo. Anche le donne corrono, spesso con i neonati in braccio, schivando carcasse e cadaveri (corsa a ostacoli). Gli uomini nuotano a farfalla per recuperare un pasto gettato in mare.
Dopo il 7 ottobre un ministro israeliano ha definito i palestinesi “animali umani”, ma costoro sono ormai consapevoli che mentre asini, cavalli, buoi hanno un prezzo, loro non valgono niente, agli occhi del pianeta. Una menzione speciale ricevono gli asini, perché trasportano feriti, cadaveri, oggetti pesanti senza chiedere niente in cambio. Sono gli unici a condividere con gli abitanti di Gaza morte, malattie e l’eterna diarrea.
Eppure c’è chi nega loro un po’ di acqua, a causa della sete che affligge la Striscia.
Con la maggior parte degli edifici distrutti o pericolanti si vive e si dorme all’aperto o in tenda. Ognuna di esse porta nelle sue pieghe una storia di perdita, di oblio forzato e di nostalgia. Poi di sera il tempo si arresta per un attimo: «Si spengono le luci e si accendono i ricordi».
In un angolo un’anziana seduta racconta a se stessa della sua vecchia casa, dell’albero di olivo che abbracciava ogni mattina. Tra le macerie e le tende proliferano insetti, topi, vipere, scorpioni, mosconi blu che si nutrono di cadaveri.
Inoltre nella calura della tenda «soffri di mal di testa, pressione bassa o alta, pustole di tutti i tipi, problemi ai reni, dolori alle ossa (…), un pianto represso ogni volta che ti senti soffocare in un fiume di sudore».
Ma a molti i topi ormai non fanno più paura, quella viene solo dall’uomo.
C’è anche chi cerca una cella di carcere vuota, al posto della tenda, meglio se d’isolamento.
Testimonianze, diplomi e martirii.
Il cittadino di Gaza, sospeso da oltre quindici mesi tra una parvenza di vita e la morte, si chiede: «Quale male abbiamo commesso per meritarci tutta questa sofferenza?». È consapevole dell’isolamento internazionale e del tradimento dei governi arabi: «Il mondo attende il tuo silenzio o la tua morte. Non hai altre opzioni possibili».
Durante il 2024, ma già anche nel corso degli attacchi israeliani degli ultimi decenni contro i civili, il palestinese disilluso ha imparato sulla propria pelle che bisogna fare affidamento non sul resto del mondo, ma solo sulla giustizia divina.
Solo una profonda fede ha fatto radicare in lui l’idea che il sacrificio di vita, per il suo popolo e il suo paese, non è mai vano: si tratta quindi di un martirio, non di una semplice morte.
Proprio per rispettare tale visione della vita, in questo testo si è scelto di tradurre sempre l’idea del “martirio” (shahàda) e di “martire” (shahìd), ogniqualvolta ricorrano questi due termini. Considerando che il campo semantico della radice araba sh-h-d, include, oltre a al concetto di “testimonianza, attestazione di fede”, quello di “certificato, diploma”, gli autori di alcuni testi hanno quindi generato parallelismi e richiami reciproci tra il martirio di molti scolari e studenti e i loro diplomi.
Questi ultimi non sarebbero altro che muti “testimoni” della speranza infranta di un brillante futuro professionale, in un paese come la Palestina, dove i genitori investono con orgoglio sul “capitale intellettuale” dei figli.
Così una madre si rivolge alla figlioletta martire: «Questo è il tuo diploma che mi chiedevi ogni giorno, per baciarlo e stringerlo a te. (…) Nonostante le macerie ridotte in polvere, si è preservato».
E un’altra madre rincara: «L’energia dei nostri figli dava luce a tutto un pianeta. Volevamo che prendessero il diploma» , convinta che il martirio dei figli di Gaza non potrà sostituire un brillante titolo di studio né compensare vite spezzate.
Agli studenti superstiti, una professoressa vuole mettere “eccellente” in biologia, perché sanno ricomporre lo scheletro dei cadaveri meglio di chiunque altro. Poi saranno i freezer per i gelati ad accoglierli perché non si sa più dove metterli.
Ma alla vista del sangue ci si abitua in fretta e spesso subentra una certa atarassia che non è altro che un tentativo di autodifesa dalla follia.
Gli occhi si abituano a nuotare nel sangue, senza bagnarsi: «Siamo la vittima eterna e impossibile, che piange in silenzio, sì, ma grida fino a squarciare la veste del cielo».
C’è anche chi dubita della sua fede: «La tua religione ti ha detto che Dio è assetato del nostro sangue e che il suo ‘appagamento’ prevede la nostra morte? Ehi, ma quale Dio adori?».
Il dolore vissuto è così forte da stravolgere la mente e far perdere qualsiasi nesso con la realtà: «Ho visto i morti della città camminare accanto a me cercando i propri resti, mentre io con ancora tutti gli arti del corpo intatti cercavo me stessa, ma ho trovato soltanto un cadavere rigido».
La volontà di molti è quella di morire interi, non a brandelli: «Se vi giungesse la notizia del mio martirio, non venite a darmi l’addio a meno che io non abbia un corpo intero e perfetto, come mi avete conosciuto».
Memoria, oblio o speranza?
Con ogni preghiera d’addio muore anche un pezzo del corpo di chi è sopravvissuto: «Questo dolore è troppo grande per il raglio dei nostri asini. Troppo grande per le nostre fantasie, per i nostri sogni di un paese di libri, di colori, di quadri. I cuori dei gazawi non ce la fanno più a contenerlo tutto».
Non c’è più energia per esprimere tristezza. Se la memoria non ha più spazio, si chiede alla guerra di concedere una tregua per abbracciare mamma e papà per la prima e l’ultima volta, o vivere una sola notte d’amore nella vita.
Una giovane ricorda l’amato che sfidava i rischi della guerra. Non riesce a dimenticarlo, gli parla come se fosse ancora vivo. Adesso non ha più paura dei missili.
In un dialogo tra due donne, una chiede all’altra:
«Ma come fai a lavare le pentole con la sabbia?»
(…)
«Noi e la sabbia siamo della stessa sostanza»
(…)
«Ah, se si potesse ripulire così la memoria, strofinarla con la sabbia per dimenticare!».
«Noi non vogliamo dimenticare, non vogliamo morire».
In quest’atmosfera di desolazione e disperazione, una rara voce di speranza viene da un solenne inno alla vita che giustamente dà il titolo al libro: «Ho ancora le mani per scrivere, abbracciare, gesticolare al ritmo delle canzoni di Umm Kulthum (15) mentre sorseggio il tè, per realizzare il mio sogno di guidare un’automobile, e non per sollevare pietre e cercare i miei familiari sopravvissuti e le mie cose (…). Ho ancora gli occhi per osservare gli amanti e la crescita dell’albero che ho piantato nel cortile di casa, e non per vedere membra disseminate qua e là…»
****
Note:
1) Autori vari, Li yadan li-aktub. Shahadat min dakhil Ghazza, Dar Tadwin, Amman, 2024.
2) Una raccolta di 22 cortometraggi, documentari e fiction, prodotti nel 2024 dal noto regista Rashid Masharawi, porta il titolo di Ghazza, min al-masafa sifr (“Gaza da distanza zero”), che è stato tradotto in inglese con “Gaza from Ground Zero”. I registi di questi corti, come gli autori di queste testimonianze, vivono attualmente – nella più rosea delle ipotesi – a Gaza.
3) Sul ruolo dei sensi della vista e dell’udito nel processo di ricostruzione storica, cfr. Arrigo Diego Manfredini, “Qui est sensus acerrimus. Imparare e capire con gli occhi, da Omero a Giustiniano”. Paolo Ferretti, Mario Fiorentini (a cura di), Formazione e trasmissione del sapere: diritto, letteratura e società. Ed. Università di Trieste, 2020, pp. 87-117. Manfredini cita una frase del personaggio di un’opera di Plauto, Truculentus, in cui Stratofane, rivolgendosi agli spettatori, dice di appartenere a quella categoria di soldati a cui le guerre piace farle e raccontarle non per sentito dire, ma per avervi preso parte (p. 90). In un altro passaggio, riporta un’opinione attribuita a Eraclito, che “sembra inclinare per una posizione più scettica sulla verità della conoscenza se manca la ψυχή. Cattivi testimoni sono agli uomini gli occhi e gli orecchi se hann anime da barbari” (pp. 91).
4) Cfr. Committee to Protect Journalist, Journalist casualties in the Israel Gaza war, 13 ottobre 2023.
5) Sulla traduzione di difficili espressioni del dialetto palestinese, ci siamo avvalsi dell’esperienza di traduttori madrelingua che ringraziamo: Souzan Fatayer, Nabil Salameh, Nabil al-Mahayini e Ihab Halawa.
6) Un volume simile al nostro si intitola Gaza, Gaza, Gaza, a cura di Mohammed Zaqzooq e Mahmoud al-Shaer. Si tratta di un numero speciale di ArabLit Quarterly, a cura di Marcia Lynx Qualey, vol.6, n. 1, spring 2024, in collaborazione con Majalla 28, una rivista letteraria di Gaza.
7) Li yadan li-aktub. Shahadat min dakhil Ghazza”, p. 8.
8) Da qui in poi, i brani qui citati tra virgolette sono tratti dalla presente raccolta, e solo in un caso sono presentati con traduzione mia.
9) Tra le più recenti raccolte di poesie tradotte segnaliamo Mahmud Darwish, La saggezza del condannato a morte, a cura di Tareq al Jabr, Sana’ Darghmouni, Emiliano Cribari, Emuse, 2022.
10) Cfr. Elisabetta Bartuli, “Un paese fatto di parole”, in Palestina, volume speciale de The Passenger, Iperarborea, Milano, 2023, pp. 87-102.
Sulla poesia palestinese cfr. Francesca Maria Corrao (a cura di), In un mondo senza cielo. Antologia della poesia palestinese, Giunti , Firenze, 2007, e Simone Sibilio, Poesia araba moderna e contemporanea, IPO, Roma, 2022.
11) Ghassan Kanafani, La terra degli aranci tristi, trad. di C. Brancaccio, Cagliari, Associazione Culturale Amicizia Sardegna – Palestina, 2012.
12 Ghassan Kanafani, Uomini sotto il sole, trad. di I. Camera D’Afflitto, Sellerio, Palermo, 2003.
13) Cfr. Aldo Nicosia, “Tabula Gaza. Frammenti di un ****cidio”, in Dialoghi Mediterranei, n. 72, gennaio 2025.
Per fornire un’idea sommaria degli argomenti trattati, ho proceduto ad un’analisi quantitativa della frequenza di alcuni termini, classificati in due gruppi: cose tangibili e cose astratte.
14) Nel testo (20) viene adottata la seguente traduzione: «Le nostre vite fattesi cumulo di pietre / i nostri sogni all’addiaccio notturno su strade / Il nostro futuro è sepolto sotto le macerie».
15) Qui soprannominata “la Signora”. La più famosa cantante egiziana, attiva dagli anni ’20 ai ’70, ormai un mito nei Paesi arabi.
Scopri di più da Brescia Anticapitalista
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.